sabato 29 ottobre 2016

"Zero K" di Don DeLillo

Ci sono volte in cui il senso del pudore, che consapevole della nostra inadeguatezza ci suggerisce il silenzio, soccombe sconfitto dalla necessità di raccontare certe meraviglie. La meraviglia è, in questo caso, l’ultimo libro di Don DeLillo: “Zero K”, tradotto da Federica Aceto per Einaudi. Metto da parte tutto ciò che ho letto a riguardo, compresi l’interessante “dietro le quinte” del suo lavoro di traduzione firmato da Federica Aceto https://giacomoverri.wordpress.com/2016/10/18/dire-quasi-la-stessa-cosa-federica-aceto-e-don-delillo/ nonchè l’intervista all’autore realizzata da Giuseppe Genna https://www.che-fare.com/dont-delillo/ e provo a dire la mia, nel tentativo — che già prevedo vano- di condensare un libro che più e meglio di altri ispirerà, per la profondità nascosta dietro l’asciuttezza della prosa, qualcosa di diverso a ciascuno dei lettori.
Zero K è un romanzo sul futuro, sulla storia, sulla vita e la morte, sulla parola e implicitamente quindi sulla scrittura. De Lillo è un oceano le cui profondità obbligano il lettore a qualcosa di più di una semplice immersione, pur già ricerca oltre il superficiale. Gli impongono infatti un’ attività di vero e proprio scandagliamento di tutti i possibili livelli di lettura.
Al livello minimo, “Zero K” è la storia di Jeffrey Lockhart, protagonista e voce narrante, che accompagna il padre Ross, magnate della finanza, e la matrigna Artis Martineau, archeologa gravemente ammalata, presso una struttura avveneristica in una località non identificabile, dove la donna verrà conservata in una capsula griogenica ( ad una temperatura vicina allo 0 Kelvin che ispira il titolo del libro) in attesa di rinascere in un futuro in cui la medicina e la tecnologia l’avranno accessoriata di organi perfettamente funzionanti e predisposta alla vita eterna.
La cella criogenica in cui viene conservata Artis e, a distanza di due anni lo sarà anche il marito, mi è sembra un rimando alla limousine in cui consuma la propria giornata Eric Packer, altro miliardario a cui, proprio come a Ross “ piacevano i quadri”, protagonista di “ Cosmopolis”,romanzo che, più degli altri, precedenti o successivi, appare disseminato di sementi che DeLillo lascia fruttificare pienamente qui in “Zona K”: i monitor, dai quali Eric osserva scene di violenza con il desiderio che siano ritrasmesse, ricompaiono infatti in Convergence ( la stuttura dove avviene la conservazione), lo sconosciuto che si da fuoco lungo Broadway anticipa i due uomini che ingeriranno carburante per poi darsi alle fiamme davanti agli occhi di Jeffrey, e soprattutto l’idea che “serve una nuova teoria del tempo”, enunciata da uno dei personaggi di “Cosmopolis” pare riallacciarsi all’incipit “Tutti vogliamo possedere la fine del mondo” di Zero K.
Come si arriva a possedere dunque la fine del mondo? Attraverso la scienza naturalmente, che lavora alacremente per sconfiggere la morte, e nelle more del conseguimento di tale obiettivo, regala agli individui che abbiano sufficienti risorse economiche per sottoporsi alla criogenesi conservativa, la possibilità di attendere in uno stato di sospensione incorporea dove l’essere umano è ridotto ad un semplice flusso di pensieri. Siamo in un certo qual modo alla materializzazione del “cogito ergo sum”, da cui però, con uno scatto ulteriore, ma perfettamente in linea con la sua “poetica”, DeLillo si emancipa completamente, ribadendo la centralità della parola sul pensiero: l’ Artis cogitante nella propria capsula criogenica, libera dal corpo, oscillando tra la prima e terza persona così farnetica:-
“Cerco di sapere chi sono. Ma sono solo quello che dico e non è quasi niente. Lei non è in grado di vedere se stessa, di darsi un nome, di valutare da quanto tempo ha cominciato a pensare le cose
che pensa. Penso di essere qualcuno. Ma sto solo dicendo delle parole. Le parole non se ne vanno mai!”
La parola si conferma dunque essere l’unica cifra in grado di connotare l’individuo, anche quello futuro, benchè oltre l’orizzonte temporale attuale occorrerà adeguare anche il linguaggio ai progressi promossi dalla scienza . Non a caso a Convergence è già in uso una nuova lingua, “isolata, scevra da legami con altre lingue, (…) insegnata ad alcuni, impiantata in altri, quelli cioè già in uno stato di crioconservazione. Un sistema che offrirà nuovi significati, […]Amplierà la nostra realtà e la profondità del nostro intelletto”attraverso la quale conosceranno loro “stessi come mai prima”
Jeffrey Lockhart è egli stesso ossessionato dalle parole, tanto da sentire costantemente l’esigenza di dare un nome alle cose e battezzare le persone. Immagino dunque che alle sue spalle ci sia l’ombra immanente dello scrittore e che la sua voce sia la voce dello scrittore. Così quando si chiede se:-” Non era forse per questo che era lì, per sovvertire le danze della trascendenza con i miei trucchi e i mei stratagemmi”, non posso che assentire e rallegrarmi che nel panorama letterario mondiale ci sia il genio di DeLillo a sovvertirle, queste benedette danze.
     

domenica 23 ottobre 2016

American Pastoral il film

Lessi "Pastorale americana", il capolavoro di Philip Roth, nel luglio del 2008. Fu subito colpo di fulmine: l'inizio di un innamoramento verso il più grande degli scrittori americani contemporanei che dura tuttora; il principio di un' ammirazione sconfinata che è  passata indenne attraverso tutte le prove cui l'ho sottoposta: non una singola riga dei  romanzi di Roth letti successivamente mi ha deluso.  Anzi.
 Sebbene  tra tanta perfezione mi sia concessa addirittura il lusso di eleggere a romanzo del cuore -dando voce ad un  vezzo del tutto personale, privo di altra giustificazione se non quella soggettivissima del gradimento individuale- "Il lamento di Portnoy", resta verso Pastorale" un "diritto di primogenitura" per onorare il quale sono dovuta correre al cinema.
Dare voce alle mie impressioni senza spoilerare nulla, tanto agli appassionati che hanno già letto il libro tanti ai futuri spettatori che ignorino la storia, è difficile.
Fughiamo subito il campo dall'obiezione più frequente in questi casi : ho tenuto in conto e ne terrò nello scrivere naturalmente, il limite intrinseco della trasposizione in film di un grande capolavoro letterario ( le iperboli per Roth ci stanno tutte e reggono). Non mi sono seduta in platea piena di aspettative, ne' ne sono uscita "carica di meraviglie", poichè mi ero  portata appresso la consapevolezza che la scrittura è ispirata da una musa e il cinema da un'altra.   Recarsi in una sala a vedere "un libro" è come andare a trovare un amico convalescente dopo un brutto incidente al volto. Ci vai anche per constatare quanto ne sia rimasto sfigurato, valutarne la cicatrice e perché no la bravura del chirurgo che ha eseguito il rattoppo. Sai  che, pur sforzandoti di far finta di nulla, non avrai difronte la faccia cui eri abituato. Resterà comunque immutato l'affetto che vi unisce. Continuerai ad amare quella  persona esattamente come prima.
Allora concentriamoci sul lavoro del chirurgo. Il romanzo è stato sezionato , nel senso che alcuni eventi riportati nel libro verso la fine, nel flim sono anticipati. Il romanzo è stato anche "falsato" nel senso che non ne è stata fatta trasposizione letterale.
Può valere, come giudizio complessivo per il film, quello che si dice spesso riguardo alle canzoni più celebrate : " quando le parole sono belle e la melodia è buona,   qualsiasi arrangiamento si tenti non altererà la magnificenza del pezzo". Anche così rammendato, avendo scelto di dare risalto   ad una chiave di lettura piuttosto che ad un'altra, la trama di "Pastorale Americana" è una storia grandiosa, che prende lo spettatore. Chi andrà al cinema ignorando del tutto il romanzo di Roth non ne  rimarrà deluso.
Il conto è diverso per il pubblico che invece, pur disincantato e privo delle aspettative di cui si è detto innanzi, vorrebbe che il grande schermo gli ritornasse anche solo un frammento, per quando piccolo, dello Svedese.
Arriviamo dunque -per restare nella metafora dell'incidente- alle cicatrici.
La prima evidentissima -per me imperdonabile-  è Ewan McGregor,  il quale presta il volto a Seymour Levov. Dallo Svedese ci si aspetta una bellezza da canone oggettivo classico. Potenza muscolare, altezza, possenza, avvenenza  da dio greco che invece non sono così evidenti e pronunciati nell'attore.
Il secondo sfregio è quello perpretato all'anima di Seymour. In ogni singola pagina del romanzo Nathan Zuckerman indaga la reale natura di quest'uomo. Un semplice, una maschera, un'ostinato, uno piegato all'obbedienza o al compiacimento altrui? Ogni nuovo dettaglio scoperto sulla vita dello Svedese scompagina l'ipotesi precedente.  Ma al di là delle parole di Zuckerman  resta  lo spazio libero lasciato da Roth a ciascun lettore di trarre le conclusioni che vuole. Per me Lo Svedese è il monolita che per volontà e coscienza è quello che è, fa quello che fa, vive come vive senza arrendevolezza. L' uomo annichilito e a tratti sconfitto che viene fuori dal film non potrà mai essere lo stesso Seymour Levov che io ho amato.

domenica 16 ottobre 2016

"Zona Uno" di Colson Whitehead

Copertina del libro Zona Uno di Colson Whitehead" The Underground Railroad" l'ultima fatica di Colson Whitehead è uscito in America nello scorso Agosto, guadagnandosi l'approvazione di un pubblico anche piuttosto autorevole, considerando il novero tra le sue fila di estimatori del calibro di Obama e di Oprah. In attesa di leggerlo nella edizione italiana, non conoscendo ancora lo scrittore - la solita vecchia storia del collezionista al quale mi vado paragonando, che non perde occasione di allargare la propria raccolta- ho letto "Zona Uno" ( Einaudi stile libero big) del 2013 tradotto da Paola Brusasco. Metto subito le mani avanti anticipando che non consiglierò di leggerlo a tutti, ma proprio a tutti, come mio inveterato costume. Essendo un romanzo "di genere" ( horror- post apocalittico- fantascientifico) questo libro è materia per gli appassionati in senso stretto della materia. Non me la sento di proporlo a coloro che cercano narrativa di tutt'altra specie e che dunque con ogni probabilità lo pianterebbero in asso anche a meno della metà. Personalmente l'ho molto apprezzato e non per la mia appartenenza alla categoria dei "lettori onnivori" che come Caterpillar macinano chilometri di parole per il puro gusto di sbriciolare sotto i propri cingoli anche i massi più ostici. Da sempre mi piacciono i romanzi fantascientifici-postapocalittici, quelli in cui si immagina un oltre, una dimensione diversa dell'essere umano, un assetto sociale , geografico ma anche solo urbanistico alternativo a quello che conosciamo. Traggo molta soddisfazione dalle storie in cui si racconta di uomini che si "sperimentano" come esseri individuali e sociali in scenari inconsueti, mi incuriosiscono quelle in cui si fantastica circa le risorse e le reazioni che potrebbero essere improvvisate per una "rifondazione" palingenetica del mondo da un' umanità allo sbaraglio, devastata da conflitti o pandemie, attacchi alieni o cataclismi naturali. Se tuttavia a qualcuno, tra il manipolo sparuto di persone che si imbatterà in queste righe, dovesse mai venir la curiosità e il desiderio di acquistare il romanzo di Colson Whitehead, sappia che si troverà di fronte a molto di più di una finestra aperta su un fantascientifico ignoto futuro. Quasi in dirittura d'arrivo, nelle ultime pagine cioè, è lo stesso autore che ci rivela il nodo della narrazione: " Kaitlyn raccontò la sua storia dell'Ultima Sera non per darsi a un ritualizzato compianto, ma per dire: questa è una storia di come stavano le cose prima". I sopravvissuti di Whitehead hanno "tutta l'intenzione di continuare la propria marcia attraverso il mondo morto" ma avendo sempre in mente il campionario umano che lo popolava, quel morto mondo: teste quadre che avevano speso la vita ad ostacolare e condannare gli altri, decerebrati vissuti al di sopra e al di fuori delle regole o infine individui spalmati in una media esistenziale comune, talenti così così che vivacchiavano. Le pagine di " Zona Uno" costituiscono, in buona sostanza, un affresco dai toni straordinariamente realistici che immortala naturalmente noi tutti e nei nostri costumi peggiori. Quando, per spiegare il retroscena del nomignolo che gli è stato affibbiato, Mark Spitz, il protagonista del romanzo, che è di colore, tira fuori il vecchio luogo comune "che i neri non sanno nuotare", pare certo che gli stereotipi razziali, di genere e religiosi messi da parte dall' "l'unico io" in cui si sono stretti i sopravvissuti, saranno riportati in vita, insieme alle animosità, paure, invidie una volta cessata l'emergenza, in un futuro prossimo. Eppure la profezia di Whitehead è piena di speranza: " Non sapeva se il mondo fosse destinato alla condanna o alla salvezza, ma, quale che fosse la fase seguente, non sarebbe stata simile a quella venuta prima".[...] Meglio lasciare che il vetro rotto rimanga rotto, lasciare che si frammenti in schegge e polvere, e si disperda. Lasciare che le crepe fra le cose si amplino fino a non essere più crepe, bensì spazi nuovi. Era lì che si trovavano in quel momento. Il mondo non stava finendo: era già finito e loro si trovavano nello spazio nuovo". Premessa visionaria appropriatissima al finale aperto del libro.


martedì 4 ottobre 2016

"La vita davanti a sè". Emile Ajar e Romain Gary ovvero storie di pseudonimi ed eteronimi letterari


Non  scrivo di tutti i libri che leggo.
Alcuni li chiudo a doppia mandata nel cuore in silenzio, perchè dopo averli terminati è in silenzio che ci rimugino sopra per giorni.
La brutta -lasciatemelo dire- storia di bracconaggio ai danni di Elena Ferrane -della quale rispetto profondamente il  desiderio di anonimato- consumata qualche tempo fa passando in rassegna i conti bancari di alcuni autori, mi ha portato alla memoria la vicenda di Emile Ajar , della sua vera identità e del suo  piccolo capolavoro " La vita davanti a sè", edito in Italia nel 2009 da Neri Pozza per la traduzione di Giovanni Bagliolo.

In breve la vicenda personale: storia di pseudonimi, eteronimi e della capacità della letteratura di creare narrazioni che sembrano autofiction ma sono il frutto unicamente del talento creativo che le è proprio: Emile Ajar, autore di ben quattro libri, è in realtà Romain Gary. La Francia   scopre tale circostanza qualche tempo dopo il suicidio di Gary,  il  quale, dopo aver indossato, in segno di rispetto per i soccorritori, una vestaglia rossa affinchè il sangue non si notasse,  si sparò alla testa, precisando, in un ultimo messaggio, che il suo suicidio non era in relazione con  quello della ex moglie Jean Seberg, avvenuto un anno prima.

Con i due nomi Gary e Ajar -che significano rispettivamente "brucia" e "brace" in russo- è stato l'unico autore capace di bissare il premio Gouncourt,  con  Le radici del cielo   e  La vita davanti a sé .

In breve il libro: il protagonista della storia è Momo, un bambino di fede musulmana allevato da Madame Rosa, ex prostituta sfuggita ad Auschwitz,  in un appartamento di Belleville , Parigi. La vita di Momo è come quella di tanti altri "ultimi", simile a quella di molti altri bambini, ad esempio, immigrati ai nostri giorni in Europa senza famiglia  e destinati a crescere sperimentando il volto più crudo dell'esistenza.

Il registro che usa Emile Ajar è di una narrazione struggente e poetica. Il linguaggio, per nulla forbito, si assesta su un  gergale al limite del rozzo totalmente appropriato, mai in ogni caso gratuitamente triviale o irrispettoso verso il lettore . Il libro è tutto un susseguirsi di massime di saggezza crude ma di un'acume che lascia senza parole. Il più perspicace, profondo -in una parola- immenso tra tutti i personaggi è Momo, a cui una sensibilità e un'intelligenza precocissime  consentono di comprendere verità che ad altri esseri umani sfuggono persino alla fine dell' intero percorso sulla terra.

Momo ad un certo punto dirà :-" Una cosa che mi è sempre sembrata strana è che le lacrime sono state previste nel programma. Vuol dire che era previsto che noi piangessimo. Bisognava pensarci. Un costruttore che si rispetti non avrebbe mai fatto una cosa simile".
E allora pensateci: leggete questo libro e sappiate che il suggeritore -che sarei io- ha previsto le lacrime, ma anche tanti sorrisi.

domenica 2 ottobre 2016

Le variazioni del dolore di James Rhodes

 Ho letto "Le variazioni del dolore" di James Rhodes, edizione Einaudi Stile Libero , tradotto da Cristiana Mennella, lo scorso luglio, mentre ero  al mare.
Mi ero riproposta di riparlarne appena  fossi tornata alla "civiltà", ma  presa dal vortice del ritorno alla vita, ho finito per scordarmi del proponimento, fino a quando, in una mattina di fine settembre, calda e soleggiata, mentre spulcio tra i titoli esposti sulla bancarella del mitico mercatino di Antignano ( Vomero-Napoli), mi  trovo il libro tra le mani. Trasalisco, stupita che, tra tutti quei best seller a 5€ ai quali puntano i clienti, ci sia anche Rhodes, in compagnia di un'altra decina di volumi meritevoli di attenzione che del pari rimangono nell'angolo negletti.  Magris, Moehringer, Wo Ming, Whitehead. A quel prezzo, nuovi di zecca, me li porterei tutti a casa, ma devo desistere, con il cuore spezzato.
Perchè ci sono libri di cui nessuno parla?  che hanno una vita difficile? destinati al macero piuttosto che agli onori ?

Eccomi allora qui, a consigliarvi di leggere "Le variazioni del dolore".
Di sè l'autore scrive:-"
Io sono molte cose. Sono un musicista, un uomo, un padre, uno stronzo, un bugiardo e un impostore. Soprattutto, sono una persona che vive nella vergogna".
Leggendo il libro si tocca con mano che Rhodes è tutto ciò che dice di essere ma soprattutto una persona che non vuole più mentire su sè stesso, che sente l'esigenza di svelarsi, raccontando al mondo la  storia del bambino abusato che è stato.
Nell'epigrafe sono riportate le parole di Phil Klay, veterano dei mairnes: " Se eleviamo il trauma a feticcio, i sopravvissuti sono in trappola, incapaci di sentirsi  conosciuti davvero...Non si rende onore alla persona dicendogli:" Non riesco prorio ad immaginare quello che hai passato". Ascoltate invece la sua storia e provate a mettervi nei suoi panni per quanto duro e scomodo possa essere."
Questo è l'invito che sento di rivolgere a molte categorie di persone.
Agli amanti delle buone letture: nonostante il terribile tema trattato, la narrazione di Rhodes non è mai brutale, disturbante o respingente.
Agli amanti della musica:  Rhodes attribuisce  potere taumaturgico 
 alle note. Ad esse riconosce il merito della propria rinascita . Tra le pagine del libro trova il modo di esternare quindi la propria gratitudine verso la musica classica, raccontando dei brani e dei musicisti a cui è più legato con toni estremamenti coinvolgenti.

A tutti i genitori, ai nonni, agli insegnanti, a tutti coloro che vivono accanto ai bimbi: nessuno è preparato ad una terribile eventualità del genere.  Ma è bene imparare a riconoscere i segni di una violenza subita.
"Non vorrei scrivere di certe cose. Non vorrei affrontare l'inevitabile senso di vergogna che si portano dietro (...) ma neanche mi va di tacere, o peggo ancora di credere che dovrei tacere, quando la nostra cultura (...) continua a permettere, avallare, favorire e sguazzare nell'abuso sessuali sui minori". Così scrive Rhodes per il quale il suo romanzo è  uno  dei tanti stumenti utili per spezzare il ciclo degli abusi.
Bel libro, ben scritto. Vale la pena, credetemi.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...