martedì 9 ottobre 2018

Il benedetto workshop

Ho un'età interlocutoria in cui non si è più giovani ne' ancora vecchi.
Sono in quella terra di confine che per molti versi è un ritorno all'adolescenza, quando sei mezzo bambino e mezzo adulto e i bambini non ti vogliono a giocare  ne' gli adulti a conversare.
Sono in quella fase in cui le persone ti inondano di consigli, continuamente, come fossero terapisti di professione. Ti consigliano come gestire la menopausa, il distacco dai figli,  il corpo che cambia, il colore dei capelli, la lunghezza delle gonne. Soprattutto  ripetono, allo sfinimento, che devi metterti in gioco e tu fatichi a capire di che gioco parlino.
La scuola pedagogica a cui mia madre mi ha formato è quella dei sensi di colpa, della disistima, quella che imponeva di metterti sempre in discussione. Il risultato è che io, partendo da una perenne autocritica, quei consigli li ascolto.
La scorsa settimana, ad esempio, a Ferrara c'era il festival dell'Internazionale. Un fitto programma, oltre che di incontri, di workshop.
Quindi  -ok! mettiamoci in gioco- mi sono detta, mentre compilavo la domanda di partecipazione a "recensione come una delle belle arti". 
 
Scrivo di libri da tempo ma è  sempre utile conservare un atteggiamento recettivo e umile. Sicuramente avrei scoperto nuove prospettive grazie alle quali parlarne meglio e 
 sarebbe stato costruttivo sottopormi a verifiche e critiche . 
Non ho sottovalutato neppure il lato sociale. Mi piace stare in mezzo alla gente, a maggior ragione tra quelle con cui condivido interessi.  Fare nuove amicizie è, in fondo,  come  cazzeggiare su google: pare una perdita di tempo, invece impari sempre del nuovo.
L'unica cosa che trovo sfiancante è rompere il ghiaccio con i giovani.
Non è che non lo capisca, il loro disagio nel rapportarsi a me. Me lo ricordo quando agli esami, in università, si presentavano "i vecchi" e   li evitavo perchè venivano dal giurassico e io invece stavo nel futuro. E immagino anche la situazione da cui sfuggono: la pesantezza dei genitori la vogliono lasciare chiusa a casa, hanno il terrore di trovarsela tra i piedi anche nel loro mondo.
Credetemi, so stare alle regole della socialità intergenerazionale. Ho la consapevolezza di essere sovrabbondante, quindi tendo a parlare poco, a non essere invadente, a non far pesare quante delle "cagate" che sparano con la loro area saccente io le sappia già.
Però, non mi devono provocà.
Primo giorno, fuori dall'aula. Mi faccio coraggio. Mi setto in versione "Palomar" pronta a mordermi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Aspetto il turno nel  giro di presentazioni. Per una mia  antica battaglia, alla  domanda su cosa faccia rispondo sempre e fieramente  la casalinga. La ventiquattrenne che conduce la conversazione emette una risatina vacua e proditoriamente incalza di fronte alla mia laconicità chiedendomi se scrivo. Io reticente, schivo anche il secondo tiro. Lei insiste:-" magari un blog?".
Non nego: si, confermo. Sfodera il più ... (  a questo punto io avrei scritto cretino, ma fate voi) dei sorrisi e fa:-" lo sapevo. Là volevo arrivare!".
Là voleva arrivare la piccirella, che una casalinga nel territorio di mezzo che è la mia età, in un workshop di questo tipo, non può che essere una sfigata da blog, come fosse una categoria riconosciuta per legge.
Naturalmente nel corso degli incontri colui che conduceva il laboratorio ha proposto di scrivere una recensione.
Ho letto la mia. Li ho spiazzati tutti.
"Dallo psicanalista un uomo confessa il bisogno di recidere i lacci materni e le radici ebraiche. Una questione di seghe, non solo mentali." 
Il mio tweet sul lamento di Portnoy li ha    stupiti e fatti sorridere.  
 L'anziana sfigata casalinga da blog ce l'ha un mestiere . I complimenti che  son venuti  li ho intascati con soddisfazione, intimamente dedicati alla simpatica ventiquattrenne.



 

Ernesto Guevara de la Serna : un omaggio

L'immagine può contenere: testo

Ernesto Guevara de la Serna è morto il 9 ottobre 1967, eppure io l'ho visto. L'ho visto aggirarsi indaffarato tra i tavoli di un ristorante italiano in un piccolissimo paesino della campagna tedesca. 


Ho visto il suo volto, quello che avrebbe oggi, il viso da 48enne che ha fatto la storia e continua ad esserne nel turbinoso flusso, figlio del nostro e del suo tempo.
Ernesto Guevara era nella sua posa eterna, con il suo consueto, perpetuo sguardo malinconico e fiero. Guardava al futuro da una foto glitterata d'argento su sfondo giallo limone di una maglietta. Faceva pentant con un pantalone bianco Armani tenuto su secondo lo stile ascellare alla "Pasquale Ametrana" .
Sul momento mi sono intristita. Poi ci ho riflettuto . 
Il Che è vivo. E' tra di noi. Per nulla stravolto da tutto quell'argenteo sfavillio, dall'alto di quei pantaloni griffati mi è apparso mansueto e consapevole. Consapevole che i tempi sarebbero passati di qui, ma non vi si sarebbero fermarti. Che la storia ha necessità perfino di questa tappa, di sostare nel mezzo di un'epoca che patina tutto, anche i rivoluzionari.

mercoledì 26 settembre 2018

Dal diario di una disturbatrice lettrice

C’è proprio bisogno di ostendere socialmediamente ( vanterei diritti di primogenitura su un avverbio di cui si sente la assoluta necessità oggi ) ogni segmento della propria vita? Certo che no. Ma se vi siete recati in gita nel paese dei balocchi e, nonostante la ciucciaggine che vi affligge, ancora riuscite a intervallare ragli con parole in modo che il tutto abbia un senso o quasi, allora avete il dovere di renderne pubblica testimonianza. Pordenonelegge. Dalla scorsa edizione all'attuale c'era di diverso che nel frattempo mi è capitato di compiere i 50. Un gradone che si può salire a forza di spinte e traini o con una certa autonoma agilità; tutto dipende da quanta zavorra e quanta parte tossica di noi stessi siano, nel frattempo, evaporate. Non sono ancora al livello “leggerezza” ma il “fanciullesco” a cui sono arrivata è già ottimo e mi consente qualche libertà. Quella di lanciarmi in un party meno abbottonata, meno disciplinata, ad esempio. Vale anche nel caso di una “festa del libro con gli autori”. Così, con un cipiglio tra il pinocchiesco e il lucignolino, ho disturbato tutti gli autori che mi sono capitati a tiro. Lungo l’elenco delle mie vittime dei tre giorni di cuccagna. Nominerò coloro che sono stati particolarmente pazienti: Giulio Mozzi, Gian Mario Villata, Evelina Santangelo e Chiara Valerio, prese al medesimo laccio, Michela Murgia, infine Rosella Postorino, che ho strapazzato in un abbraccio forse troppo caloroso. Un apoteosi del disturbatore che, temo, non si ripeterà mai più, essendo ormai tutti avvisati di tenersi alla larga dalla stramba bassina con l’accento napoletano. E nulla, ci tenevo a condividere la fortuna di aver incontrato tali talenti. Ci tenevo sopratutto a testimoniarne il garbo, la simpatia e la disponibilità. Grazie a questa bella parte d’ Italia di cui andare più fieri!





giovedì 13 settembre 2018

"Una vita come tante" H. Yanagihara - " Lincoln nel Bardo" G. Saunders - "History" G. Genna.


Certi cortocircuiti emotivi solo i libri te li possono regalare.

Mentre sei lì che tenti di metabolizzare il destino di Jude e il dolore di Harold, ti trovi a fare i conti con il destino di Willie e il dolore di Mr Lincoln. Poi l'incipit folgorante di History :"le ragioni della terra hanno figli.".
Pazzesco come tre romanzi, in modo completamente diverso, attraverso lingue diverse, paradigmi coniugati di volta in volta in maniera ortodossa o alterati rivoluzionariamente, ti facciano uscire ed entrare dalle proprie pagine accavallandoti i pensieri, stratificandoti le emozioni in un unicum che confonde ma sorprende e appaga.
Three in a row...
Se non li avete letti, fatelo.
Tre testi con tre gradi di difficoltà:
1) indubbiamente la lunghezza rende il primo antipatico a prima vista, ma fidatevi, passata la decina, le successive andranno via facile.















2) la struttura narrativa è inizialmente l'elemento poco confortevole per il secondo, ma datemi credito, una volta che avrete abituato l'orecchio, la storia sarà una musica nuova e esaltante come tutte le ventate di originalità.














3) la difficoltà del terzo sta tutta nella "gennicità" della scrittura .
Avevo pensato, in questi giorni, di scriverne più diffusamente e intitolare il consiglio di lettura simpaticamente (si fa per dire) "Genna for dummies' poi ho desistito perché :-"dummies lo dici a tua sorella"- mi avreste obiettato voi. Se anche l'autore commenta a proposito di History che è pesante (l'ho letto in una discussione sotto un suo post) allora il giudizio (data l'autenticità della fonte) è riportabile benché non necessariamente condivisibile.
Con Genna il punto è sempre lo stesso: scrive difficile. Il mio punto sul punto è che bisogna farsene una ragione riguardo la necessità innata in alcuni scrittori di utilizzare il linguaggio che pare a loro, di praticare la libertà di essere desueti, ricercati, talvolta asfittici, quando tale scelta non è manierista bensì manifestazione semplice e autentica del sé. Mica possono essere scrittori solo coloro che sono lineari. Ridiamo dignità ai tortuosi, perché dall'altro lato, simmetrico rispetto all'esigenza di libertà di chi scrive c'è anche un certo obbligo di chi legge al sacrificio minimo, che può essere utile di tanto in tanto. Per godere del panorama del Monte Rosa, per essere inebriati dal senso di potenza che ti prende quando hai completato la scalata devi salire, appunto. Non esiste un Monte Rosao a mare. Così è certa scrittura, una ascesa.


sabato 1 settembre 2018

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domenica 20 maggio 2018

Intraprendenza giovanile

Oggi mi hanno proposto un affare, e io l’ho colto al volo, senza preoccuparmi se fosse buono. L’ho afferrato senza indugio, conscia che – come s’ evinceva dal sorriso furbastro, retro_espressione della facciata posticciamente ingenua dell’imbonitore- agli occhi di chi me lo rifilava incarnavo il proverbiale pollo da gabbare.
Non ne volevo parlare, giuro!
Ma rimuginare non serve a niente, se non si può esternare, soprattutto quando il topic è di quelli per voi ad alta sensibilità e sui quali ci prendete abbastanza.
Il fatto è questo: tornando dalla presentazione de “ Il corpo del reato” di Carlo Bonini ( inchiesta giornalistica sul caso Cucchi) ed. Feltrinelli, mi reco all’appuntamento con mia figlia davanti ad una nota libreria di catena, dove vengo intercettata da un giovanotto che mi propone l’acquisto del suo libro.
“Lei legge?” - esordisce
Nel momento in cui decido di rispondere –superfluo aggiungere affermativamente?-  ho già ingoiato coscientemente l’amo che mi si è parato davanti, spropositatamente grande rispetto alla risicata e non freschissima esca con cui si pretende di occultarlo. 
Potevo essere cattiva e snobbarlo. Invece, volenterosa, decido che cinque euro ce li posso “rifondere”. Lui sente l’ebbrezza della piccola vittoria portata a segno e gongola ancor di più quando gli dico che non solo leggo ma scrivo anche di libri.  E’ sveglio, il ragazzo. Intraprendenza ne ha da vendere e mi chiede subito una recensione, sottolineando che il libro mi piacerà.
C’è un prezzo per tutto. Decido che il sedicente “scrittore” mi dovrà un corrispettivo per i miei euro. Congrui mi sembrano: un serrato interrogatorio e una essenziale ramanzina.
Gli chiedo del suo percorso di studi, di cosa legga, se ha avuto un editor o quanto meno un lettore b, quanto abbia pagato per realizzare il suo sogno.
Nell’ordine viene fuori che è studente di scienze motorie, che non legge essendo occupato nello studio ( e ad imbrattare pagine bianche, evidentemente), che glielo ha letto, il libro, una non meglio individuabile professoressa di italiano.
 Ne deduco che non stiamo maneggiando quella fattispecie che va sotto il titolo “ realizzazione di un sogno” quando piuttosto  la fase conclusiva di un progetto istintivo ( che tuttavia denota  forte interiorizzazione dei principi del più genuino  yuppismo anni ’80)     oscillante tra la soddisfazione di un capriccio estemporaneo :” mi è venuta in mente questa storia, che è veramente bella ( si sbilancia senza un briciolo di umiltà)” e un ruspante piano per raggranellare qualche soldo commercializzando il manufatto.  (L’obiettivo affinché questa rudimentale società commerciale chiuda in attivo il suo bilancio è minimo. Per recuperare i cinquanta euro delle spese di produzione basta, infatti, che venda 10 libri. Dubitate voi che la città scarseggi di altri nove fessi, oltre la sottoscritta?)
Mi sovviene la celebre frase di Abbie Hoffman “Eravamo giovani, eravamo avventati, arroganti, stupidi, testardi. E avevamo ragione!”
Cinque su sei, niente male. Giovane è giovane. Avventato pure. L’arroganza non manca e non gli difettano stupidità e testardaggine. Ma in quanto ad avere dalla sua la ragione, ah! Quanto ne corre.
Ci passano “le novantanove bottiglie di pipì” a cui sempre penso quando si parla di self publishing (vanity press, in inglese) dell’omonimo capitolo tratto dal libro ““Il cuore è idiota” di Davy Rothbart, dove l’autore narra di come, per rivincita su un  impostore, reo d’avergli raggirato il padre illudendolo con promesse di successi sicuri, gli invia giorno dopo giorno, appunto, un arsenale di novantanove bottiglie di urina. Non ho a portata di mano simili munizioni e sopperisco infarcendo di consigli e rimproveri il pistolotto che  destino al mio scrivano   : leggere molto (gli faccio dei nomi), cominciare a gettare un occhio serio sul mondo letterario e quello editoriale, trovarsi un editor che lo corregga, lo guidi, che sinceramente e con competenza giudichi il suo lavoro. Che abbandoni la via del  self publishing almeno in quella forma così pressappochista e minimale a cui si è avvicinato. Cinquanta euro, per questa volta, passino. E’ stato persino fortunato, dato che per il futuro potrebbe finire in bocca a squali più famelici.
Apro  una pagina a caso del libro e l’occhio mi cade su un periodo che si conclude in un tripudio di punti esclamativi. Gli faccio notare che l’enfasi di una frase non è data dal numero di punti d’esclamazione, che ne basta sempre e solo uno!!!! Fa una faccia strana e mi chiede di ripetere il concetto. Mi rendo conto che me lo sono perso alla parola “enfasi”. Ci scappa qualche rimprovero.
L’ultima cosa la dico tra i denti, quasi a me stessa:” Chissà, magari avessi mai letto un Harmony, già avresti capito un po’ più cose sul mestiere di scrivere”.
Sono sempre stata una che fa i compiti. Anche questa volta, leggerò le 129 pagine del libro. Nulla a che fare con la curiosità. Neppure con l’ansia di stroncare. Lo leggerò piuttosto – per un sadico contrappasso- con lo stesso spirito con cui guardo certe performance canore ai provini di x factor.
Per cercare di individuare   responsabili e responsabilità   di una deriva pressappochista nociva e altamente contagiosa.
Chi non ha spiegato al giovanotto che c’è una differenza tra “scrivente” e “scrittore”?  Che il talento non è prevalentemente roba di pancia ma è questione di studio, disciplina, confronto? Che è una colpa grave ignorare l’esistenza dei vari livelli di scrittura, dei tanti generi letterari, delle tecniche di narrazione?
Chi non si è assunto la responsabilità di cassare il capriccio velleitario di un ventunenne?
Scoraggiare, infrangere sogni, tarpare ali. Brutte espressioni, “lavori difficili” per gente dura, ma di cuore. Infatti, in storie come questa  di illusioni malignamente alimentate, non sempre i cattivi sono quelli che così ci appaiono a prima vista. Più crudele  di chi smorza gli entusiasmi e ridimenziona i talenti è colui che manda, per tornaconto, ignavia, mancanza di professionalità,  il  debuttante allo sbaraglio.
“Scriverà del mio libro?”
No. Non scriverò nulla. Se però un giorno riuscirai a diventare scrittore, colmando tutte le lacune che ti porti dietro, ricorda che questo esordio peserà sulla tua carriera come  la prima e unica foto di nudo nel curriculum dell' attrice.

venerdì 4 maggio 2018

" Bruciare tutto" di Walter Siti


Scrivere di “Bruciare tutto”, di Walter Siti, edizioni Rizzoli, è difficile.
 Pur prescindendo dal giudizio espresso da Michela Marzano nell’articolo “La pedofilia come salvezza: il romanzo inaccettabile di Walter” http://www.repubblica.it/cultura/2017/04/13/news/pedofilia_walter_siti-162874167/ e dalle polemiche scaturitene, è comunque
 complicato cimentarsi in valutazioni sulle quali non pesi la soggezione verso l’ autore.
 E’ insolente improvvisarsi difensori di Siti, cui non fanno difetto ne’ penna, ne’ ponderazione per far da sé. Temerario, al limite del peccato di hỳbris, nominarsi portavoce o esegeta di un maestro a cui è riuscito di saldare la parola al concetto, con un risultato di reciproco rispecchiamento così perfetto da rendere improbabili i fraintendimenti. Pressoché comico buttare là un: — “io penso che…” “sono convinta che”, a proposito di un intellettuale a cui va riconosciuta la primogenitura su un linguaggio modernista, consustanziale al contemporaneo di cui narra, nel quale si rivelano pienamente l’estro e l’abilità creative con gli esiti di chiarezza di cui si diceva innanzi. A voler interpretare Walter Siti, insomma, ci si espone al pleonasmo. A decifrarne la volontà e l’intento si rischia solo di stravolgere e/o falsificare quei contenuti affidati a una lingua meritoria di risalire dall’individuale dei dialoghi da cui germoglia, all’universale della realtà storica e sociale di cui diviene cristallizzazione, modello obbligatorio per gli scrittori che parlino del medesimo presente.
 Un tale azzardo resta possibile e conviene solo in rete, dove le incommensurabili distanze cibernetiche ci mettono al riparo dall’eventualità che l’autore si imbatta nei nostri ghiribizzi sul tema.
 Mi sono fatta l’idea, ordunque, che “ Bruciare tutto” sia un ulteriore capitolo –speriamo non conclusivo- del grande romanzo sull’ odierno che Siti va scrivendo libro dopo libro. “Resistere non serve a niente”, ci ammoniva l’autore nell’anno in cui conquistò lo Strega. Il passo successivo fu pianificare una “Exit strategy”. Risolutivo è sicuramente “Bruciare tutto”.
 Questo ultimo libro sta -mio modestissimo parere- all’intera produzione di Siti come l’omelia del protagonista Don Leo, pronunciata nel “ Fidei donum” nono e ultimo capitolo, sta all’intero romanzo: con mero intento provocatorio. Il prete sceglie di essere a tal punto disturbante nel suo sermone d’addio, il “suo testamento”, da mettere letteralmente in fuga i presenti. Sceglie di sintetizzare tutti i dubbi accumulati nella sua vita e nella sua opera pastorale in un excursus che culmina nell’esortazione a rivedere “il nostro stile di vita”, l’idea che “la vita umana è la cosa più importante e che la religione (…) un fatto privato (…), entrambe affermazioni non vere, essendo centrale solo la volontà di Dio”. Sceglie di profetizzare la necessità di “ un progetto di rivolta” perché “non esiste Dio senza rivolta” -dal momento che -“ l’umanità sopravvive, cioè vive sopra se stessa, soltanto se mette in conto il pericolo della propria estinzione…”
 La pedofilia, il tabù dei tabù, piuttosto che elemento dominante, esclusivo, della narrazione ( pochi i riferimenti espliciti, esigue, anche nel numero, le pagine dedicate) mi pare, cioè, solo il pretesto, l’espediente più indisponente che Siti abbia trovato sottomano, ma tuttavia contiguo ai suoi soggetti tradizionali, per imporre un ripensamento dei temi solenni e centrali al cattolicesimo, smembrato da strumentali e devianti interpretazioni.
 L’uomo, che nei precedenti romanzi ( “passeggiate archeologiche nelle vite devastate”- saccheggiamo la frase al Siti attuale) si perdeva nel nichilismo della droga, dello svilimento del sesso, della finanza creativa, deve recuperare se stesso sciogliendo –o più propriamente- riannodando il cappio scorsoio della religione, riprendendo il dialogo con e l’obbedienza a Dio.
 Cosa ne è della “grazia”, del peccato, del diavolo, a cui ci si riferisce sempre più sporadicamente come fonte del male. Il credente cristiano è come l’avventore che, in uno splendido lapsus tra distrazione e ignoranza, chiede del “Prosciutto di Prada”. E’ un essere che ha confuso i piani della giustizia, della morale e della religione, eliminato i confini tra il dovere e il piacere, perdendo la bussola e restando menomato sia come essere individuale che sociale. “La religione — dice Don Leo- non si fa: si patisce semmai, si asseconda e si gode, eventualmente si applica”.
 Non intendo tornare sulle considerazioni della Marzano. Ne’ indagare il tema vastissimo dei luoghi in cui un autore debba attingere “il materiale” di scrittura. Pronunciarmi sulla liceità del cogliere solo dall’alto o della opposta possibilità di estrarre dal basso. Dico solo che Walter Siti si conferma una voce imprescindibile per ripensare al contemporaneo. L’unico capace di scrivere una “ Guernica” davanti alla quale ci inchiodino le opere, le parole, le omissioni di cui siamo colpevoli, rimasti orfani- per parricidio- di Dio.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...