sabato 20 ottobre 2018

La Stanza Profonda di Vanni Santoni



Qualche tempo fa, scrivendo a proposito dell’ultimo di Siti, avevo confessato di sentirmi protetta dalla vastità della rete e di lasciarmi andare alle mie “fanfole” unicamente perché l’autore non ne sarebbe mai venuto a conoscenza. Con Santoni temo esattamente l’eventualità opposta. Infaticabile “animale social”, mi aspetto che possa arrivare –con il suo pseudonimo- fin in questo mio piccolo angolo a bacchettarmi. Ovviamente si scherza! Eppure c’è del vero in quello che ho scritto. Santoni è realmente una presenza vivace su FB, dove effettivamente compare sotto pseudonimo. E’ altrettanto vero, infine, che la scelta di leggere il suo libro sia stata dettata proprio dall'attento monitoraggio di cui ne faccio oggetto sul social. Mi è sembrata, questa, l’occasione propizia per verificare se e come le sue conoscenze, e dell’editoria e della letteratura contemporanea, la sua carica creativa e l’impegno divulgativo che profonde nella infaticabile attività fuori e dentro il web, abbiano messo radici e fruttificato all'interno del romanzo.

 E' stata una sorpresa piacevole constatare che Vanni Santoni, lontano dal mescolare le sue molteplici essenze creando pastrocchi indigeribili,  maneggia  le proprie competenze tenendole sapientemente confinate ai rispettivi campi d’azione, cosicché nella veste di scrittore si rivela  rigoroso, metodico, bravo.

 Il pericolo del romanzo generazionale è che finisca per essere il compendio di un’ epoca cristallizzata in immagini e frasi fatte che sbiadiscono in fretta, non comunicando nulla a quelli fuori dalla cerchia dei protagonisti diretti.

 “La stanza segreta” di Santoni fugge l’ambizione di farsi epica dell’ adolescenza sfumata. Non si lascia tentare dal desiderio di atteggiarsi a racconto definitivo di un dato periodo storico. Santoni, detto esplicitamente, non si fa blandire dalla smania di dar vita all’”opera struggente di un formidabile genio”. 

 Immediato e percepibile il vantaggio per il racconto: nitido, maturo, godibile anche da chi, come la sottoscritta, non sa -anzi sapeva- nulla di giochi di ruolo. 

Un adolescente, che fatica a rispecchiarsi nelle mode, trova una strada alternativa nei giochi di ruolo e costruisce in questo ambito nerd la sua cerchia di amicizie. Sullo sfondo la provincia toscana a  rischio di gentrificazione. E’ su questo pregresso che, proveniente dall’ età adulta, fa il suo ingresso la voce di Santoni. Autentica e perciò pienamente credibile la narrazione. Palpabile in ogni singola parola la partecipazione sentimentale dell’autore che, sconfinando dalle pagine,  fa presa sul lettore senza tuttavia mai cavalcare malinconia e rimpianto o  facili entusiasmi e esaltazioni adolescenziali. 

 Un amico mi ha chiesto se valga la pena leggere “ La stanza profonda”. 

 Questa la mia risposta:-” Si. Non è un libro saccente, ne’ l’epopea di una personale età dell’oro. È un racconto (apparentemente tranquillo, in quanto privo dell’enfasi di chi crede di scrivere un manifesto generazionale) di quella parte della vita in cui il protagonista è stato un master e di come questa esperienza sia stata fondante per quello che ha fatto dopo. Molto piacevole.” 

Giudizio che ribadisco e “accendo”, mettendolo qui per iscritto. 

lunedì 15 ottobre 2018

Il contagio


Una volta vivevamo, la mia famiglia ed io, in un paese dove cominciavano a verificarsi i primi casi di un’epidemia che sarebbe diventata, nel tempo, molto estesa e preoccupante.
Non percepii il pericolo di far parte di quella comunità. Mi correggo. Ad essere sincera, sebbene lo avessi percepito, mi convinsi che le mie bambine non si sarebbero ammalate. Avrei tenuto fuori di casa il virus non tralasciando alcuna norma igienica, dalle specifiche del caso alle più comuni. Inoltre pensai che avrebbero beneficiato dell’immunità del gregge. Noi adulti di famiglia eravamo tutti vaccinati e mi risultava che lo fossero anche gli amici stretti  nonchè i conoscenti.
Purtroppo però sottovalutai la situazione o sopravvalutai le mie capacità e non mi accorsi che uno delle piccole a scuola avesse contratto il malanno.
Se lo portò in incubazione durante il trasferimento a Varcaturo, in Campania, dove ci stabilimmo successivamente. Esplose in tutta la sua aggressività proprio alla vigilia del primo giorno di lezione, durante il tragitto dalla nuova casa alla scuola.
Ricordo esattamente il momento in cui esordì. Eravamo in macchina. Guidavo lungo una strada periferica piuttosto mal ridotta come lo sono tutte quelle della zona. Superavo i tanti gruppi di lavoratori di colore che, secondo la consuetudine locale, al mattino presidiano la via in attesa di chi cerca manodopera giornaliera da sottopagare, naturalmente in nero.
La piccola sedeva  dietro. Nella quotidiana lotta alla conquista del sediolino accanto al guidatore l’onore era toccato alla sorella maggiore. Lei si era rassegnata ma ancora imbronciata, guardando dal finestrino, non rinunciava ogni tanto a esprimere disappunto. Le sue recriminazioni cominciavano sempre con un :-” non è giusto”- , per cui non le prestai molta attenzione quando starnutì la prima volta. Al secondo starnuto, pensai di aver frainteso. Al terzo aguzzai le orecchie. :-” Non è giusto che questi vengono qua da noi. Perchè non restano a casa loro?”
Non mi restavano più dubbi. Per poco non andammo sbattere.
Come era possibile che dalla bocca di mia figlia uscissero tali sconcezze? Quando il virus del razzismo aveva fatto breccia tra le mura fortificate di casa nostra?
Questo mito dimostra che non bisogna dare alcunché di scontato, che ci sono ambiti dove non c’è nulla di innato ma solo di acquisito e che anche la tolleranza e l’ intolleranza si imparano, non solo a casa, evidentemente anche a scuola, come nel caso di mia figlia, contagiata dalla maleducazione dei compagni.
Nonostante impiegai diverse settimane per cancellare le tracce del virus, fortunatamente  la piccola si ristabilì perfettamente.
Non fate come me, non vi fidate dell’immunità del gregge. Vaccinate quotidianamente i vostri bambini contro l’intolleranza, vigilando che nessuno dei brutti discorsi ascoltati là fuori faccia presa nei loro cuori.

Elogio dei residenti e dei viandanti



Dal libro de " l'elogio dei residenti", ovvero l'encomio solenne di coloro che sono rimasti, che non sono partiti "per terre assai lontane", lasciando vilmente gli altri in balia del loro destino.
" Andate", "restate", un dilemma mefistofelico che "tira sempre", che piace, attanaglia.
Poiché io sono andata, tornata, riandata e ritornata svariate volte, mi stranisco sempre di più difronte a tali discorsi.
Mi viene in mente la Battuta di Massimo Troisi:
"Emigrante?"
"No, sono partito così, per viaggiare, per conoscere un poco".
Ammetto che c'ho impiegato tutti questi anni per capirla fino infondo, la battuta, che battuta non era. Ci ho impiegato tutti questi anni, tutte queste andate e questi ritorni .
Ho capito che il posto di tutti è il mondo. Che ognuno ha un luogo in cui vive che è sempre elettivo, sia quando lo si è scelto perché non ce ne si è voluti allontanare, sia quando ci si è approdati seguendo ragioni lavorative, affettive, personali.
Ho capito che non va demonizzato ne' chi resta, ne' chi torna, ne' chi parte, perchè il nostro imperativo è la felicità e ovunque sia, va bene inseguirla.
Ho capito che tutti però dovrebbero partire almeno una volta nella vita e vedere il mondo. Per scoprire la varietà dei posti e delle genti, delle lingue e dei costumi, ma anche e soprattutto l'unicità del genere umano. Tutti uguali alla fine, tutti segnati o spinti dalle stesse esigenze, dalle stesse passioni, dagli stessi sentimenti.
E dovrebbero partire per poi ritornare o restare negli altri luoghi, più sicuri della propria scelta e con più serenità.
La latitudine è un luogo mentale, un luogo del cuore.
E il mondo è tutto bello o brutto, dacché la scelta dell'aggettivo spetta a voi.

martedì 9 ottobre 2018

Il benedetto workshop

Ho un'età interlocutoria in cui non si è più giovani ne' ancora vecchi.
Sono in quella terra di confine che per molti versi è un ritorno all'adolescenza, quando sei mezzo bambino e mezzo adulto e i bambini non ti vogliono a giocare  ne' gli adulti a conversare.
Sono in quella fase in cui le persone ti inondano di consigli, continuamente, come fossero terapisti di professione. Ti consigliano come gestire la menopausa, il distacco dai figli,  il corpo che cambia, il colore dei capelli, la lunghezza delle gonne. Soprattutto  ripetono, allo sfinimento, che devi metterti in gioco e tu fatichi a capire di che gioco parlino.
La scuola pedagogica a cui mia madre mi ha formato è quella dei sensi di colpa, della disistima, quella che imponeva di metterti sempre in discussione. Il risultato è che io, partendo da una perenne autocritica, quei consigli li ascolto.
La scorsa settimana, ad esempio, a Ferrara c'era il festival dell'Internazionale. Un fitto programma, oltre che di incontri, di workshop.
Quindi  -ok! mettiamoci in gioco- mi sono detta, mentre compilavo la domanda di partecipazione a "recensione come una delle belle arti". 
 
Scrivo di libri da tempo ma è  sempre utile conservare un atteggiamento recettivo e umile. Sicuramente avrei scoperto nuove prospettive grazie alle quali parlarne meglio e 
 sarebbe stato costruttivo sottopormi a verifiche e critiche . 
Non ho sottovalutato neppure il lato sociale. Mi piace stare in mezzo alla gente, a maggior ragione tra quelle con cui condivido interessi.  Fare nuove amicizie è, in fondo,  come  cazzeggiare su google: pare una perdita di tempo, invece impari sempre del nuovo.
L'unica cosa che trovo sfiancante è rompere il ghiaccio con i giovani.
Non è che non lo capisca, il loro disagio nel rapportarsi a me. Me lo ricordo quando agli esami, in università, si presentavano "i vecchi" e   li evitavo perchè venivano dal giurassico e io invece stavo nel futuro. E immagino anche la situazione da cui sfuggono: la pesantezza dei genitori la vogliono lasciare chiusa a casa, hanno il terrore di trovarsela tra i piedi anche nel loro mondo.
Credetemi, so stare alle regole della socialità intergenerazionale. Ho la consapevolezza di essere sovrabbondante, quindi tendo a parlare poco, a non essere invadente, a non far pesare quante delle "cagate" che sparano con la loro area saccente io le sappia già.
Però, non mi devono provocà.
Primo giorno, fuori dall'aula. Mi faccio coraggio. Mi setto in versione "Palomar" pronta a mordermi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Aspetto il turno nel  giro di presentazioni. Per una mia  antica battaglia, alla  domanda su cosa faccia rispondo sempre e fieramente  la casalinga. La ventiquattrenne che conduce la conversazione emette una risatina vacua e proditoriamente incalza di fronte alla mia laconicità chiedendomi se scrivo. Io reticente, schivo anche il secondo tiro. Lei insiste:-" magari un blog?".
Non nego: si, confermo. Sfodera il più ... (  a questo punto io avrei scritto cretino, ma fate voi) dei sorrisi e fa:-" lo sapevo. Là volevo arrivare!".
Là voleva arrivare la piccirella, che una casalinga nel territorio di mezzo che è la mia età, in un workshop di questo tipo, non può che essere una sfigata da blog, come fosse una categoria riconosciuta per legge.
Naturalmente nel corso degli incontri colui che conduceva il laboratorio ha proposto di scrivere una recensione.
Ho letto la mia. Li ho spiazzati tutti.
"Dallo psicanalista un uomo confessa il bisogno di recidere i lacci materni e le radici ebraiche. Una questione di seghe, non solo mentali." 
Il mio tweet sul lamento di Portnoy li ha    stupiti e fatti sorridere.  
 L'anziana sfigata casalinga da blog ce l'ha un mestiere . I complimenti che  son venuti  li ho intascati con soddisfazione, intimamente dedicati alla simpatica ventiquattrenne.



 

Ernesto Guevara de la Serna : un omaggio

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Ernesto Guevara de la Serna è morto il 9 ottobre 1967, eppure io l'ho visto. L'ho visto aggirarsi indaffarato tra i tavoli di un ristorante italiano in un piccolissimo paesino della campagna tedesca. 


Ho visto il suo volto, quello che avrebbe oggi, il viso da 48enne che ha fatto la storia e continua ad esserne nel turbinoso flusso, figlio del nostro e del suo tempo.
Ernesto Guevara era nella sua posa eterna, con il suo consueto, perpetuo sguardo malinconico e fiero. Guardava al futuro da una foto glitterata d'argento su sfondo giallo limone di una maglietta. Faceva pentant con un pantalone bianco Armani tenuto su secondo lo stile ascellare alla "Pasquale Ametrana" .
Sul momento mi sono intristita. Poi ci ho riflettuto . 
Il Che è vivo. E' tra di noi. Per nulla stravolto da tutto quell'argenteo sfavillio, dall'alto di quei pantaloni griffati mi è apparso mansueto e consapevole. Consapevole che i tempi sarebbero passati di qui, ma non vi si sarebbero fermarti. Che la storia ha necessità perfino di questa tappa, di sostare nel mezzo di un'epoca che patina tutto, anche i rivoluzionari.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...