giovedì 22 marzo 2018

"Let them eat caos" di Kate Tempest

Ci sono momenti della vita in cui bisogna lasciarsi andare. Arrivano chiamate inattese cui rispondere senza freni. Oggi ho incontrato Kate Tempest e, lasciando le altre letture da cui sono presa, l’ho seguita. Pomeriggio faticosissimo ma esaltante. I versi di questa poetessa sono una forza della natura. La sua Londra il paradigma di ogni nostra città di questo angolo occidentale di mondo. Le solitudini, le insonnie, i fremiti interiori, le urla di dolore dei sette protagonisti del poema parlano a ciascuno di noi, così come a ciascuno di noi è diretto l’urlo finale con cui Kate Tempest ci invita a “ woke up and love more” ( svegliarci e amare di più).

Si, sono facile agli entusiasmi . Si, sono capace di spendere una giornata su un libro. Si, anche questo, o soprattutto questo mi tiene sveglia e magari mi fa amare di più.

Provate a leggerlo, il libro, che ha la traduzione italiana a fronte. Provate a sentire la performance che si trova su You Tube


Scrive Jovannotti nella prefazione del volume “Stato di quiete” del compianto P. Cappello : “forse che la poesia è proprio questo affermarsi esseri umani e a questo dare importanza. Ci si può incontrare nel bianco che circonda i versi” . Ci credo fermamente e in virtù di ciò vi esorto a regalarvi questa esperienza.

martedì 20 marzo 2018

"Fame" di Roxane Gay


“Questa cosa che di un libro ne parlano tutti e quindi c’è da insospettirsi non l’ho mai capita, giuro”. (Tweet di Teresa Ciabatti).
C’è spesso diffidenza, specie da parte dei lettori forti, verso i best seller e, più in generale, verso i libri sui quali più insistono le promozioni pubblicitarie. Abbiamo –noi sofferenti di tale disturbo- riguardo ad essi un preconcetto, originato dal timore di incappare in fuffa. Tuttavia, restiamo curiosi e umili e pur sempre lettori, quindi per bulimia non possiamo far a meno di nutrircene. Questo mese ho ceduto alle lusinghe del tam tam per ben due volte. Ho acquistato due titoli sulla bocca di tutti, entrambi editi da Einaudi: “Parlarne tra amici” di Sally Rooney e “Fame” di Roxane Gay.
Del primo ne ho brevemente scritto qui https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10213854675513989&set=a.10202643435079985&type=3&theater.
Del secondo ne parlo, naturalmente, adesso.
Roxane Gay , nata il 28 Ottobre 1974, è una scrittrice americana di colore, docente universitaria, editor, attivista, femminista, che prima negli USA, ora in Italia, sta rapidamente scalando le classifiche con il memoir “ Fame”, saggio autobiografico in cui ha riversato, in una sorta di bulimia narrativa, le problematiche personali, sociologiche, psicologiche, fisiche, comportamentali di una esistenza da obesa.
Michela Murgia, in un post di fb: fb https://www.facebook.com/kelledda/posts/10155500000609370  celebra il libro come un vero e proprio manifesto femminista, sostenendo che la Gay “ ha rotto il patto del silenzio e si è presa la responsabilità di raccontare l'incubo americano in un mondo che dell'America vuole solo il sogno” poiché solo “In apparenza ti parla del suo corpo ferito, ma sta parlando di una società che nel corpo si rappresenta e che contro i “corpi ribelli” è violenta e giudicante, intimorita dalla diversità. Parla della sua anima compromessa, ma rivela anche il dente cariato nascosto nel sorriso di un Occidente in cui persino all'anima è richiesta una forma perfetta”.
Le risponde dalle pagine di #329 de “La lettura”, supplemento del Corriere della Sera, Teresa Ciabatti, la quale concorda sull’importanza di “Fame” come testimonianza personale – “qui dunque la Gay ricostruisce la storia del suo corpo, dallo stupro ai duecentosessanta chili” - ma solleva dubbi circa la possibilità che il libro, “già successo internazionale”, possa essere effettivamente “il manifesto del nuovo femminismo”. “Autocelebrandosi vittima –prosegue, infatti, la Ciabatti- Roxane Gay crea un racconto monocorde in cui la colpa è sempre nel mondo violento e predatorio.” (…) “Difficile dire se queste estremizzazioni rendano la testimonianza più forte o la indeboliscano. Di certo rischiano di creare due fronti contrapposti che tornano a ridurre il discorso, quando il #metoo tenta di rintracciare nuovi confini dentro i quali includere molestia, abuso di potere e tanto altro fin qui ingiustamente tollerato.
Non facile pronunciarsi rimanendo entro i confini di un solco autonomo rispetto alle opinioni delle due autorevoli scrittrici.
Dal punto di vista della qualità della scrittura il libro si fa leggere bene, anzi benissimo. L’arrendevolezza combattiva – l’ossimoro ci sta tutto- con cui la Gay cede alle pagine, in una sorta di “vuotamento del sacco” compulsivo, privo di filtri, sovraccarico come solo le confessioni spesso sono, trascina  il lettore in una quasi necessaria maratona di lettura. Vale lo stesso discorso per il coinvolgimento che suscita riguardo al tema. La franchezza con cui l’autrice si consegna alla narrazione della sofferenza generata dallo stupro, ma soprattutto dalla prigionia in un corpo che intimamente non le appartenere, evoca un sentire comune che tracima in compenetrazione empatica ad opera del lettore.
L’incertezza su cosa sia “Fame”, un testo con caratteristiche generali ed astratte ( manifesto) o singole e concrete ( un memoir) è reale, sebbene il passo dell’ultima pagina, dove Gay dice: “ Scrivere una storia del mio corpo e delle sue verità vuol dire raccontare una verità che è mia e soltanto mia”, mi facciano propendere per la Ciabatti.
La Gay mi pare interessata a “mostrare la ferocia della propria fame” solo per concedersi “la libertà di essere vulnerabile e umanissima”. Il suo passare in rassegna gli stereotipi di genere, “i nocivi messaggi culturali secondo cui il (…) valore è strettamente connesso al corpo”, l’accanirsi (giustissimo) contro di essi, si rivelerebbero strumentali, cioè, più che alla causa femminista, al tentativo di “cancellare tutte le cose odiose che dice a se stessa” e di reperire i sistemi “per tenere la testa alta quando entra in una stanza” onde restituire lo sguardo quando la gente la guarda.
La Gay è cristallizzata da così tanto tempo in un dolore di tipo narcisistico che le risulta difficile, se non impossibile rilevare l’afflizione altrui. Non riconosce, insomma, o non è disposta a riconoscere, i sui stessi sintomi di malessere in altre donne.
E se lei per prima non considera le capacità di rispecchiamento del suo memoir, se la fame che descrive è solo sua e non anche quella di molte altre donne, obese ma –lo si potrebbe giurare- anche anoressiche, se il disagio di un corpo sproporzionato, non corrispondente agli pseudo canoni del mondo è solo disagio personale e non male comune, allora è difficile immaginare che parli alla società, come ipotizza la Murgia.
D’altronde la Roxane Gay protagonista di “Fame” non è l’unico personaggio obeso in letteratura. Oltre all’irriverente e irritante Ignatius di “Una banda di idioti” – per altro citato dalla Ciabatti - penso all’elegante e desolato Arthur Opp de “Il peso” di Liz Moore. Eppure se dovessi tentare un accostamento ad altro soggetto di romanzo per la Gay, evocherei il tormentato Jude de “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara o i masochisti Alice e Mattia de “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano.
Questo perché in fondo considero il racconto della Gay una narrazione sul corpo, sulla fame ma anche o forse soprattutto sull’autolesionismo.




martedì 13 marzo 2018

Viale dei misteri


Ma davvero sono incinta? Non ci posso credere. No, cioè, ci devo credere. Stando a questa sottospecie di termometro digitale che mi trovo tra le mani, alle due cazzo di strisce colorate comparse nel riquadro, io aspetto un bambino.
Gesù! Da quanto non ne aspettavo uno? Dall’ultima volta che ho avuto una figlia, a occhio e croce venti anni fa. Che cavolo dico? Straparlo. L’emozione, chiaro. Ma poi, non ero in menopausa? Sì, che sono in menopausa, Cazzo!
E ora, che altro succede? Oddio, il treno sta partendo, si sono chiuse le porte. Il capotreno fischia. Ho dimenticato il kindle a casa. Mannaggia.
-Amore? Amore! -
Non posso urlare, c’è gente! Leggi il labiale, prova a capire dai gesti: guardami! Sto mimando un libro, lo riconosci? Faccio pure finta di girare le pagine. E questo è un no. Vedi? Pollice e indice messi ad angolo retto e torsione del polso. Dai, perché non afferri? Non si faceva così da piccoli per dire: - “Non c’è!”. Mi arrendo. Quando lo troverai
a casa, sul tavolo della sala, al tuo ritorno, allora si, che ti sarà chiaro. Penserai di me che sono la solita cap' e 'mbrella. Hai sposato una nzallanuta. Non è mica una novità!
Ma che giornata. Ed è appena cominciata. Chi è sto buzzurro con la suoneria delle “Quattro stagioni di Vivaldi” a palla, mo’? Quanta scostumatezza in giro!
Aspetta, aspetta. Mi sa che non è un telefono, quello che squilla. Ma sì, certo: è la sveglia. La mia sveglia. La nostra sveglia.
Ossignore, che sollievo!
Non sono incinta. Non sono neppure su un treno. Sono nel letto, a casa mia e il Kindle sta a portata di mano sul comodino, al solito posto.
Che sogno. Pazzesco. Sicuramente è colpa dell’ansia per la partenza. Perché ieri sera non ho fatto la valigia. Mi ero imposta di prepararla questa mattina, così, tanto per fare la gradassa con me stessa. Per una questione di puntiglio. Devo smetterla però di bullizzarmi. Non è mica obbligatorio dimostrare a me medesima che posso uscire fuori dagli schemi della metodicità. Che sono più forte io del rigore e dello zelo. Era prevedibile che quel bastardo traditore dell’inconscio mi mollasse. Il pappamolle ha ceduto, si è fatto prendere dal panico.
-Non me lo scordo il supporto di lettura digitale, stai tranquillo, cagasotto! -
-Te lo giuro! -
Voglio far fruttare le quattro ore di viaggio per finire “Viale dei Misteri” di Irving. Non bellissimo, la verità, ‘sto romanzo. Anzi. Piuttosto una mezza delusione. Preferisco sciacquarmelo di torno al più presto.
Mi alzo. Mi arrendo all’ apprensione. Sventolo bandiera bianca. Prima comincio la giornata meglio mi sento.
Che ne faccio del sogno? Lo racconto al consorte o lo tengo per me?
Ma chi prendo in giro: non so tenermi un cecio, che sia uno, in bocca. Che sto qui a fare il pari e il dispari: chiaro che gli spiffero tutto, con abbondanza di dettagli.
E però, che bacio. Se lui non dovesse scappare al lavoro e io non fossi “mangiata dall’ansia” ...
Meglio chiuderla qui. Niente diversivi. Rimandiamo a domenica prossima. Verrà a prendermi a Bologna. Deciso, così guadagniamo tempo.
La pulitina alla casa gliela do. Una cosa veloce, tanto per sentirmi a posto con la solita coscienza tiranna.
E ora, bagaglio, a me.
Cavolo! Ho fatto tutto con estrema calma eppure, come al mio solito, sto uscendo non in anticipo, di più.
Vorrà dire che ci andrò a piedi, in stazione.
Venti minuti? Come è possibile che ci abbia impiegato solo venti minuti, forse anche meno, per arrivare?
Ho camminato praticamente all’indietro. Almeno così mi è sembrato.
Vediamo un po’: dove mi piazzo? Meglio se mi metto in prossimità del tabellone. Resto in piedi, naturalmente. Non sia mai che non mi autoflagelli mettendomi a sedere comodamente nell’apposita sala. Sono nata per soffrire. Il supplizio è ontologico. E’ parte essenziale della mia vita. Ed è anche un po’ rito scaramantico, alla fin fine. Se mi risparmiassi le tribolazioni poi mi toccherebbe essere ancora più guardinga. Si sa come agisce la sorte con quelli che si rilassano troppo: li adocchia e zac, li castiga per lassismo, per manifesta deficienza di stress.
Non faccio altro che guardare ad intervalli regolari il tabellone delle partenze e la gente intorno. Tabellone-facce. Facce-tabellone. Tabellone-facce. In questo caso è più corretto dire che sto ammazzando il tempo o che il tempo sta ammazzando me? Ma che mi rido, scema? Non sono per niente spiritosa. Piuttosto, non riesco a sopprimere il ghigno beffardo che mi si è appiccicato sulla faccia: tipica emiparesi pseudo burlesca da preoccupazione per viaggio.
Potrei sbagliarmi ma, contando la persona che sta entrando adesso in stazione, gli zoppi da quando sono uscita di casa ad ora passano a tre.
Questo, poi, mi ricorda qualcuno. Oscilla parecchio, poverino. E’ per via del piede “ad angolo retto” che punta ostinatamente ad ore due. Non è solo il piede, però. C’è qualcos’altro che me lo rende familiare. Pelle abbastanza scura, capelli neri: sembra un messicano. Ma certo: Juan Diego Guerrero, il protagonista del libro. E’ lui! Uscito pari pari dal romanzo di Irving.
Devo distogliere lo sguardo all’istante. Se continuo a fissarlo rischio di metterlo a disagio “per il suo passo claudicante e la scarpa deforme confezionata apposta per il piede offeso”. Cit. Irving. E si, meglio non rischiare: dovessi trovarmelo a spiare tra i mie pensieri, il Maestro, va a finire che se non gli do i crediti mi chiama in giudizio per violazione del copyright. Ahahahah!
Scommetto che l’uomo accanto alle porte con il borsone sportivo e le due valigione è un calciatore. Magari uno della Spal. Forse è per quello che ricambia le mie occhiate. Pensa che l’abbia riconosciuto e si aspetta che gli chieda un autografo. Sta fresco. Dovesse avere difficoltà con i bagagli, ecco, allora, visto che ho una mano libera, potrei pure aiutarlo. Ma gesti di adulazione, quelli li escludo. Per un giocatore di pallone, poi. Sapesse che invece lo fisso perché pare pure lui un personaggio del libro. I “chiassosi pappagalli stampati sulla sua camicia hawaiana”, la cicatrice a forma di elle sulla fronte: questo qui è l’incarnazione di Edward Bonshow, il missionario americano. Perfino Irving rimarrebbe di stucco a trovarselo davanti.
No, vabbè. Non ci credo. Sono su scherzi a parte. Guarda tu chi si è materializzato ora all’ingresso: “sui quarantacinque anni, grasso; una figura quasi cherubica anche se non proprio un essere celestiale”. Ci mancava Fratello Pepe, uno dei due gesuiti del racconto. Non mi stupirei se conoscesse Edward. Infatti. Conosce Edward. Come non detto: si stanno spartendo le valigie, segno che sono compagni di viaggio. A questo punto però l’ipotesi che Edward sia un giocatore va a farsi benedire, subentra la quasi certezza che l’uomo con i pappagalli polinesiani stampati sulla camicia sia pure lui un chierico. Tutto torna!
Non mi starà piacendo il libro di Irving ma fa di tutto per rimanermi impresso. Anzi, per risucchiarmi. Prima Juan Diego, ora Edward Bonshow e Fratello Pepe. I protagonisti del romanzo, almeno quelli maschili, ci sono tutti. Trasportati con una macchina spazio-temporale dall’orfanotrofio di Oaxaca, Messico, alla stazione di Ferrara, Italia. Questo “Viale dei Misteri” comincia ad impressionarmi. Uno poi dice le coincidenze.
Che bravo, il consorte: mi ha preso il posto singolo. Devo ricordami di ringraziarlo. Sono consapevole che una bella fetta dell’ansia da viaggio da cui mi faccio affliggere dipende dall’incognita “vicino”. Prima o poi farò il callo alla prossimità fisica coatta tra passeggeri. Inutile mentire a sé stessi. Altro che farci l’abitudine. La verità è che più viaggio più il catalogo degli “sgraditi” si allunga. Aereo o treno non fa differenza. La mia età, ovvio, costituisce pure un aggravante. Riformulo: più viaggio e invecchio e più le convivenze negli spazi angusti dei mezzi di trasporto da imbarazzanti si fanno insopportabili. Gli attaccabottoni seriali: irritanti. I bambini scostumati: odiosi. I loro genitori permissivi: detestabili. I mangiatori di aglio con l’inconfondibile alitosi: abominevoli. Le persone con abiti sintetici e pessima igiene personale: molesti. A picchi incommensurabili la mia insofferenza va ai logorroici che si attaccano al cellulare partecipando l’intero convoglio delle proprie vicende lavorative et familiari, nonché agli incivili che si stravaccano strafottenti debordando dal sedile per poi invadere abusivi il bracciolo altrui. E che ci posso fare se il menefreghismo di certi individui mi fa salire una rabbia difficile da dissimulare. Adoro questa postazione da sprucida. Valigia sistemata, mi seggo e mi ritiro nella lettura. Cascasse il mondo intorno.
Cara dirimpettai incinta che mi sorridi maliarda, con il chiaro intento di spingermi a chiederti a quando il lieto evento e il sesso del nascituro, spiacente di deluderti. Sembri una persona a posto. Anzi, lo sei sicuramente. Provi disagio a viaggiare da sola. Hai pure un tantinino di timore per via del pancione e tutto il resto. Lo capisco. Credimi. Sono disposta, per dovere di buon vicinato, a badare alle tue cose ogni qualvolta sarai costretta ad andare in bagno, promesso. Pur tuttavia non cadrò ostaggio della buona educazione, della mia sindrome da “anima pia”. Non mi impegnerò in una conversazione con te. A meno che tu non decida di sgravare qui, ora, io resterò muta, trincerata dietro le pagine di questo benedetto libro. Scusami tanto. Non ero così carogna. E’ che questa roba si impara militando. Dopo un tot di miglia scatta di default la misantropia del passeggero. Una specie di effetto collaterale che sviluppiamo noi viaggiatori cronici. Più chilometri facciamo e meno siamo disposti alle interazioni umane. E’ un dato di fatto. Nessuna questione personale. Vedi capitolo precedente.
Bella la stazione di Afragola. Sarà pure una cattedrale nel deserto, ma è assolutamente incantevole. Anzi, secondo me la sua solitudine geografica ne rafforza in qualche modo la magnificenza. Prima o poi vengo a visitarla. La prossima volta potrei scendere qua, farmi un giro e poi prendere il treno successivo per Napoli.
       Che avrà da agitarsi tanto il tipo dietro di me? Amico, ti sei comportato bene fino ad ora e poi mi diventi a tradimento un disturbatore? Sei più ansioso della sottoscritta? Stai veramente inguaiato!
Sarà di quelli che, diretti a Napoli, si preparano all’arrivo appena lasciata Termini? No, perché io sono molto influenzabile. Mi conosco. Se è così, non resisterò a lungo seduta.
Sento che sta partendo già l’effetto emulazione e purtroppo l’esperienza mi insegna che non sarò l’unica vittima della compulsione ad anticiparsi.
Tra un attimo si formerà il solito gregge degli apprensivi. Sta a vedere!
Basta il movimento impercettibile di uno solo di noi che discretamente si infila la giacca o ripone gli effetti personali e il gioco è fatto. E’ sufficiente il clic di una ventiquattr’ore che si serra o la zip di una giacca che si chiude per far scattare sull’attenti il popolo dei fibrilloni. Un battito di ciglia e la coda nel corridoio si è materializzata. Neppure controlliamo gli orologi. A fiducia. Obbediamo ciecamente all’impulso ancestrale di una forma di idiozia stampata nei cromosomi. Un riflesso pavloviano. Come formiche laboriose ci alziamo e trascorriamo quell’ultima oretta -se ci va bene- in piedi,
davanti alle porte, carichi come muli, sudati, anzi di più, congestionati, sotto il duplice attacco del riscaldamento del treno e dei soprabiti in cui ci siamo già, di tutto punto, imbacuccati.
Derubato? Quindi non si è già preparato a scendere. Bene, cioè male. Mentre dormiva gli hanno rubato dalla ventiquattr’ore che teneva sotto la poltrona cellulare e tablet.
Roba da pazzi. Nessuno si è accorto di niente.
Mi mortifica il fatto di non aver avvertito
alle mie spalle, che ne so, un movimento, un rumore. Mi sento una babbea. Colgo sui volti dei miei compagni di avventura lo stesso turbamento.
Le manovre del mariuolo sono sfuggite a tutti. A quelli dietro, di lato, davanti. D'altronde parliamo di borsaioli professionisti.
Il derubato, un vero signore. Tutto sommato si sta comportando benissimo. Non un urlo, una bestemmia, una parola fuori posto. Una compostezza da gentleman inglese. Al posto suo io mi sarei fatta venire il male. Minimo annegherei in una valle di lacrime.
Davvero! Mi fa venire i brividi ‘sta cosa che il reo si nasconde tra di noi. Vatti a fidare. Sembriamo tutti brave persone.
Nemmeno a perquisirci uno per uno. Il colpevole si sarà disfatto della refurtiva nascondendola chissà dove. Uh, Gesù! E se l’avesse messa nella mia valigia, come capita in certi film, per usarmi tipo insospettabile corriere e io finissi in manette? Pensa che scuorno! Calmati, cretina! Non ti sei mossa dal tuo posto e la valigia ce l’hai proprio sopra la testa. Ragiona! Come l’avrebbe toccata?
Mi sento a disagio persino a guardarmi intorno. E se leggessi negli occhi di qualcuno dei presenti i segni della colpa e il criminale capisse che io ho capito? E se individuassi il colpevole e lo smascherassi e quello poi dopo se la pigliasse con me e si vendicasse?
I segni della colpa, capisse che io ho capito? Smascherassi? vendicasse? Ma come parlo, anzi, ma come penso? Ecco, questi sono gli effetti dei polizieschi sulla gente. Ma nemmeno in un episodio di Maccio Capatonda!
I zinghiri, sono stati i zinghiri!”
A parte gli scherzi, escluderei la signora incinta: date le dimensioni della pancia non avrebbe potuto agire inosservata. Lo stesso dicasi di Juan Diego: con quella zoppia cosa vuoi che faccia senza che lo si noti. Edward e fratello Pepe manco a pensarlo: manifestamente incompatibili con la delinquenza per ragioni di tonaca. Mi rifiuto categoricamente di fare insinuazioni sul giovanotto seduto dietro alla vittima: si sta adoperando fattivamente nelle indagini. Mica correrebbe il rischio di farsi sgamare. E se la sua fosse una manovra diversiva, un modo per distogliere i sospetti da sé stesso?
Ma chi sono, Agata Christie sull’Oriente Express?
Solo che ad Agata Christie nessuno la infastidiva con whatsapp inopportuni. Chi sarà, adesso? E no, caro il mio coniuge, non puoi disturbarmi sul più bello.
-Non sono ancora arrivata. Il treno è in ritardo. All’arrivo poi sarò costretta a rimanere nel vagone in attesa della polizia postale. Un tizio è stato derubato del cellulare e del tablet- Invio.
-Ma dai! Questo è il fatto del tuo sogno di stanotte.  -
- Ora che ci penso, ma sai che il viaggio è cominciato con un sacco di stranezze? Hai presente il libro di Irving che mi hai dato da leggere? Qua nel vagone ci stanno tre tizi che sembrano Juan Diego, Edward Bonshow e Fratello Pepe. Peccato per la donna incinta dirimpetto a me, decisamente fuori contesto.
J- Invio.
-Se fossi una bambina di tredici anni, tu saresti Lupe, la sorella chiaroveggente di Juan Diego. Lei sapeva leggere il pensiero. Sapeva cosa passava per le menti degli altri e a volte non solo quello. Tu tutto sto fatto te lo sei sognato stanotte. La gravidanza, che non trovavi il kindle…Chiaroveggenza! –
- Esagerato! - Invio.
-Ma no, ti dico. Impressionante. Tu hai criticato il libro e Irving si vendica catapultandotici in mezzo. Chissà cosa potrà ancora accadere-
-Non fare il cretino e non mi dire cose per turbarmi. Non è il momento adatto per scherzare. Torno alle indagini, poi ti racconto <3 - Invio.
Uffa! Ancora? Un altro uazzupp? E gliel’ho pure detto di smetterla.
Ah, no. Notifica di un tweet.
Cazzo! Questo lo devo girare al coniuge.
 -INGVterremoti: Mwp 6.1 del 19-02-2018 ore 07:56:59 (Italia) in zona: Oaxaca, Mexico- Invio.
-Senza parole. Chiudiamola qui. Comincio a cagarmi sotto pure io!”






venerdì 9 marzo 2018


Ma davvero sono incinta? Non ci posso credere. No, cioè, ci devo credere. Stando a questa sottospecie di termometro digitale che mi trovo tra le mani, alle due cazzo di strisce colorate comparse nel riquadro, io aspetto un bambino.
Gesù! Da quanto non ne aspettavo uno? Dall’ultima volta che ho avuto una figlia, a occhio e croce venti anni fa. Che cavolo dico? Straparlo. L’emozione, chiaro. Ma poi, non ero in menopausa? Si, che sono in menopausa, Cazzo!
E ora, che altro succede? Oddio, il treno sta partendo, si sono chiuse le porte. Il capotreno fischia. Ho dimenticato il kindle a casa. Mannaggia.
-Amore? Amore!-
Non posso urlare, c’è gente! Leggi il labiale, prova a capire dai gesti: guardami! Sto mimando un libro, lo riconosci? Faccio pure la finta di girare le pagine. E questo è un no. Vedi? Pollice e indice messi ad angolo retto e torsione del polso. Dai, perché non afferri? Non si faceva così da piccoli per dire:- “Non c’è!”. Mi arrendo.  Quando lo troverai
a casa, sul tavolo della sala, al tuo ritorno, allora si, che ti sarà chiaro. Penserai di me che sono la solita “capa di ‘mbrella”. Hai sposato una insallanuta. Non è mica una novità!
Ma che giornata. Ed è appena cominciata. Chi è sto buzzurro con la suoneria delle “Quattro stagioni di Vivaldi” a palla, mo’? Quanta scostumatezza in giro!
Aspetta, aspetta. Mi sa che non è un telefono, quello che squilla. Ma sì, certo: è la sveglia. La mia sveglia. La nostra sveglia.
Ossignore, che sollievo!
Non sono incinta. Non sono neppure su un treno. Sono nel letto, a casa mia e il Kindle sta a portata di mano sul comodino, al solito posto.
Che sogno. Pazzesco. Sicuramente è colpa dell’ansia per la partenza. E’ perché ieri sera non ho preparato la valigia. Mi ero imposta di rimandarla a questa mattina, così, tanto per fare la gradassa con me stessa. Per una questione di puntiglio. Devo smetterla però di bullizzarmi. Non è mica obbligatorio dimostrare a me medesima che posso uscire fuori dagli schemi della metodicità. Che sono più forte io del mio rigore e del mio zelo. Era prevedibile che quel bastardo traditore dell’inconscio mi mollasse. Il pappamolle ha ceduto, si è fatto prendere dal panico.  
-Non me lo scordo il supporto di lettura digitale, stai tranquillo, cagasotto! -
-Te lo giuro! -
Voglio far fruttare le quattro ore di viaggio per finire “Viale dei Misteri” di Irving. Non bellissimo, la verità, ‘sto romanzo. Anzi. Piuttosto una mezza delusione. Preferisco   sciacquarmelo di torno al più presto.
Mi alzo. Mi arrendo all’ apprensione. Sventolo bandiera bianca. Prima comincio la giornata meglio mi sento.
Che ne faccio del sogno? Lo racconto al consorte o lo tengo per me?
Ma chi prendo in giro: non so tenermi un cecio, che sia uno, in bocca. Che sto qui a fare il pari e il dispari: chiaro che gli spiffero tutto, con abbondanza di dettagli.
E però, che bacio. Se lui non dovesse scappare al lavoro e io non fossi “mangiata dall’ansia"...
Meglio chiuderla qui. Niente diversivi. Rimandiamo a domenica prossima. Verrà a prendermi a Bologna. Deciso, così guadagniamo tempo.
La pulitina alla casa gliela do. Una cosa veloce, tanto per sentirmi a posto con la solita coscienza tiranna.
E ora, bagaglio, a me.
Cavolo! Ho fatto tutto con estrema calma eppure, come al mio solito, sto uscendo non in anticipo, di più.
Vorrà dire che ci andrò a piedi, in stazione.

Venti minuti? Come è possibile che ci abbia impiegato solo venti minuti, forse anche meno, per arrivare?
Ho camminato praticamente all’indietro. Almeno così mi era sembrato.
Vediamo un po’: dove mi piazzo? Meglio se mi metto in prossimità del tabellone. Resto in piedi, naturalmente. Non sia mai che non mi autoflagelli mettendomi a sedere comodamente nell’apposita sala. Sono nata per soffrire.  Il supplizio è ontologico. E’ parte essenziale della mia vita. Ed è anche un po’ rito scaramantico, alla fin fine. Se mi risparmiassi le tribolazioni poi mi toccherebbe essere ancora più guardinga. Si sa come agisce la sorte con quelli che si rilassano troppo: li adocchia e zac, li castiga per lassismo, per manifesta deficienza di stress.
Non faccio altro che guardare ad intervalli regolari il tabellone delle partenze e la gente intorno. Tabellone-facce. Facce-tabellone. Tabellone-facce. In questo caso è più corretto dire che sto ammazzando il tempo o che il tempo sta ammazzando me?  Ma che mi rido, scema? Non sono per niente spiritosa. Piuttosto, non riesco a sopprimere il ghigno beffardo che mi si è appiccicato sulla faccia: tipica emiparesi pseudo burlesca da preoccupazione per viaggio.
Potrei sbagliarmi ma, contando la persona che sta entrando adesso in stazione, gli zoppi da quando sono uscita di casa ad ora passano a tre.
Questo, poi, mi ricorda qualcuno. Oscilla parecchio, poverino. E’ per via del piede “ad angolo retto” che punta ostinatamente ad ore due. Non è solo il piede, però. C’è qualcos’altro che me lo rende famigliare. Pelle abbastanza scura, capelli neri: sembra un messicano. Ma certo: Juan Diego Guerrero, il protagonista del libro. E’ lui! Uscito pari pari dal romanzo di Irving.
Devo distogliere lo sguardo all’istante. Se continuo a fissarlo rischio di metterlo a disagio “per il suo passo claudicante e la scarpa deforme confezionata apposta per il piede offeso”.  Cit. Irving.  E si, meglio non rischiare: dovessi trovarmelo a spiare tra i mie pensieri, il Maestro, va a finire che se non gli do i crediti mi chiama in giudizio per violazione del copyright. Ahahahah!
L’uomo laggiù, quello con la camicia più vistosa di sempre, il borsone sportivo e le due valigione, sicuro è un calciatore. Magari uno dei giocatori della Spal. Forse è per quello che mi fissa. Pensa che l’abbia riconosciuto e si aspetta che gli chieda un autografo. Sta fresco. Dovesse avere difficoltà con i bagagli, ecco, allora, visto che ho una mano libera, posso pure aiutarlo. Ma gesti di adulazione, quelli li escludo. Per un giocatore di pallone, poi.
Ah, ecco! Non è tutto suo il carico. La valigia più grande appartiene all’amico gesuita. Non mi dire che anche l’uomo dalla camicia più vistosa di sempre è prete.
Non mi starà piacendo il libro di Irving ma fa di tutto per rimanermi impresso. Anzi, per risucchiarmi. Prima lo zoppo, ora i due sacerdoti di cui uno con la camicia hawaiana. I protagonisti del romanzo, almeno quelli maschili, ci sono tutti. Trasportati con una macchina spazio-temporale dall’orfanotrofio di Oaxaca, Messico, alla stazione di Ferrara, Italia.  Questo “Viale dei Misteri” comincia ad impressionarmi. Uno poi dice le coincidenze.

domenica 8 gennaio 2017

Non avevo capito niente di Diego De Silva

"Certe volte penso, ma lo penso veramente, che bisognerebbe piantarla con questa storia del parlare. Perché tanto non serve a niente. Non è questione di capirsi, fare fatica a ritrovarsi nelle cose; non è questo. È che nessuna conversazione regge l'argomento per più di un paio di battute; è la pertinenza, il problema". Si tratta di una citazione tratta da "Non avevo capito niente", libro di Diego De Silva, pubblicato nel 2007 da Einaudi.
Avevo appena smaltito "Gomorra", del quale si cominciava timidamente a parlare, quando mi imbattei in Malinconico, il protagonista della storia, e in "Mimmo 'o Burzone", il cliente che porta trambusto nella sua vita. Mi parve che questo romanzo di De Silva - purtroppo non ti grandissimo successo- fosse dell'inchiesta/romanzo di Saviano un'appendice. I rispettivi registri, toni, ritmi narrativi e le trame naturalmente ascrivono i due libri a emisferi lontanissimi che, tuttavia, possono comunicare, con uno sforzo di volontà e d'intelletto, benissimo fino ad offrire una visione intera del mondo contaminato dalla camorra. Malinconico è -come detto- un avvocato napoletano alle prese con il divorzio e una claudicante attività professionale. Filosofeggia allegramente, argutamente e brillantemente sulla sua condizione umana. Poi arriva inaspettata una scheggia, piccola, infinitesimale di camorra e gli si conficca nel quotidiano. Vincenzo Malinconico diventa, allora, il paradigma non solo dei mariti "in crisi", dei liberi professionista "semiaffamati" del foro partenopeo che lavorano al limite della soglia di povertà, dei maschi che tentano una rinascita sentimentale; Vincenzo Malinconico diviene soprattutto l'archetipo dell'uomo qualunque toccato-sfrocoliato dalla camorra. Dalla serietà e rigore del racconto di Saviano alla casualità e leggerezza della voce narrante di De Silva il salto è grosso. Eppure c'è altrettanta verità amara e denuncia dolorosa in " Non avevo capito niente". Vale la pena fare un approfondimento.

domenica 4 dicembre 2016

"L'uomo che non fu giovedì" di Juan Esteban Constaìn


Spulcio le nuove proposte editoriali e l'occhio mi cade su un libro pubblicato da Fazi: " L'uomo che non fu giovedì", scritto da Juan Esteban Constaìn, tradotto in italiano da Andrea Rigato.
Mi basta leggere l'incipit della presentazione: " Un irresistibile romanzo umoristico", per deciderne l'acquisto. Sono sempre a caccia di storie spassose, che mi regalino un paio d'ore di intelligente spensieratezza e quando uso queste espressioni penso alle risate di " Una Banda di Idioti" di J. K. Toole, o a "Una cosa divertente che non farò mai più" di D.F. Wallace, o ancora a "Il cuore è idiota" di Davy Rothbart, tanto per citarne alcuni.
Lo leggo tutto d'un fiato, lo metto da parte in attesa di scriverci sopra uno dei miei appunti, ma la cosa cade nel dimenticatoio fino a quando non scovo, in un' intervista rilasciata  da Nicola Lagioia, il riferimento alla biblioteca di Aby Warburg. Mi si accende, allora, la classica lampadina, perchè proprio a quello stesso bibliotecario tedesco e alle sorti della sua collezione di libri  fa un circostanziato riferimento anche " L'uomo che non fu giovedì".
Al netto di questa curiosità, mi tocca dire, a proposito del libro di Costaìn, che ha deluso purtroppo le aspettative.  Si tratta di una storia scritta con un apprezzabile tono leggero, uno scorrevole ritmo colloquiale, ma che rivela, a mio parere, diversi limiti. Il primo e più grave, verso il lettore, poichè, ben tenendo presente che "umoristico" non coincide necessariamente con "comico", ma lo stesso vale con "brioso", il romanzo tradisce la promessa di divertimento fatta dall'editore. A questo va aggiunto che la narrazione risulta in certi tratti caotica, e non ultimo che quel filino di suspense utilizzato dall'autore, nel comprensibile tentativo di catturare il lettore, riguardo allo svelamento del plot, spesso lo porta ad incartarsi in lungaggini e ripetizioni al limite del fastidioso.
Levatomi il dente doloroso delle critiche, passo ora ai pregi del romanzo, che ha -tutto sommato- un suo perchè.
Il nodo centrale del racconto è un vecchio processo per la canonizzazione di G.K. Chesterton, ritirato fuori dai vertici vaticani. Da contorno una piacevole aneddotica, molto variegata nei temi, che spazia dall'evasione  di Casanova dai "Piombi" di Venezia, alla storia di Aby Warburg, di cui si è detto, passando per accenni ai più recenti scandali vaticani nonchè puntate nella letteratura britannica delle origini.
L'effervescenza e la vivacità del ritmo narrativo, congiuntamente alle molte curiosità -comprese quelle sulla biografia di Chesterton-di cui è disseminato, fanno di questo libro comunque una gradevole passeggiata, che vi suggerisco di non scartare, come ipotesi, a priori.

 

venerdì 2 dicembre 2016

Una storia sotto l'albero



Odiava la fretta. Detestava corrompere i riti quotidiani con la velocità imposta dal ritardo. Preferiva muoversi con calma e rigorosamente a piedi. Macinava chilometri e mentre camminava pensava. Di tanto in tanto stralci di conversazioni altrui si intrufolavano nelle sue meditazioni. Chiacchiere telefoniche, alterchi tra coppie, battibecchi tra genitori e figli. Voci di strada che le si infilavano casualmente in testa spingendo le sue riflessioni lontanissime dai punti di partenza. Proprio da quei deragliamenti generavano le storie che poi scriveva. Così erano nati molti dei suoi racconti.
Fare le cose di corsa implicava, viceversa, accelerare i passi e i pensieri.
Comportava concentrazione per guadagnare minuti . E concentrazione significava isolamento. I richiami dalla strada giungevano alla mente smussati, annebbiati, spenti. Inutilizzabili per creare trame.
Niente, così proprio non andava. La storia Natalizia tardava a farsi strada.
D'altronde la frenesia non era solo sua. Tutta la città era in preda alla medesima agitazione e così deconcentrata non dava certo il meglio di sé. Mancavano più di 20 giorni a Natale eppure dal grado di fermento percepibile si sarebbe detto piuttosto che si fosse già alla vigilia.
Con il corso normale dell’esistenza sospeso “causa di festa maggiore,” di discorsi ordinari, quelli di vita quotidiana non se ne facevano. D’altro canto, non essendo ancora scattato ufficialmente il periodo di “bontà forzata natalizia”, non c’era neppure ancora l’ispirazione per le belle frasi di circostanza, intrise di spirito di fratellanza, che pure potevano dare l’illuminazione. Da quella terra di mezzo non poteva venire fuori nulla.
La speranza di trovare spunti definitivamente persa tra fame e stanchezza, desiderosa di affrettare i tempi del rientro, si infilò nell'ultimo vagone semivuoto della funicolare.
Ogni volta che si è sulle spine non solo i pensieri, pure i comportamenti si fanno spinosi.
Perciò davanti alla mano tesa ad elemosinare della zingarella con bambino in braccio che le si parò davanti, lei non accennò neppure un gesto di diniego come era invece solita fare per prassi di gentilezza. Inizialmente rimase del tutto indifferente, consapevole che da loro non avrebbe tratto alcun materiale utile per uno scritto. Che storia avrebbe potuto, infatti,cucire addosso alla ragazza e al suo bambino se non il solito racconto di luoghi comuni e pregiudizi? Cominciare descrivendone la bellezza acerba ma già sfruttata di donna-ragazzina, rimarcare l’anacronismo di agghindarsi a quel tipico modo delle gitane, porre infine l’accento sul molesto tono querulo della voce. Poi sarebbe passata al bambino, sottolineando lo scempio di rubare infanzie spensierate ad anime innocenti sottoposte al supplizio di imparare, fin da subito, il mestiere d’accattone.
Scavare a fondo nel cliché del nomadismo estraendone rincrescimento, rammarico, fastidio per la palese inerzia delle istituzioni. Solo questo, null’altro ne poteva venire e non era di certo ciò di cui aveva bisogno.
Controvoglia, quindi, si arrese all’invito tacito della vicina, che con un’alzata di spalle e un’espressione d’insofferenza sulla faccia, aveva girato la testa nella loro direzione sollecitandola a condividere il proprio disgusto, e spostò lo sguardo sui due.
Si sorprese allora a ripensare che sul seggiolino dove ore sedeva il piccolino, sistemato lì dalla madre, meno di una settimana prima ci aveva visto un altro di bambino.
Stessa corporatura e apparentemente stessa età.
L’altro, quello della settimana prima, ben vestito, ben pettinato, naso ben pulito, guantini alle mani, sedeva tra i genitori remissivo, sottomesso, costretto a forza di aspri rimproveri a rimanere fermo.
Questo invece, vestito con i suoi abiti da zingarello, spettinato, moccolo al naso, manine rosse per il freddo, occupava con gran compostezza, quasi con solennità, il posto che la mamma gli aveva ceduto, arrangiandosi lei sul gradone centrale del vagone-
Le due immagini si sovrapponevano nella sua testa, ma non c’era verso di farle coincidere. Confliggevano, ma non nel senso che la nostra spettatrice si sarebbe atteso.
C’era un elemento, una nota dissonante: la felicità.
La gioia, l’allegria, o comunque lo si voglia chiamare quel certo sentimento di piacere che illumina la gente contenta, assente nella scena della settimana precedente, dove pure ci sarebbero stati tutti gli elementi per ipotizzarla, era invece percepibile chiaramente in questa, dove a rigor di logica ne sarebbero mancati del tutto i presupposti.
Ognuno svolge il proprio lavoro recitando pubblicamente un ruolo. Infondo chiedere l’elemosina è per i nomadi una professione come un’altra.
Con tutta evidenza la zingara, smesso di mendicare, era ritornata ora ad essere una mamma. Su quel gradino, ignara dei presenti, si godeva il suo bambino con una spensieratezza che dava piacere a guardarli.
Lui farfugliava parole nel tentativo di imitare la madre e lei a sua volta gli rifaceva il verso. Gli stava insegnando a dire: “per piacere e grazie” in lingua italiana, a tendere la manina in cerca di monete, ma non c’era la benché minima bruttura. Nessun piglio autoritario, ne’ durezza o atto di prepotenza. Al contrario solo reciproche carezze e tenerezze. La ragazza continuava a mangiarsi di baci il suo bambino in un intreccio di risate e complicità.
Poteva interessare a qualcuno quel ribaltamento radicale nella prospettiva della narrazione?
Valeva la pena raccontare che la sacralità del vincolo materno le si era rivelato in un luogo, in circostanze e in un contesto tanto inconsueti? Decise per il sì.
Zingari felici: bello spunto per la sua prossima storia di Natale.


Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...