sabato 31 marzo 2018

L’ibisco viola” e “Americanah” di Chimamanda Ngozi Adichie.



Chimamanda Ngozi Adichie (se avete dubbi su come si pronunci correttamente il nome potete scoprirlo  qui è la star del momento.
Avrete certamente sentito parlare del suo saggio “ Dovremmo essere tutti femministi”( pubblicato in Italia da Einaudi), adattamento dell’ormai famosissimo discorso" We should all be feminist" tenuto nel 2012 durante il ciclo di conferenze TEDx, che ha ispirato il brano ”Flawless” di Beyoncé.
Chimamanda Ngozi Adichie nasce il 15 Settembre del 1977 a Enugu, Nigeria, quinta di sei figli di genitori di etnia Igbo: James Nwoye Adichie, primo professore di statistica presso l’università della Nigeria con sede a Nsukka, e Grace Ifeoma , prima donna a lavorare presso la medesima istituzione con il ruolo di cancelliera.
Chimamanda, completati gli studi secondari, si iscrive alla facoltà di medicina e farmacia, che frequenta per un anno e mezzo, periodo nel quale contribuisce come editore alla rivista “The Compass”, pubblicazione degli studenti cattolici.
A diciannove anni si trasferisce negli Stati Uniti per studiare comunicazione alla Drexel University di Philadelphia e successivamente all’ Eastern Connecticut State University, dove si laurea in comunicazione e scienze politiche nel 2001 “ summa cum laude”. Termina il suo corso di studi alla Johns Hopkins University di Baltimore ottenendo la laurea magistrale in “scrittura creativa”.
Durante l’ultimo anno di studi presso la Estern Chimamamnda lavora al suo primo romanzo “ , pubblicato nel 2003. Il libro raccoglie un grande successo di critica e di pubblico, tanto da giungere finalista al Orange Fiction Prize ed essere insignito del Commonwealth Writers’ Prize for Best First Book (2005). Il secondo romanzo, “La metà di un sole giallo”,ambientato durante la guerra del Biafra, uscito nell'Agosto del 2006 in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, è stato poi pubblicato , come già prima “L’ibisco viola”, anche in Nigeria. Nel 2013 arriva il suo terzo, acclamatissimo libro: “ Americanah”. Sposata, è madre di una bimba. Vive tra al Nigeria, dove insegna “scrittura creativa”e gli Stati Uniti . ( Fonte: sito ufficiale di Chimamanda Ngozi Adichi)

Ho letto, in rapida sequenza “L’ibisco viola” e “ Americanah”. Di entrambi i romanzi consiglio, naturalmente, la lettura.
L’ibisco viola”, con grande garbo e freschezza, ci introduce nella realtà complessa e claudicante della Nigeria post coloniale attraverso lo sguardo della quindicenne Kambili, che vive, insieme alla madre e al fratello, prigioniera del fanatismo religioso del padre Eugene, editore dell’unico giornale indipendente del paese, uomo di irreprensibili virtù e encomiabile generosità in pubblico, ma crudelissimo padre-padrone tra le mura domestiche.
Americanah” è invece la storia di Ifemelu, studentessa nigeriana che, grazie ad una borsa di studio, si trasferisce in America, dove diventa una blogger di successo prima di decidere il rientro nel paese di origine.
Qui ho fatto  un breve punto sulla “letteratura afroamericana”.
La prima cosa da specificare, a proposito di Chimamanda Adichi è che il tema razziale, centrale appunto in gran parte della letteratura afroamericana”, non è argomento preferenziale in entrambe i romanzi di cui parlo. Ifemelu, la protagonista di Americanah, “nera non americana” come la sua autrice, scopre , infatti, il razzismo solo dopo che è arrivata negli USA, dove “ anche se un ragazzino bianco e la ragazzina nera crescono nello stesso quartiere, la razza è di primaria importanza”
Leggere Chimamanda Adichi è prima di tutto ed essenzialmente entrare nel continente africano attraverso la porta nigeriana per buttare uno sguardo sulle problematiche che lo affliggono: instabilità politica, corruzione dilagante a livello governativo e burocratico, disuguaglianze sociali e arretrata condizione femminile. Ma c’è dell’altro, tanto altro che si coglie nella rappresentazione che l’autrice fa del quotidiano: interessanti i riferimenti alle varie lingue parlate dai diversi gruppi etnici, all'uso che viene fatto della lingua inglese a secondo della classe di appartenenza, così come preziosi i cenni sui legami gentilizi e famigliari alla base della struttura sociale. Appassionante, per un certo verso, anche la finestra che l’autrice apre sul rapporto che le ragazze hanno con il proprio corpo e soprattutto con i capelli: la percezione, ad esempio, dell’acconciatura “afro” come un problema da parte di alcune o un valore aggiunto da parte di altre ( la scelta di esibirla assume, infatti,il significato di riappropriazione di una identità femminile non stereotipata, per divenire in Africa, simbolo di emancipazione e in America, di rivendicazione dei diritti razziali). Infine non affatto superflue le indicazioni sugli esponenti della letteratura e della musica pop-rock più seguiti dalle nuove generazioni.
L’Africa è un crogiolo variegato di popoli, di tradizioni, di culture semisconosciute. La voce di Chimamanda, fresca e intelligente, è una opportunità da cogliere al volo per averne un assaggio interessante.


martedì 27 marzo 2018

"The hate u give" di Angie Thomas

Brevemente sul perchè dovreste regalare questo libro ai vostri ragazzi e sulle ragioni per cui potrebbe piacere anche a voi.
L'editoria lo classifica come " young adult", questo significa che in libreria lo troverete nella medesima sezione di Harry Potter, della Saga di Twilight, di Divergent, di Tutta colpa delle stelle, di Wonder, della  saga di Percy Jackson, per citare solo alcuni dei romanzi che, se avete figli adolescenti, sicuramente sono già in casa vostra.
L'America si riscopre in questi anni razzista. Letteratura  e narrativa (al principio fu la Morrison con il suo ormai  leggendario " Amatissima") raccolgono le voci di molti autori sul tema  .
Premiate in UK la scelta di Beatty di raccontarlo, nel suo "Lo schiavista",  sfruttando l'ironia,  e in USA quella di Whitehead di rifarsi al realismo magico nella sua pluri-awarded "Ferrovia Sotterranea". Interessante  l'originale prospettiva da semi- outsider di Chimamanda in "Americanah"  e quella  raffinata  di Moehringer in "Oltre il fiume".
Necessitava, a questo punto della variegata narrazione, una autentica voce dal ghetto che tirasse dentro la discussione anche i più giovani, accattivandoli grazie ad un romanzo dalle reminiscenze autobiografiche con tutte le carte in regola per conquistarli.
La storia si rifà a molti casi di cronaca nera giunti dall'America fin alle nostre orecchie: un poliziotto bianco uccide un ragazzo di colore durante un posto di blocco.
Eccipiente: love story  interrazziale che male non ci sta, anzi adempie a due funzioni: soddisfare la vena romantica dei quindicenni e arricchire di un'altra angolazione  le riflessioni sul tema del razzismo.
La lingua e la scrittura sono agili e scorrevoli senza mai essere puerili. Anche la leggerezza è tenuta bene al guinzaglio, impedita dallo scadere in banalità.
E se tutto questo non vi bastasse ancora, una ultima considerazione personalissima. Il vantaggio che viene a  noi di una certa età nel buttare l'occhio a una narrativa che riporta indietro a quando si era lettori non così smaliziati e diffidenti come oggi, ma non per questo  meno esigenti, e si tifava per un libro come fosse il personale testo sacro, divorati dal fuoco della passione: l'opportunità di interrompere la fuga in solitaria per ricongiungersi ai figli.

lunedì 26 marzo 2018

"Le assaggiatrici" di Rosella Postorino


Il consiglio di oggi è "le assaggiatrici". Ve lo propongo innanzitutto perché è scritto molto, molto bene. Un'andatura elegante, pacata. Una caratterizzazione dei personaggi, maggiori e minori, ben armonizzata. Un plot ( intreccio narrativo) per ordire il quale l'autrice  gioca bene le sue carte, introducendo al momento giusto piccoli elementi di sorpresa che mantengono il lettore incollato alla pagina. Non voglio esagerare, ma la Postorino ha fatto un lavoro che ricorda, per precisione, quello della Szabò. Tutto ragionato, equilibrato alla perfezione a creare un risultato mai scontato o monocorde. Non dico che Rosa -la protagonista- sia sovrapponibile alla grandiosa Emerenc de "la porta", ma emana un profumo che ne rievoca fortemente il fascino.
La Postorino non vi stupisce con effetti speciali  sicuramente, però, vi regala una gran bella prova di scrittura con una storia molto attrattiva.
Ci augureremmo per questo romanzo un destino all'insegna dello Strega.

venerdì 23 marzo 2018

"Le buone intenzioni" di Kate Tempest



Oggi tocca al primo romanzo dell’inglese Kate Tempest. Non ho resistito, infatti, al proposito di archiviare “Le buone intenzioni”, tradotto per Frassinelli da Simona Vinci, senza esternare pubblicamente la mia delusione per un testo ben al di sotto delle aspettative. 

Kate Esther Calvert (Tempest è il nome d’arte scelto in omaggio a Shakespeare) classe 1985, una delle più promettenti poetesse, rapper, spoken word artist e, per finire, autrice teatrale della scena londinese odierna, si è imposta all’attenzione dei lettori italiani con “Let Them Eat Chaos”, poema “scritto per essere letto ad alta voce” pubblicato in Italia da e/o, con la traduzione di Riccardo Duranti.
Mi aspettavo che “Le buone intenzioni” rivelasse lo stesso talento dei versi (la performance è reperibile su you tube), ne ho invece sofferto i troppi ed evidenti difetti, che hanno rallentato la lettura e, più di una volta, messo a rischio il proseguimento.
Il romanzo riprende e amplia le tematiche di “ Let them eat the caos”, cronaca della notte insonne di sette personaggi paradigmatici del contemporaneo. Ne “Le buone intenzioni”, infatti, l’obiettivo dell’autrice è nuovamente puntato su un gruppo di giovani dei sobborghi di Londra, sui quali incombe, trainato dagli esiti estremi del capitalismo, della iperconnessione e della gentrificazione, lo spettro di una solitudine solipsistica.
Eppure qui, nel romanzo, qualcosa non torna. A me pare che “in assetto metrico”, per ora almeno, la Tempest si muova meglio. La concisione dei versi gioca decisamente a suo favore. E’ nella stringatezza verbale, con la quale riesce ad allestire una trama convincente mantenendo sempre a livelli alti climax, ritmo e liricità, che si concretizza la sua virtù naturale, il suo autentico talento. Di contro la spaziosità della prosa si rivela, per la trentaduenne londinese, una trappola. La trama esilissima del romanzo – concentrata di fatto nelle poche pagine del capitolo iniziale e di quello finale- è appesantita da una prolissità che rivela tutta l’immaturità della scrittura, decisamente sottotono rispetto alle ambizioni dell’argomento che si intendeva affrontare.
La prosa della nostra poetessa-rapper patisce uno di vizi più comuni dei principianti: la difficoltà a tagliare, stringare, pulire il sovrabbondante e l’inutile. L’eccessiva minuzia nelle descrizioni, l’abbondanza di dettagli superflui, il fiorire di pleonasmi sono alcune delle conseguenze. La Tempest attenta costantemente all’economia della narrazione. Proprio quando si dispone di un potenzialmente illimitato numero di pagine, sembrerà un paradosso, c’è maggiore bisogno di parsimonia nell’uso delle parole. Ogni eccesso sarà solo causa di distrazione per il lettore e di distruzione per l’intensità della narrazione.

Ultima notazione riguarda l’uso esasperato della similitudine. Nel romanzo di Kate Tempest non solo ogni cosa è connotata, con uno spreco di aggettivi irritante. Non solo ciascuna azione è dettagliata, con pletore di avverbi del tutto irrilevanti se non addirittura dannosi all’economia del testo. Per la prima volta rilevo una nuova patologia degenerativa della scrittura: l'utilizzo compulsivo della similitudine. Là dove non basta un velocemente, un gentilmente, un elegantemente a definire l'atto, l'autrice tira fuori una similitudine. L'esito è un florilegio di accostamenti manieristici e cervellotici quando va bene, grotteschi quando va male. Alla lunga, spalmato su tante pagine, il disturbo sfinisce il lettore, che sopraffatto dal troppo, si accascia stomacato sulle pagine.

giovedì 22 marzo 2018

"Let them eat caos" di Kate Tempest

Ci sono momenti della vita in cui bisogna lasciarsi andare. Arrivano chiamate inattese cui rispondere senza freni. Oggi ho incontrato Kate Tempest e, lasciando le altre letture da cui sono presa, l’ho seguita. Pomeriggio faticosissimo ma esaltante. I versi di questa poetessa sono una forza della natura. La sua Londra il paradigma di ogni nostra città di questo angolo occidentale di mondo. Le solitudini, le insonnie, i fremiti interiori, le urla di dolore dei sette protagonisti del poema parlano a ciascuno di noi, così come a ciascuno di noi è diretto l’urlo finale con cui Kate Tempest ci invita a “ woke up and love more” ( svegliarci e amare di più).

Si, sono facile agli entusiasmi . Si, sono capace di spendere una giornata su un libro. Si, anche questo, o soprattutto questo mi tiene sveglia e magari mi fa amare di più.

Provate a leggerlo, il libro, che ha la traduzione italiana a fronte. Provate a sentire la performance che si trova su You Tube


Scrive Jovannotti nella prefazione del volume “Stato di quiete” del compianto P. Cappello : “forse che la poesia è proprio questo affermarsi esseri umani e a questo dare importanza. Ci si può incontrare nel bianco che circonda i versi” . Ci credo fermamente e in virtù di ciò vi esorto a regalarvi questa esperienza.

martedì 20 marzo 2018

"Fame" di Roxane Gay


“Questa cosa che di un libro ne parlano tutti e quindi c’è da insospettirsi non l’ho mai capita, giuro”. (Tweet di Teresa Ciabatti).
C’è spesso diffidenza, specie da parte dei lettori forti, verso i best seller e, più in generale, verso i libri sui quali più insistono le promozioni pubblicitarie. Abbiamo –noi sofferenti di tale disturbo- riguardo ad essi un preconcetto, originato dal timore di incappare in fuffa. Tuttavia, restiamo curiosi e umili e pur sempre lettori, quindi per bulimia non possiamo far a meno di nutrircene. Questo mese ho ceduto alle lusinghe del tam tam per ben due volte. Ho acquistato due titoli sulla bocca di tutti, entrambi editi da Einaudi: “Parlarne tra amici” di Sally Rooney e “Fame” di Roxane Gay.
Del primo ne ho brevemente scritto qui https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10213854675513989&set=a.10202643435079985&type=3&theater.
Del secondo ne parlo, naturalmente, adesso.
Roxane Gay , nata il 28 Ottobre 1974, è una scrittrice americana di colore, docente universitaria, editor, attivista, femminista, che prima negli USA, ora in Italia, sta rapidamente scalando le classifiche con il memoir “ Fame”, saggio autobiografico in cui ha riversato, in una sorta di bulimia narrativa, le problematiche personali, sociologiche, psicologiche, fisiche, comportamentali di una esistenza da obesa.
Michela Murgia, in un post di fb: fb https://www.facebook.com/kelledda/posts/10155500000609370  celebra il libro come un vero e proprio manifesto femminista, sostenendo che la Gay “ ha rotto il patto del silenzio e si è presa la responsabilità di raccontare l'incubo americano in un mondo che dell'America vuole solo il sogno” poiché solo “In apparenza ti parla del suo corpo ferito, ma sta parlando di una società che nel corpo si rappresenta e che contro i “corpi ribelli” è violenta e giudicante, intimorita dalla diversità. Parla della sua anima compromessa, ma rivela anche il dente cariato nascosto nel sorriso di un Occidente in cui persino all'anima è richiesta una forma perfetta”.
Le risponde dalle pagine di #329 de “La lettura”, supplemento del Corriere della Sera, Teresa Ciabatti, la quale concorda sull’importanza di “Fame” come testimonianza personale – “qui dunque la Gay ricostruisce la storia del suo corpo, dallo stupro ai duecentosessanta chili” - ma solleva dubbi circa la possibilità che il libro, “già successo internazionale”, possa essere effettivamente “il manifesto del nuovo femminismo”. “Autocelebrandosi vittima –prosegue, infatti, la Ciabatti- Roxane Gay crea un racconto monocorde in cui la colpa è sempre nel mondo violento e predatorio.” (…) “Difficile dire se queste estremizzazioni rendano la testimonianza più forte o la indeboliscano. Di certo rischiano di creare due fronti contrapposti che tornano a ridurre il discorso, quando il #metoo tenta di rintracciare nuovi confini dentro i quali includere molestia, abuso di potere e tanto altro fin qui ingiustamente tollerato.
Non facile pronunciarsi rimanendo entro i confini di un solco autonomo rispetto alle opinioni delle due autorevoli scrittrici.
Dal punto di vista della qualità della scrittura il libro si fa leggere bene, anzi benissimo. L’arrendevolezza combattiva – l’ossimoro ci sta tutto- con cui la Gay cede alle pagine, in una sorta di “vuotamento del sacco” compulsivo, privo di filtri, sovraccarico come solo le confessioni spesso sono, trascina  il lettore in una quasi necessaria maratona di lettura. Vale lo stesso discorso per il coinvolgimento che suscita riguardo al tema. La franchezza con cui l’autrice si consegna alla narrazione della sofferenza generata dallo stupro, ma soprattutto dalla prigionia in un corpo che intimamente non le appartenere, evoca un sentire comune che tracima in compenetrazione empatica ad opera del lettore.
L’incertezza su cosa sia “Fame”, un testo con caratteristiche generali ed astratte ( manifesto) o singole e concrete ( un memoir) è reale, sebbene il passo dell’ultima pagina, dove Gay dice: “ Scrivere una storia del mio corpo e delle sue verità vuol dire raccontare una verità che è mia e soltanto mia”, mi facciano propendere per la Ciabatti.
La Gay mi pare interessata a “mostrare la ferocia della propria fame” solo per concedersi “la libertà di essere vulnerabile e umanissima”. Il suo passare in rassegna gli stereotipi di genere, “i nocivi messaggi culturali secondo cui il (…) valore è strettamente connesso al corpo”, l’accanirsi (giustissimo) contro di essi, si rivelerebbero strumentali, cioè, più che alla causa femminista, al tentativo di “cancellare tutte le cose odiose che dice a se stessa” e di reperire i sistemi “per tenere la testa alta quando entra in una stanza” onde restituire lo sguardo quando la gente la guarda.
La Gay è cristallizzata da così tanto tempo in un dolore di tipo narcisistico che le risulta difficile, se non impossibile rilevare l’afflizione altrui. Non riconosce, insomma, o non è disposta a riconoscere, i sui stessi sintomi di malessere in altre donne.
E se lei per prima non considera le capacità di rispecchiamento del suo memoir, se la fame che descrive è solo sua e non anche quella di molte altre donne, obese ma –lo si potrebbe giurare- anche anoressiche, se il disagio di un corpo sproporzionato, non corrispondente agli pseudo canoni del mondo è solo disagio personale e non male comune, allora è difficile immaginare che parli alla società, come ipotizza la Murgia.
D’altronde la Roxane Gay protagonista di “Fame” non è l’unico personaggio obeso in letteratura. Oltre all’irriverente e irritante Ignatius di “Una banda di idioti” – per altro citato dalla Ciabatti - penso all’elegante e desolato Arthur Opp de “Il peso” di Liz Moore. Eppure se dovessi tentare un accostamento ad altro soggetto di romanzo per la Gay, evocherei il tormentato Jude de “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara o i masochisti Alice e Mattia de “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano.
Questo perché in fondo considero il racconto della Gay una narrazione sul corpo, sulla fame ma anche o forse soprattutto sull’autolesionismo.




martedì 13 marzo 2018

Viale dei misteri


Ma davvero sono incinta? Non ci posso credere. No, cioè, ci devo credere. Stando a questa sottospecie di termometro digitale che mi trovo tra le mani, alle due cazzo di strisce colorate comparse nel riquadro, io aspetto un bambino.
Gesù! Da quanto non ne aspettavo uno? Dall’ultima volta che ho avuto una figlia, a occhio e croce venti anni fa. Che cavolo dico? Straparlo. L’emozione, chiaro. Ma poi, non ero in menopausa? Sì, che sono in menopausa, Cazzo!
E ora, che altro succede? Oddio, il treno sta partendo, si sono chiuse le porte. Il capotreno fischia. Ho dimenticato il kindle a casa. Mannaggia.
-Amore? Amore! -
Non posso urlare, c’è gente! Leggi il labiale, prova a capire dai gesti: guardami! Sto mimando un libro, lo riconosci? Faccio pure finta di girare le pagine. E questo è un no. Vedi? Pollice e indice messi ad angolo retto e torsione del polso. Dai, perché non afferri? Non si faceva così da piccoli per dire: - “Non c’è!”. Mi arrendo. Quando lo troverai
a casa, sul tavolo della sala, al tuo ritorno, allora si, che ti sarà chiaro. Penserai di me che sono la solita cap' e 'mbrella. Hai sposato una nzallanuta. Non è mica una novità!
Ma che giornata. Ed è appena cominciata. Chi è sto buzzurro con la suoneria delle “Quattro stagioni di Vivaldi” a palla, mo’? Quanta scostumatezza in giro!
Aspetta, aspetta. Mi sa che non è un telefono, quello che squilla. Ma sì, certo: è la sveglia. La mia sveglia. La nostra sveglia.
Ossignore, che sollievo!
Non sono incinta. Non sono neppure su un treno. Sono nel letto, a casa mia e il Kindle sta a portata di mano sul comodino, al solito posto.
Che sogno. Pazzesco. Sicuramente è colpa dell’ansia per la partenza. Perché ieri sera non ho fatto la valigia. Mi ero imposta di prepararla questa mattina, così, tanto per fare la gradassa con me stessa. Per una questione di puntiglio. Devo smetterla però di bullizzarmi. Non è mica obbligatorio dimostrare a me medesima che posso uscire fuori dagli schemi della metodicità. Che sono più forte io del rigore e dello zelo. Era prevedibile che quel bastardo traditore dell’inconscio mi mollasse. Il pappamolle ha ceduto, si è fatto prendere dal panico.
-Non me lo scordo il supporto di lettura digitale, stai tranquillo, cagasotto! -
-Te lo giuro! -
Voglio far fruttare le quattro ore di viaggio per finire “Viale dei Misteri” di Irving. Non bellissimo, la verità, ‘sto romanzo. Anzi. Piuttosto una mezza delusione. Preferisco sciacquarmelo di torno al più presto.
Mi alzo. Mi arrendo all’ apprensione. Sventolo bandiera bianca. Prima comincio la giornata meglio mi sento.
Che ne faccio del sogno? Lo racconto al consorte o lo tengo per me?
Ma chi prendo in giro: non so tenermi un cecio, che sia uno, in bocca. Che sto qui a fare il pari e il dispari: chiaro che gli spiffero tutto, con abbondanza di dettagli.
E però, che bacio. Se lui non dovesse scappare al lavoro e io non fossi “mangiata dall’ansia” ...
Meglio chiuderla qui. Niente diversivi. Rimandiamo a domenica prossima. Verrà a prendermi a Bologna. Deciso, così guadagniamo tempo.
La pulitina alla casa gliela do. Una cosa veloce, tanto per sentirmi a posto con la solita coscienza tiranna.
E ora, bagaglio, a me.
Cavolo! Ho fatto tutto con estrema calma eppure, come al mio solito, sto uscendo non in anticipo, di più.
Vorrà dire che ci andrò a piedi, in stazione.
Venti minuti? Come è possibile che ci abbia impiegato solo venti minuti, forse anche meno, per arrivare?
Ho camminato praticamente all’indietro. Almeno così mi è sembrato.
Vediamo un po’: dove mi piazzo? Meglio se mi metto in prossimità del tabellone. Resto in piedi, naturalmente. Non sia mai che non mi autoflagelli mettendomi a sedere comodamente nell’apposita sala. Sono nata per soffrire. Il supplizio è ontologico. E’ parte essenziale della mia vita. Ed è anche un po’ rito scaramantico, alla fin fine. Se mi risparmiassi le tribolazioni poi mi toccherebbe essere ancora più guardinga. Si sa come agisce la sorte con quelli che si rilassano troppo: li adocchia e zac, li castiga per lassismo, per manifesta deficienza di stress.
Non faccio altro che guardare ad intervalli regolari il tabellone delle partenze e la gente intorno. Tabellone-facce. Facce-tabellone. Tabellone-facce. In questo caso è più corretto dire che sto ammazzando il tempo o che il tempo sta ammazzando me? Ma che mi rido, scema? Non sono per niente spiritosa. Piuttosto, non riesco a sopprimere il ghigno beffardo che mi si è appiccicato sulla faccia: tipica emiparesi pseudo burlesca da preoccupazione per viaggio.
Potrei sbagliarmi ma, contando la persona che sta entrando adesso in stazione, gli zoppi da quando sono uscita di casa ad ora passano a tre.
Questo, poi, mi ricorda qualcuno. Oscilla parecchio, poverino. E’ per via del piede “ad angolo retto” che punta ostinatamente ad ore due. Non è solo il piede, però. C’è qualcos’altro che me lo rende familiare. Pelle abbastanza scura, capelli neri: sembra un messicano. Ma certo: Juan Diego Guerrero, il protagonista del libro. E’ lui! Uscito pari pari dal romanzo di Irving.
Devo distogliere lo sguardo all’istante. Se continuo a fissarlo rischio di metterlo a disagio “per il suo passo claudicante e la scarpa deforme confezionata apposta per il piede offeso”. Cit. Irving. E si, meglio non rischiare: dovessi trovarmelo a spiare tra i mie pensieri, il Maestro, va a finire che se non gli do i crediti mi chiama in giudizio per violazione del copyright. Ahahahah!
Scommetto che l’uomo accanto alle porte con il borsone sportivo e le due valigione è un calciatore. Magari uno della Spal. Forse è per quello che ricambia le mie occhiate. Pensa che l’abbia riconosciuto e si aspetta che gli chieda un autografo. Sta fresco. Dovesse avere difficoltà con i bagagli, ecco, allora, visto che ho una mano libera, potrei pure aiutarlo. Ma gesti di adulazione, quelli li escludo. Per un giocatore di pallone, poi. Sapesse che invece lo fisso perché pare pure lui un personaggio del libro. I “chiassosi pappagalli stampati sulla sua camicia hawaiana”, la cicatrice a forma di elle sulla fronte: questo qui è l’incarnazione di Edward Bonshow, il missionario americano. Perfino Irving rimarrebbe di stucco a trovarselo davanti.
No, vabbè. Non ci credo. Sono su scherzi a parte. Guarda tu chi si è materializzato ora all’ingresso: “sui quarantacinque anni, grasso; una figura quasi cherubica anche se non proprio un essere celestiale”. Ci mancava Fratello Pepe, uno dei due gesuiti del racconto. Non mi stupirei se conoscesse Edward. Infatti. Conosce Edward. Come non detto: si stanno spartendo le valigie, segno che sono compagni di viaggio. A questo punto però l’ipotesi che Edward sia un giocatore va a farsi benedire, subentra la quasi certezza che l’uomo con i pappagalli polinesiani stampati sulla camicia sia pure lui un chierico. Tutto torna!
Non mi starà piacendo il libro di Irving ma fa di tutto per rimanermi impresso. Anzi, per risucchiarmi. Prima Juan Diego, ora Edward Bonshow e Fratello Pepe. I protagonisti del romanzo, almeno quelli maschili, ci sono tutti. Trasportati con una macchina spazio-temporale dall’orfanotrofio di Oaxaca, Messico, alla stazione di Ferrara, Italia. Questo “Viale dei Misteri” comincia ad impressionarmi. Uno poi dice le coincidenze.
Che bravo, il consorte: mi ha preso il posto singolo. Devo ricordami di ringraziarlo. Sono consapevole che una bella fetta dell’ansia da viaggio da cui mi faccio affliggere dipende dall’incognita “vicino”. Prima o poi farò il callo alla prossimità fisica coatta tra passeggeri. Inutile mentire a sé stessi. Altro che farci l’abitudine. La verità è che più viaggio più il catalogo degli “sgraditi” si allunga. Aereo o treno non fa differenza. La mia età, ovvio, costituisce pure un aggravante. Riformulo: più viaggio e invecchio e più le convivenze negli spazi angusti dei mezzi di trasporto da imbarazzanti si fanno insopportabili. Gli attaccabottoni seriali: irritanti. I bambini scostumati: odiosi. I loro genitori permissivi: detestabili. I mangiatori di aglio con l’inconfondibile alitosi: abominevoli. Le persone con abiti sintetici e pessima igiene personale: molesti. A picchi incommensurabili la mia insofferenza va ai logorroici che si attaccano al cellulare partecipando l’intero convoglio delle proprie vicende lavorative et familiari, nonché agli incivili che si stravaccano strafottenti debordando dal sedile per poi invadere abusivi il bracciolo altrui. E che ci posso fare se il menefreghismo di certi individui mi fa salire una rabbia difficile da dissimulare. Adoro questa postazione da sprucida. Valigia sistemata, mi seggo e mi ritiro nella lettura. Cascasse il mondo intorno.
Cara dirimpettai incinta che mi sorridi maliarda, con il chiaro intento di spingermi a chiederti a quando il lieto evento e il sesso del nascituro, spiacente di deluderti. Sembri una persona a posto. Anzi, lo sei sicuramente. Provi disagio a viaggiare da sola. Hai pure un tantinino di timore per via del pancione e tutto il resto. Lo capisco. Credimi. Sono disposta, per dovere di buon vicinato, a badare alle tue cose ogni qualvolta sarai costretta ad andare in bagno, promesso. Pur tuttavia non cadrò ostaggio della buona educazione, della mia sindrome da “anima pia”. Non mi impegnerò in una conversazione con te. A meno che tu non decida di sgravare qui, ora, io resterò muta, trincerata dietro le pagine di questo benedetto libro. Scusami tanto. Non ero così carogna. E’ che questa roba si impara militando. Dopo un tot di miglia scatta di default la misantropia del passeggero. Una specie di effetto collaterale che sviluppiamo noi viaggiatori cronici. Più chilometri facciamo e meno siamo disposti alle interazioni umane. E’ un dato di fatto. Nessuna questione personale. Vedi capitolo precedente.
Bella la stazione di Afragola. Sarà pure una cattedrale nel deserto, ma è assolutamente incantevole. Anzi, secondo me la sua solitudine geografica ne rafforza in qualche modo la magnificenza. Prima o poi vengo a visitarla. La prossima volta potrei scendere qua, farmi un giro e poi prendere il treno successivo per Napoli.
       Che avrà da agitarsi tanto il tipo dietro di me? Amico, ti sei comportato bene fino ad ora e poi mi diventi a tradimento un disturbatore? Sei più ansioso della sottoscritta? Stai veramente inguaiato!
Sarà di quelli che, diretti a Napoli, si preparano all’arrivo appena lasciata Termini? No, perché io sono molto influenzabile. Mi conosco. Se è così, non resisterò a lungo seduta.
Sento che sta partendo già l’effetto emulazione e purtroppo l’esperienza mi insegna che non sarò l’unica vittima della compulsione ad anticiparsi.
Tra un attimo si formerà il solito gregge degli apprensivi. Sta a vedere!
Basta il movimento impercettibile di uno solo di noi che discretamente si infila la giacca o ripone gli effetti personali e il gioco è fatto. E’ sufficiente il clic di una ventiquattr’ore che si serra o la zip di una giacca che si chiude per far scattare sull’attenti il popolo dei fibrilloni. Un battito di ciglia e la coda nel corridoio si è materializzata. Neppure controlliamo gli orologi. A fiducia. Obbediamo ciecamente all’impulso ancestrale di una forma di idiozia stampata nei cromosomi. Un riflesso pavloviano. Come formiche laboriose ci alziamo e trascorriamo quell’ultima oretta -se ci va bene- in piedi,
davanti alle porte, carichi come muli, sudati, anzi di più, congestionati, sotto il duplice attacco del riscaldamento del treno e dei soprabiti in cui ci siamo già, di tutto punto, imbacuccati.
Derubato? Quindi non si è già preparato a scendere. Bene, cioè male. Mentre dormiva gli hanno rubato dalla ventiquattr’ore che teneva sotto la poltrona cellulare e tablet.
Roba da pazzi. Nessuno si è accorto di niente.
Mi mortifica il fatto di non aver avvertito
alle mie spalle, che ne so, un movimento, un rumore. Mi sento una babbea. Colgo sui volti dei miei compagni di avventura lo stesso turbamento.
Le manovre del mariuolo sono sfuggite a tutti. A quelli dietro, di lato, davanti. D'altronde parliamo di borsaioli professionisti.
Il derubato, un vero signore. Tutto sommato si sta comportando benissimo. Non un urlo, una bestemmia, una parola fuori posto. Una compostezza da gentleman inglese. Al posto suo io mi sarei fatta venire il male. Minimo annegherei in una valle di lacrime.
Davvero! Mi fa venire i brividi ‘sta cosa che il reo si nasconde tra di noi. Vatti a fidare. Sembriamo tutti brave persone.
Nemmeno a perquisirci uno per uno. Il colpevole si sarà disfatto della refurtiva nascondendola chissà dove. Uh, Gesù! E se l’avesse messa nella mia valigia, come capita in certi film, per usarmi tipo insospettabile corriere e io finissi in manette? Pensa che scuorno! Calmati, cretina! Non ti sei mossa dal tuo posto e la valigia ce l’hai proprio sopra la testa. Ragiona! Come l’avrebbe toccata?
Mi sento a disagio persino a guardarmi intorno. E se leggessi negli occhi di qualcuno dei presenti i segni della colpa e il criminale capisse che io ho capito? E se individuassi il colpevole e lo smascherassi e quello poi dopo se la pigliasse con me e si vendicasse?
I segni della colpa, capisse che io ho capito? Smascherassi? vendicasse? Ma come parlo, anzi, ma come penso? Ecco, questi sono gli effetti dei polizieschi sulla gente. Ma nemmeno in un episodio di Maccio Capatonda!
I zinghiri, sono stati i zinghiri!”
A parte gli scherzi, escluderei la signora incinta: date le dimensioni della pancia non avrebbe potuto agire inosservata. Lo stesso dicasi di Juan Diego: con quella zoppia cosa vuoi che faccia senza che lo si noti. Edward e fratello Pepe manco a pensarlo: manifestamente incompatibili con la delinquenza per ragioni di tonaca. Mi rifiuto categoricamente di fare insinuazioni sul giovanotto seduto dietro alla vittima: si sta adoperando fattivamente nelle indagini. Mica correrebbe il rischio di farsi sgamare. E se la sua fosse una manovra diversiva, un modo per distogliere i sospetti da sé stesso?
Ma chi sono, Agata Christie sull’Oriente Express?
Solo che ad Agata Christie nessuno la infastidiva con whatsapp inopportuni. Chi sarà, adesso? E no, caro il mio coniuge, non puoi disturbarmi sul più bello.
-Non sono ancora arrivata. Il treno è in ritardo. All’arrivo poi sarò costretta a rimanere nel vagone in attesa della polizia postale. Un tizio è stato derubato del cellulare e del tablet- Invio.
-Ma dai! Questo è il fatto del tuo sogno di stanotte.  -
- Ora che ci penso, ma sai che il viaggio è cominciato con un sacco di stranezze? Hai presente il libro di Irving che mi hai dato da leggere? Qua nel vagone ci stanno tre tizi che sembrano Juan Diego, Edward Bonshow e Fratello Pepe. Peccato per la donna incinta dirimpetto a me, decisamente fuori contesto.
J- Invio.
-Se fossi una bambina di tredici anni, tu saresti Lupe, la sorella chiaroveggente di Juan Diego. Lei sapeva leggere il pensiero. Sapeva cosa passava per le menti degli altri e a volte non solo quello. Tu tutto sto fatto te lo sei sognato stanotte. La gravidanza, che non trovavi il kindle…Chiaroveggenza! –
- Esagerato! - Invio.
-Ma no, ti dico. Impressionante. Tu hai criticato il libro e Irving si vendica catapultandotici in mezzo. Chissà cosa potrà ancora accadere-
-Non fare il cretino e non mi dire cose per turbarmi. Non è il momento adatto per scherzare. Torno alle indagini, poi ti racconto <3 - Invio.
Uffa! Ancora? Un altro uazzupp? E gliel’ho pure detto di smetterla.
Ah, no. Notifica di un tweet.
Cazzo! Questo lo devo girare al coniuge.
 -INGVterremoti: Mwp 6.1 del 19-02-2018 ore 07:56:59 (Italia) in zona: Oaxaca, Mexico- Invio.
-Senza parole. Chiudiamola qui. Comincio a cagarmi sotto pure io!”






venerdì 9 marzo 2018


Ma davvero sono incinta? Non ci posso credere. No, cioè, ci devo credere. Stando a questa sottospecie di termometro digitale che mi trovo tra le mani, alle due cazzo di strisce colorate comparse nel riquadro, io aspetto un bambino.
Gesù! Da quanto non ne aspettavo uno? Dall’ultima volta che ho avuto una figlia, a occhio e croce venti anni fa. Che cavolo dico? Straparlo. L’emozione, chiaro. Ma poi, non ero in menopausa? Si, che sono in menopausa, Cazzo!
E ora, che altro succede? Oddio, il treno sta partendo, si sono chiuse le porte. Il capotreno fischia. Ho dimenticato il kindle a casa. Mannaggia.
-Amore? Amore!-
Non posso urlare, c’è gente! Leggi il labiale, prova a capire dai gesti: guardami! Sto mimando un libro, lo riconosci? Faccio pure la finta di girare le pagine. E questo è un no. Vedi? Pollice e indice messi ad angolo retto e torsione del polso. Dai, perché non afferri? Non si faceva così da piccoli per dire:- “Non c’è!”. Mi arrendo.  Quando lo troverai
a casa, sul tavolo della sala, al tuo ritorno, allora si, che ti sarà chiaro. Penserai di me che sono la solita “capa di ‘mbrella”. Hai sposato una insallanuta. Non è mica una novità!
Ma che giornata. Ed è appena cominciata. Chi è sto buzzurro con la suoneria delle “Quattro stagioni di Vivaldi” a palla, mo’? Quanta scostumatezza in giro!
Aspetta, aspetta. Mi sa che non è un telefono, quello che squilla. Ma sì, certo: è la sveglia. La mia sveglia. La nostra sveglia.
Ossignore, che sollievo!
Non sono incinta. Non sono neppure su un treno. Sono nel letto, a casa mia e il Kindle sta a portata di mano sul comodino, al solito posto.
Che sogno. Pazzesco. Sicuramente è colpa dell’ansia per la partenza. E’ perché ieri sera non ho preparato la valigia. Mi ero imposta di rimandarla a questa mattina, così, tanto per fare la gradassa con me stessa. Per una questione di puntiglio. Devo smetterla però di bullizzarmi. Non è mica obbligatorio dimostrare a me medesima che posso uscire fuori dagli schemi della metodicità. Che sono più forte io del mio rigore e del mio zelo. Era prevedibile che quel bastardo traditore dell’inconscio mi mollasse. Il pappamolle ha ceduto, si è fatto prendere dal panico.  
-Non me lo scordo il supporto di lettura digitale, stai tranquillo, cagasotto! -
-Te lo giuro! -
Voglio far fruttare le quattro ore di viaggio per finire “Viale dei Misteri” di Irving. Non bellissimo, la verità, ‘sto romanzo. Anzi. Piuttosto una mezza delusione. Preferisco   sciacquarmelo di torno al più presto.
Mi alzo. Mi arrendo all’ apprensione. Sventolo bandiera bianca. Prima comincio la giornata meglio mi sento.
Che ne faccio del sogno? Lo racconto al consorte o lo tengo per me?
Ma chi prendo in giro: non so tenermi un cecio, che sia uno, in bocca. Che sto qui a fare il pari e il dispari: chiaro che gli spiffero tutto, con abbondanza di dettagli.
E però, che bacio. Se lui non dovesse scappare al lavoro e io non fossi “mangiata dall’ansia"...
Meglio chiuderla qui. Niente diversivi. Rimandiamo a domenica prossima. Verrà a prendermi a Bologna. Deciso, così guadagniamo tempo.
La pulitina alla casa gliela do. Una cosa veloce, tanto per sentirmi a posto con la solita coscienza tiranna.
E ora, bagaglio, a me.
Cavolo! Ho fatto tutto con estrema calma eppure, come al mio solito, sto uscendo non in anticipo, di più.
Vorrà dire che ci andrò a piedi, in stazione.

Venti minuti? Come è possibile che ci abbia impiegato solo venti minuti, forse anche meno, per arrivare?
Ho camminato praticamente all’indietro. Almeno così mi era sembrato.
Vediamo un po’: dove mi piazzo? Meglio se mi metto in prossimità del tabellone. Resto in piedi, naturalmente. Non sia mai che non mi autoflagelli mettendomi a sedere comodamente nell’apposita sala. Sono nata per soffrire.  Il supplizio è ontologico. E’ parte essenziale della mia vita. Ed è anche un po’ rito scaramantico, alla fin fine. Se mi risparmiassi le tribolazioni poi mi toccherebbe essere ancora più guardinga. Si sa come agisce la sorte con quelli che si rilassano troppo: li adocchia e zac, li castiga per lassismo, per manifesta deficienza di stress.
Non faccio altro che guardare ad intervalli regolari il tabellone delle partenze e la gente intorno. Tabellone-facce. Facce-tabellone. Tabellone-facce. In questo caso è più corretto dire che sto ammazzando il tempo o che il tempo sta ammazzando me?  Ma che mi rido, scema? Non sono per niente spiritosa. Piuttosto, non riesco a sopprimere il ghigno beffardo che mi si è appiccicato sulla faccia: tipica emiparesi pseudo burlesca da preoccupazione per viaggio.
Potrei sbagliarmi ma, contando la persona che sta entrando adesso in stazione, gli zoppi da quando sono uscita di casa ad ora passano a tre.
Questo, poi, mi ricorda qualcuno. Oscilla parecchio, poverino. E’ per via del piede “ad angolo retto” che punta ostinatamente ad ore due. Non è solo il piede, però. C’è qualcos’altro che me lo rende famigliare. Pelle abbastanza scura, capelli neri: sembra un messicano. Ma certo: Juan Diego Guerrero, il protagonista del libro. E’ lui! Uscito pari pari dal romanzo di Irving.
Devo distogliere lo sguardo all’istante. Se continuo a fissarlo rischio di metterlo a disagio “per il suo passo claudicante e la scarpa deforme confezionata apposta per il piede offeso”.  Cit. Irving.  E si, meglio non rischiare: dovessi trovarmelo a spiare tra i mie pensieri, il Maestro, va a finire che se non gli do i crediti mi chiama in giudizio per violazione del copyright. Ahahahah!
L’uomo laggiù, quello con la camicia più vistosa di sempre, il borsone sportivo e le due valigione, sicuro è un calciatore. Magari uno dei giocatori della Spal. Forse è per quello che mi fissa. Pensa che l’abbia riconosciuto e si aspetta che gli chieda un autografo. Sta fresco. Dovesse avere difficoltà con i bagagli, ecco, allora, visto che ho una mano libera, posso pure aiutarlo. Ma gesti di adulazione, quelli li escludo. Per un giocatore di pallone, poi.
Ah, ecco! Non è tutto suo il carico. La valigia più grande appartiene all’amico gesuita. Non mi dire che anche l’uomo dalla camicia più vistosa di sempre è prete.
Non mi starà piacendo il libro di Irving ma fa di tutto per rimanermi impresso. Anzi, per risucchiarmi. Prima lo zoppo, ora i due sacerdoti di cui uno con la camicia hawaiana. I protagonisti del romanzo, almeno quelli maschili, ci sono tutti. Trasportati con una macchina spazio-temporale dall’orfanotrofio di Oaxaca, Messico, alla stazione di Ferrara, Italia.  Questo “Viale dei Misteri” comincia ad impressionarmi. Uno poi dice le coincidenze.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...