venerdì 2 dicembre 2016

Una storia sotto l'albero



Odiava la fretta. Detestava corrompere i riti quotidiani con la velocità imposta dal ritardo. Preferiva muoversi con calma e rigorosamente a piedi. Macinava chilometri e mentre camminava pensava. Di tanto in tanto stralci di conversazioni altrui si intrufolavano nelle sue meditazioni. Chiacchiere telefoniche, alterchi tra coppie, battibecchi tra genitori e figli. Voci di strada che le si infilavano casualmente in testa spingendo le sue riflessioni lontanissime dai punti di partenza. Proprio da quei deragliamenti generavano le storie che poi scriveva. Così erano nati molti dei suoi racconti.
Fare le cose di corsa implicava, viceversa, accelerare i passi e i pensieri.
Comportava concentrazione per guadagnare minuti . E concentrazione significava isolamento. I richiami dalla strada giungevano alla mente smussati, annebbiati, spenti. Inutilizzabili per creare trame.
Niente, così proprio non andava. La storia Natalizia tardava a farsi strada.
D'altronde la frenesia non era solo sua. Tutta la città era in preda alla medesima agitazione e così deconcentrata non dava certo il meglio di sé. Mancavano più di 20 giorni a Natale eppure dal grado di fermento percepibile si sarebbe detto piuttosto che si fosse già alla vigilia.
Con il corso normale dell’esistenza sospeso “causa di festa maggiore,” di discorsi ordinari, quelli di vita quotidiana non se ne facevano. D’altro canto, non essendo ancora scattato ufficialmente il periodo di “bontà forzata natalizia”, non c’era neppure ancora l’ispirazione per le belle frasi di circostanza, intrise di spirito di fratellanza, che pure potevano dare l’illuminazione. Da quella terra di mezzo non poteva venire fuori nulla.
La speranza di trovare spunti definitivamente persa tra fame e stanchezza, desiderosa di affrettare i tempi del rientro, si infilò nell'ultimo vagone semivuoto della funicolare.
Ogni volta che si è sulle spine non solo i pensieri, pure i comportamenti si fanno spinosi.
Perciò davanti alla mano tesa ad elemosinare della zingarella con bambino in braccio che le si parò davanti, lei non accennò neppure un gesto di diniego come era invece solita fare per prassi di gentilezza. Inizialmente rimase del tutto indifferente, consapevole che da loro non avrebbe tratto alcun materiale utile per uno scritto. Che storia avrebbe potuto, infatti,cucire addosso alla ragazza e al suo bambino se non il solito racconto di luoghi comuni e pregiudizi? Cominciare descrivendone la bellezza acerba ma già sfruttata di donna-ragazzina, rimarcare l’anacronismo di agghindarsi a quel tipico modo delle gitane, porre infine l’accento sul molesto tono querulo della voce. Poi sarebbe passata al bambino, sottolineando lo scempio di rubare infanzie spensierate ad anime innocenti sottoposte al supplizio di imparare, fin da subito, il mestiere d’accattone.
Scavare a fondo nel cliché del nomadismo estraendone rincrescimento, rammarico, fastidio per la palese inerzia delle istituzioni. Solo questo, null’altro ne poteva venire e non era di certo ciò di cui aveva bisogno.
Controvoglia, quindi, si arrese all’invito tacito della vicina, che con un’alzata di spalle e un’espressione d’insofferenza sulla faccia, aveva girato la testa nella loro direzione sollecitandola a condividere il proprio disgusto, e spostò lo sguardo sui due.
Si sorprese allora a ripensare che sul seggiolino dove ore sedeva il piccolino, sistemato lì dalla madre, meno di una settimana prima ci aveva visto un altro di bambino.
Stessa corporatura e apparentemente stessa età.
L’altro, quello della settimana prima, ben vestito, ben pettinato, naso ben pulito, guantini alle mani, sedeva tra i genitori remissivo, sottomesso, costretto a forza di aspri rimproveri a rimanere fermo.
Questo invece, vestito con i suoi abiti da zingarello, spettinato, moccolo al naso, manine rosse per il freddo, occupava con gran compostezza, quasi con solennità, il posto che la mamma gli aveva ceduto, arrangiandosi lei sul gradone centrale del vagone-
Le due immagini si sovrapponevano nella sua testa, ma non c’era verso di farle coincidere. Confliggevano, ma non nel senso che la nostra spettatrice si sarebbe atteso.
C’era un elemento, una nota dissonante: la felicità.
La gioia, l’allegria, o comunque lo si voglia chiamare quel certo sentimento di piacere che illumina la gente contenta, assente nella scena della settimana precedente, dove pure ci sarebbero stati tutti gli elementi per ipotizzarla, era invece percepibile chiaramente in questa, dove a rigor di logica ne sarebbero mancati del tutto i presupposti.
Ognuno svolge il proprio lavoro recitando pubblicamente un ruolo. Infondo chiedere l’elemosina è per i nomadi una professione come un’altra.
Con tutta evidenza la zingara, smesso di mendicare, era ritornata ora ad essere una mamma. Su quel gradino, ignara dei presenti, si godeva il suo bambino con una spensieratezza che dava piacere a guardarli.
Lui farfugliava parole nel tentativo di imitare la madre e lei a sua volta gli rifaceva il verso. Gli stava insegnando a dire: “per piacere e grazie” in lingua italiana, a tendere la manina in cerca di monete, ma non c’era la benché minima bruttura. Nessun piglio autoritario, ne’ durezza o atto di prepotenza. Al contrario solo reciproche carezze e tenerezze. La ragazza continuava a mangiarsi di baci il suo bambino in un intreccio di risate e complicità.
Poteva interessare a qualcuno quel ribaltamento radicale nella prospettiva della narrazione?
Valeva la pena raccontare che la sacralità del vincolo materno le si era rivelato in un luogo, in circostanze e in un contesto tanto inconsueti? Decise per il sì.
Zingari felici: bello spunto per la sua prossima storia di Natale.


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