mercoledì 22 maggio 2019

La più amata. Teresa Ciabatti

Vostro onore sono colpevole: a questo libro non ho reso sufficienti onori.
Intendo farne pubblica ammenda spiegando in breve il perché bisogna leggerlo. 
L'edizione dello Strega 2017 è ormai bella che archiviata e l'oblio sta facendo il suo sporco lavoro buttando, libri e autori, nel dimenticatoio.
Eppure con ostinazione, e ne faccio una questione personale, mi preme tenere alta l'attenzione sul romanzo della Ciabatti che meritava di vincere.
Ero prevenuta contro l'autrice. Questione di preconcetti, faccenda di antipatie. In uno dei suoi pur rari passaggi televisivi, Lei, la donna, la scrittrice, il personaggio televisivo, mi era risultata antipatica: naturale che escludessi la possibilità di leggerla.
Invece poi mi ci sono imbattuta a "Pordenone legge" ed è scoccata la scintilla. A volte le antipatie si sviluppano in virtù di certe similitudini caratteriali: spesso con chi ci assomiglia -smentendo il detto- non ci si piglia. Evidentemente avevo colto nella Ciabatti degli elementi del mio carattere che poco apprezzo in me e che ho detestato anche in lei. Invece. Invece sentendola parlare di sé e con tanta franchezza e arguzia, le mie riserve sono cadute e ora la amo.
Che dire del romanzo: idem. Ne sono rimasta più che piacevolmente sorpresa: l' ho adorato. Di più: "La più amata" è il libro che avrei voluto scrivere io stessa. Sincero, lucido, con un ritmo nella scrittura pazzesco. Bello, bello, bello!.
Se vi capita, leggetelo, prima che le mode estemporanee dell'editoria se lo portino via. Merita.
Ottima Ciabatti, ottimo il romanzo.

martedì 21 maggio 2019

Fratelli d'anima. David Diop

Magnetica la copertina.
Magnetiche la figura del soldato in primo piano e il colore dello sfondo.
Magnetici ed evocativi. La giovane recluta nera rimanda giocoforza all'Africa e alla guerra. Il rosso al sangue, che delle guerre è la tinta sovrana.
Alfa Ndiaye è un francese del Senegal coloniale. È uno dei cioccolatini, orgoglio della Francia, a quali spetta un posto in prima fila nelle trincee del fronte europeo -siamo durante il primo conflitto mondiale- per terrorizzare i nemici durante gli attacchi.
Alfa Ndiaye è il protagonista di "Fratelli d'anima", di David Diop, Neri Pozza edizione, traduzione dal francese di Giovanni Bogliolo, romanzo già vincitore del premio Goncourt des Lycéens 2018, aggiudicatosi poi anche il Premio Strega Europeo 2019.
Ben vengano i premi letterari. Contribuiscono a puntare i riflettori su pagine che altrimenti rischierebbero di cadere precocemente nel dimenticatoio con grave perdita per il lettore.
I pubblici riconoscimenti sono da accogliere, infatti, come suggerimenti di lettura. Se me lo fossi lasciata sfuggire, in questo caso, avrei continuato ad ignorare i termini del coinvolgimento del Senegal nella Grande Guerra, sarei rimasta all'oscuro di queste specifiche, tragiche implicazioni del suo legame coloniale con la Francia, ma soprattutto non avrei fatto la conoscenza con Alfa Ndiaye della finzione letteraria, in un incontro che -vi assicuro- segna.
David Diop, insegnate e scrittore nato in Francia, formatosi negli anni dell'infanzia e della prima giovinezza in Senegal,  conoscitore del wolof, la lingua più diffusa in Senegal, l'unica che i tiratori senegalesi parlassero, l'unica nella quale si esprime Alfa Ndiaye, ha fatto sul suo protagonista un gran bel lavoro. L'essenzialità del registro lessicale di Alfa coniugata alla complessità dell' approfondimento psicologico compiuto, a livello emozionale annichiliscono il lettore, che, nonostante la crudeltà delle azioni compiute al fronte, del soldato finiscono per percepire esclusivamente il lacerante dolore e la solitudine disumanizzante.
Un romanzo non facile, sicuramente, ma di grande e travolgente bellezza.
 





sabato 18 maggio 2019

Alba. Selahattin Demirtaș

"Alba", edizioni Feltrinelli, tradotto da Nicola Verderame è una raccolta di racconti scritti da Selahattin Demirtaș nella prigione in cui è detenuto per ragioni politiche dal 2016.
Ho vissuto in Turchia per tre anni durante i quali è maturato un profondo legame affettivo con il paese e la sua gente. Giocoforza mi attraggono i libri che, per qualche ora, mi riportano ai luoghi, agli usi e alle atmosfere turche.
I dodici racconti di Demirtaș sono state l'opportunità in cui speravo, sebbene si siano rivelati più che la tanto desiderata passeggiata, malinconica ma tutto sommato serena, un'escursione emotivamente molto impegnativa nel microcosmo della condizione femminile, che sintetizza e amplifica le contraddizioni e gli arcaismi sociali sopravvissuti nella moderna repubblica turca.
Semplici, al limite del naif  per struttura narrativa, le storie entrano con discrezione, delicatezza, riguardo nelle vite di donne sfruttate, sole, infelici, lasciandosi apprezzare, oltre che per il valore di denuncia politica, anche per l'alta capacità di coinvolgimento.
Demirtaș è un politico che dimostra, in questo libro, anche  buone doti di scrittore. Provare per credere.

martedì 14 maggio 2019

Sembrava una felicità. Jenny Offill


Un lettore è innanzitutto un collezionista, il cui desiderio è arricchire con pezzi di pregio la propria raccolta. E’ andata decisamente bene a chi ha acquistato, “Sembrava una felicità” di Jenny Offill, traduzione di Francesca Novajra, che contrassegna un duplice esordio: quello della NN, neonata casa editrice milanese e quello della Offill, autrice statunitense al suo debutto in Italia.
(...)
La bellezza del piccolo gioiello che abbiamo tra le mani convince sulla bontà del progetto editoriale della NN.
Si può condensare in poco più di 168 pagine una vita? Pare proprio che alla Offill questo virtuosismo sia riuscito.
Docente di scrittura già apprezzata in America, Jenny Offill affida a una scrittura certamente non convenzionale la biografia di una donna, il cui destreggiarsi tra frustrate ambizioni giovanili, matrimonio, maternità e infine tradimento del coniuge, ne fanno un’eroina moderna. Di lei non conosciamo il nome. Le sue vicende non sono descritte in un flusso cronologico preciso. Sapremo che si è sposata, è divenuta madre e infine che ha subito il tradimento solo avendo riguardo alla parola che, di volta in volta, il soggetto narrante utilizzerà per riferirsi a sé. Un “Io” che diventerà ”la moglie”, prima di evolversi nel malinconico “lei” delle pagine finali, in cui sembrano trasferirsi tutta l’infelicità e lo smarrimento cagionatele dalla spersonalizzante vita coniugale.
La narrazione non si articola in capitoli, procede piuttosto attraverso l’annotazione di pensieri, di ricordi, di guizzi della coscienza e citazioni colte; elementi tutti che riportano il lettore costantemente alle proprie vicende personali, nell'evidenza che certi eventi e taluni sentimenti sono comuni a più. A chi, contemplando il suo primo amore dormire, non è venuto “da cantare a voce alta tutte le canzoni che passavano alla radio”? Chi non ha sperimentato “la rabbia che assomigliava ai fuochi d’artificio”?
Con una “scrittura per sottrazione”, priva del tutto di ridondanze retoriche, che tuttavia  non si restringe mai dentro i confini di una prosa rigida e austera, la penna della Offill mantiene una tale fluida musicalità da rasentare a tratti un’armonia poetica. Mai indelicate o inopportune neppure l’ironia e la leggerezza con cui si sceglie di stemperare il peso di certi momenti.

“Sembrava una felicità”, dichiarato Libro dell’anno 2014 da The New York Times Book Review, The Observer, The Guardian, The Times Literary Supplement, è senza dubbio un libro da leggere tutto d’un fiato, ma anche un romanzo a cui concedere una seconda più attenta lettura. Il mondo, si doleva Keats, “non è un luogo accogliente nel quale salvare la propria anima”, al contrario di certi libri che paiono invece godere di tale impagabile privilegio.

Questo consiglio di lettura è apparso il 16 Maggio 2015 su Itali@Magazineonline

domenica 12 maggio 2019

Il grande amore di mia madre. Urs Widmer

Incontri che segnano.
Primo di una trilogia di romanzi dedicati rispettivamente alla madre, al padre e a se stesso, "Der Geliebte der Mutter" di Urs Widmer,  pubblicato per la prima volta in Italia nel 2002 dalla Bompiani con il titolo di "L'uomo amato da mia madre", ritorna in libreria grazie alla Keller Editore, tradotto da Roberta Gado come "Il grande amore di mia madre".
A libro finito mi è salita alle labbra l'unica esclamazione possibile per un tale condensato di bravura: Urca!
Accidenti che romanzo.
In 159 pagine c'è tutto. Una narrazione funambolica, che affida alla delicatezza della favola la ruvidezza della vicenda biografica materna, con un risultato sorprendentemente potente. E poi amore, follia, condizione femminile, musica e cronaca storica del nazifascismo. L'odio? Purtroppo quello tocca al lettore. Quanto meno, nel mio caso, ce l'ho aggiunto io. Proprio non ce l'ho fatta a non detestare quel "grande amore" della madre, narciso senza cuore.

La ragazza selvaggia. Laura Pugno

Breve appunti di delusione.
Una delle scoperte più piacevoli di questi ultimi anni è "Sirene" di Laura Pugno. Un romanzo al quale, per contenuto e forma, nonché lascito emozionale, assegnai un 10 e lode.
Quando mi è capitato tra le mani "La ragazza selvaggia", edizioni Marsilio, sull'onda della nostalgia per quella scrittura, non ho esitato a portarmelo a casa.
Non mi piace stroncare i libri e non sono in grado di farlo. Non ne faccio questione di autorevolezza o di ignavia. È piuttosto una questione di intimità. Riguardo i bei libri sento la necessità di condividere l'esperienza positiva. Quanto alle delusioni, invece, preferisco gestirle privatamente.Terrei per me l'amarezza, lasciandola macerare nel silenzio, anche questa volta. Ma il talento della Pugno merita una breve nota, anche se di perplessità.
Senza la robustezza delle idee e l'energia visionaria che hanno caratterizzato altri romanzi dell'autrice, la volontà di avvincere il lettore si esaurisce purtroppo in un tentativo poco convincente .  "La ragazza selvaggia" è una storia esile, che procede forzatamente, come ingolfata. La scrittura, infatti, risentendo del vuoto di potenza creativa, scende gioco forza di tono. Una battuta d'arresto, sono sicura,  estemporanea. Attendo, fiduciosa, la prossima prova.

martedì 7 maggio 2019

Nati per correre. Adharandan Finn


 «Forse dovresti scrivere.» 
«Invece tu dovresti piantarla di leggere tutto ciò che è stato scritto.»
«E cosa dovrei fare nel tempo libero?» 
«Immergerti nella vita vera.» 
«C’è un libro che parla proprio di questo, sai.» 
Di tutte le citazioni di Philip Roth questa è la mia preferita. 
Di qualsiasi cosa si abbia bisogno: un oracolo, un maestro, uno specchio, un'approfondimento, siatene certi, da qualche parte nel mondo, c'è un volume che fa al caso vostro.

Sono arrivata a " Nati per correre" di Adharanand Finn, tradotto in italiano da Andrea Mazza per Sperling & Kupfer, partendo dalla notizia -nel cui merito non intendo entrare, invitando chiunque lo desideri ad approfondirla e, eventualmente verificarne l'epilogo consultando il web, che di tutto conserva indelebile ricordo- dell'impossibilità per gli atleti africani di iscriversi alla mezza maratona di Trieste del 5 maggio, riportata nei giornali il 27 aprile 2019.
Un fatto di cronaca, dunque, che mi ha sollecitato ad indagare due mondi di cui so poco: l'Africa, continente misconosciuto ( la cui storia, la cui geopolitica, usi e costumi in questi ultimi anni sono riuscita ad approfondire un minimo grazie  a scrittrici del calibro di Chimamanda Ngotzi Adichi) e la corsa ( in cui, lo si evince in maniera inoppugnabile dai risultati delle competizioni sportive degli ultimi anni, dominano gli africani).  Mi è bastato digitare sul motore di ricerca più diffuso tre termini:" +libro+corsa+Africa" e cliccare sul titolo che, tra  quelli comparsi sullo schermo, mi ha ispirato di più.
"Nati per correre" è un romanzo autobiografico, senza alcuna velleità letteraria di ampio respiro -lo sottolineo in maniera esplicita- in cui il giornalista, scrittore e runner Adharandan Finn racconta, con l'andamento quasi di una cronaca diaristica, del semestre in cui, famiglia al seguito ( moglie e tre pargoli) si è trasferito in Kenya per allenarsi alla durissima maratona di Lewa: 42 chilometri sulla Rift Valley, gareggiando spalla a spalla con gli uomini più veloci del mondo. Sei mesi intensi per l'uomo e lo sportivo. Ripercorrendoli con la semplicità e la pacatezza che connotano la sua scrittura,  l'autore mi ha concesso l'opportunità di correre al suo fianco una speudo maratona che rappresenta un piccolo, ma significativo traguardo personale verso la composizione di un quadro  più organico circa gli usi, i costumi, la lingua e la cucina del paese africano coprotagonista del romanzo. Per quanto riguarda la corsa, infine, è stato esaltante approfondire il mondo dei runners attraverso le esperienze e le  voci di corridori leggendari, grazie ai quali ne so un po' di più sulle ragioni che fanno del Kenya una riserva di maratoneti vincenti.
  

sabato 4 maggio 2019

I fratelli Michelangelo. Vanni Santoni





Seicentosettanta pagine non sono roba per mammolette. Occorre un fisico bestiale per leggerle in poco meno di una settimana. Non deve essere stato uno scherzo neppure scriverle, a dirla tutta.
Ecco un essenziale identikit dell’ardimentoso eroe dell’impresa: autore giovane ma non esordiente. Uomo. Classe 1978. Toscano. Palleggia abilmente tra letteratura e web tanto da aver contribuito, in questi anni, a enucleare in rete un territorio per scrittori, lettori, cultori, di cui resta uno dei principali animatori; una zona che potremmo quasi considerare alla stregua di una provincia, entità geografica connotante, a detta unanime della critica, la sua precedente narrativa ( indizione). Un’ aspirazione precisa: puntare, questa volta, al grande romanzo italiano. Idee chiare su come sviluppare la trama: quattro robusti rami, quasi alberi a sé, su cui il lettore può catapultarsi in arrampicata libera senza correre il benché minimo rischio di finire a gambe all’aria: la struttura è a prova di cedimenti. Uno scrittore che non teme la lunga distanza e la sa gestire: mestiere e talento dosati nella giusta proporzione gli consentono di padroneggiare l’ispirazione, le idee e la lingua in modo che tutto fili.
Il romanzo in questione è “ I fratelli Michelangelo” edizioni Mondadori. Lo scrittore Vanni Santoni. 
Antonio Michelangelo, personaggio poliedrico ma non camaleontico ( mantiene sempre una sua coerenza di base, anche nei cambiamenti, che, nel corso della sua vita, pochi non sono), tronco novecentesco di un albero ormai avanti negli anni, vuole incontrare i cinque rami -di cui dicevo innanzi- che sono germogliati dalle sue radici, seppur da madri diverse. Quattro dei suoi cinque ragazzi, ciascuno per ragioni diverse, rispondono all'appello, raggiungendolo nella località in cui si è ritirato.
Nel bene e nel male, per taluni con la presenza e per altri con l’assenza, con l’ amore o con l’indifferenza, con la cieca abnegazione verso se stesso, in alcuni momenti della vita schiava dell’ambizione e in altre delle più puerili ed egoistiche aspirazioni personali, finanche con il flebile e temporaneo sforzo di un radicale annullamento a favore dei figli nati in costanza di matrimonio, Antonio Michelangelo segna indelebilmente la sua prole. Per addizione o sottrazione, come ogni genitore, resta il co-artefice delle fragili personalità che sono sangue del suo sangue, chiamate per la prima volta a raccolta senza un’apparente ragione.
Il Saltino di Vallombrosa, dove, per necessità, per odio o per semplice curiosità, convergeranno obtorto collo i quattro, si profila per ciascuno come la meta di un faticoso tragitto, attraverso i sentieri della fanciullezza, dell’adolescenza e infine dell’età adulta, per arrivare non solo al padre, ma soprattutto a se stessi. Il percorso  imporrà  loro di rivivere lo smarrimento provocato dalla presenza costante alle proprie spalle del fantasma paterno, la sofferenza dei tentativi di affermazione professionale andati a monte, l'ebbrezza dei trionfi e la disillusione portata dagli insuccessi e degli errori impossibili da riparare. Logorante e amaro per loro, avvincente per il lettore.
Quattro rami innestati da Vanni Santoni su quel vecchio e consunto fusto principale di Antonio come veri e proprio micromondi separati. Il passato è un territorio che genera convinzioni, comportamenti, regole etiche, prammatiche inoppugnabilmente soggettive. È la terra dove ciascuno lavora per divenire signore indiscusso del proprio regno, istituendovi le proprie regole, il proprio percorso culturale, finanche la propria personalissima lingua. Abilissimo, Santoni nel far emergere lentamente i suoi personaggi dai rispettivi retroterra, e rimanere, senza la minima sbavatura o cedimento, nel sentiero tracciato per ciascuno, regalandoci spaccati singolari, caratteristici, eccentrici, insospettati ma tutti, proprio in quanto diseguali, accidentati e sconnessi, altamente coinvolgenti per il loro essere plausibilmente umani.

giovedì 2 maggio 2019

"Il giorno della nutria" - Andrea Zandomenghi


“Il giorno della nutria” di Andrea Zandomeneghi, edizioni Tunué, mi guarda arcigno, dall'alto della pila di libri che, guadagnata la mia approvazione, attendono pazientemente che ne scriva.
Ero partita a razzo, in verità. Già a metà del libro, mentre bevevo il primo sacro caffè della giornata, una mattina mi ero lanciata nel seguente commento entusiasta: Non vorrei spoilerate nulla di questo testo, se non in un consiglio di lettura scritto bene, strutturato, circostanziato. Un consiglio che sia, insomma, all'altezza del libro stesso, che è sagace, erudito, divertente, intelligente così come tutte le cose fatte per bene o super perbene dovrebbero essere: con il giusto equilibrio, con la necessaria raffinatezza, con la sottile ma palpabile ironia che fa risaltare, rendendo più palesi i contrasti, le illogicità, i logorii degli intellettualismi (che divengono umane nevrosi) moderni, il nostro essere nel tempo che viviamo. Potrei dire che Zandomeneghi ha scritto un romanzo imprescindibile, necessario, urgente. Non lo dirò per non nuocere ne' al romanzo, ne' al suo autore: certi aggettivi rischiano di essere caricaturali e di instillare dubbi sulla reale corrispondenza ai testi.
E’ successo poi che recensioni su “ la nutria” siano piovute giù a catinelle da ogni parte e che in ciascuna abbia letto le cose che avrei voluto dire io, sicuramente meglio di come le avrei dette io: ottimo esordio, “giallo capovolto”, affresco della provincia italiana, riuscita analisi introspettiva, colto, ironico. Ho preferito, a quel punto, l’autocensura per scampare il rischio d’annoiare.
Le cose lasciate in sospeso, tuttavia, mi perseguitano senza lasciarmi scampo e, meglio tardi che mai, eccomi qua: una lode in più, in fin dei conti, potrà stufare ma non nuocere.
Ammetto la difficoltà di riprendere il discorso interrotto in quella fredda mattina di marzo conservando minime briciole di autonomia dagli autorevoli pareri altrui. L’unica via praticabile è di riversare nel mio consiglio (spoglio di qualsiasi considerazione tecnica) unicamente la soddisfazione, nuda e cruda, goduta leggendo il romanzo.
Soffro da sempre d’emicrania, supplizio che pare abbia trasmesso, come una sorta di anatema genetico, anche alla mia secondogenita. Dopo “Il giorno della nutria” nulla sarà più lo stesso. Non potrò mai più vivere un singolo episodio di cefalea senza pensare alla ragguagliatissima, ancorché spregiudicatissima creatività, in fatto di rimedi farmacologici, di Davide Aloisi, protagonista del romanzo e, ora, mio personale guru letterario, in buona compagnia con Portnoy dell’omonimo lamento di Roth, Ignatius di “Una banda di idioti”, Barney della Vesione di Richler e Lenny Abramov di “Storia d'amore vera e supertriste” .
Zandomenighi è bravissimo a caricare il simpatico psicotico giovane di tic, stigmi e dogmi tipici della sua ( vorrei dire mia, ma purtroppo non posso più permettermelo) generazione. A gettargli sulle spalle dubbi, idiosincrasie, disillusioni di ogni sorta, che con abilità Aloisi schiva o assorbe -come più si preferisce- con sarcasmo, amarezza, disincanto, grazie al corroborante ausilio di massicce dosi di psicofarmaci, droghe e alcool frammiste a una solida e ben sedimentata preparazione culturale.
Uno romanzo che mi ha divertito, sorpreso, confuso, convinto e non esattamente in quest’ordine.
 “Il giorno della nutria” è vulcanico. Lapilli, ceneri, gas  della storia strettamente intesa investono istantaneamente mentre il magma avanza più lentamente ma inesorabile,  depositando mille sollecitazioni( frammenti di cultura alta, nozioni di farmacopea, molto più che un'infarinatura di psicologia/psicanalisi) e mille acute considerazioni ( la parentesi sulle cose divine di pag. 42 da tenere in conto, così come quelle sul senso di superiorità  di chi si arrocca sui vantaggi secondari della cultura di pag. 107).
E’ vero che nella seconda parte il registro sarcastico cede il passo ad una psichedelica angoscia che asciuga il sorriso a vantaggio della trepidazione, rendendo la lettura più impegnativa e sofferta, ma bisognava pur risolverlo il giallo.
Il giudizio è favorevolissimo. Bene, molto bene per Zandomeneghi.


mercoledì 1 maggio 2019

Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato - Davide Morganti

Ho conosciuto di persona Davide Morganti solo qualche settimana fa. Per puro caso. Era già tra i miei contatti di FB. Poi, come sovente accade sui social, uno scambio di battute circa un argomento di interesse comune, breve ma interessante a mezzo di conversazione privata, ci ha fornito l’occasione non dico di rompere il ghiaccio, quanto meno di intaccarlo significativamente. Così, quando l’ho intravisto tra la folla, in attesa della metro sulla banchina della stazione Garibaldi, non ho esitato un solo attimo ad importunarlo, imponendomi perfino come compagna di viaggio nella breve tratta verso casa.
Se la convinzione che una persona debba risultati simpatica a prescindere, per la sola circostanza d'essere uno scrittore -di cui tra l'altro si vocifera un gran bene tra gli amici con   la tua stessa passione per la lettura- è un preconcetto bieco, allora mi dichiaro colpevole. Nonostante ciò, faccio salva la necessità di verificare che il sentimento umano  non ottenebri e comprometta la sensibilità e il gusto della lettrice; quindi proprio a causa della chiacchierata in metropolitana (che ha naturalmente confermato la mia primigenia, istintiva sensazione di affabilità) si è fatta più pressante la curiosità di leggere uno dei suoi romanzi, per verificare la tenuta della mia indipendenza di giudizio. 
"Il cadavere di Nino Sciarra" edito da Wojtek mi è parso  più idoneo alla bisogna rispetto al ben più corposo" La consonante K", edizioni Neri Pozza, già per altro in attesa in libreria.
Ci sarebbe molto da dire su “Il cadavere di Nino Sciarra”, tuttavia mai contravvenire alla regola di buon senso (e di buon gusto) di NON scrivere un consiglio di lettura più prolisso e artificiosamente articolato del romanzo a cui si riferisce, quindi sarò stringata.
Il romanzo di Davide Morganti è una personalissima antologia del novecento dimenticato. La ricerca del cadavere del titolo, quel Nino Sciarra fagocitato dalle macerie della casa-caos di Lago Patria è un mero pretesto per l’escursione, in arrampicata o in immersione, nello strano cimitero, che mette dentro vivi e morti, della letteratura diligentemente, o dovrei dire proditoriamente, accantonata fuori dai canali divulgativi ufficiali, se dalla critica o dallo  Stiticismo*, poco importa.
Tempo, morte e fede sono i tre fili che l’autore utilizza per sfilare dalla tela dell’oblio i romanzi prescelti per poi contemporaneamente intrecciarli in una nuova maglia, necessaria per rimediare al guasto, al gran male che ci affligge, ovvero l’uso di riconoscere il valore della scrittura solo sui social e dunque di usarla in maniera ossessiva per spargere odio, rancore, pareri, consigli, ricette.
Un romanzo denso, impavido, dalla personalità fortissima questo di Morganti, il quale, con uno sguardo critico completamente libero, affrancato da qualsiasi riferimento ideologico, sembra voler trarre dal materiale che maneggia un nuovo canone, un paradigma che si spinga oltre il recinto della scrittura esteticamente apprezzabile o  grammaticalmente corretta, che accolga anche i libri non memorabili, anzi brutti, con trame noiose, però capaci di comunicare segnandoci.
 Non oso paragoni o richiami ad altri autori o altri romanzi. So che Morganti non ha in particolare simpatia i tentativi di assimilazione. Ho il dubbio, finanche, che disapprovi le citazioni di cui mi sono fin qui servita.
Res sic stantibus persevero nel depredare Morganti di un ultimo giudizio, che trovo particolarmente calzante:-“Il suo è un libro feroce, malinconico, che andrebbe letto in penombra, come ho fatto io, rannicchiato contro la parete viscida di umidità che mi ha bagnato la schiena per ore”. Così l’autore  scrive del “ Diario di un vecchio” di A. Fiore.  Così mi permetto di dire io della suo romanzo, “ un diario che è storia non di un uomo , o non solo, ma di una scrittura” e, dalla mia prospettiva, storia di una lettura.


*Stiticismo: secondo la definizione dello stesso autore, corrente di inizio Duemila assai diffusa in Italia, quella dei romanzetti stiracchiati con poche parole e con storielle minime minime che rappresentano il reale.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...