martedì 19 aprile 2016

Ad Auschwitz non c'era il mare

Le croci di Francesco Tuccio realizzate con i legni delle imbarcazioni  dei profughi naufragate
Adoro il mare.

Mi piace sedermici di fronte, per guardarlo.

Mi piace bagnarmici, per trovare sollievo alla calura.

Mi piace nuotarci dentro in libertà, per sfuggire al peso della terra.

Eppure, ad andare per mare, non mi ci troverete se non in casi di necessità estrema.

Soffro le onde. Anche galleggiare su un piccolo materassino e per pochi minuti mi sfinisce.

Ho vergogna a confessare che per " casi di estrema necessità" intendo "raggiungere un luogo di vacanza" e per "sfinisce" andar soggetta a un transitorio episodio di nausea.

Ne ho più vergogna oggi, che affidarsi al mare, per tanti, è  andare incontro alla morte .

E io mi immagino una deportazione liquida.

Mi immagino non più il chiuso di un vagone ma uno spazio aperto al vento.

Il fetore di corpi e di umori in cui le lacrime e la salsedine si mischiano e si confondono.

La fame, la sete.



La ressa, le voci.


Lo stremo delle forze e la forza per resistere ancora e ancora e ancora, un miglio, due, tre...



Il buio.


La definitiva oscurità non più di ceneri impastate a neve e ghiaccio.


E io qui, ora, vedo un Auschwitz liquida.


Vedo una nuova oscurità di corpi gonfi di acqua salata e speranze.

Mare-tana libera tutti dal peso della terra

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