giovedì 19 maggio 2016

taccuino turco ( 2 cap.)

Quello che avevo visto non mi aveva lasciato indifferente. Mi imposi di gettare a quel punto nuove premesse per una pacifica convivenza. Ma come in ogni inizio di rapporto a due che si rispetti, nonostante la dichiarazione di volontà, altri fraintendimenti e scaramucce si frapposero tra noi, rendendo i primi tempi vivaci.
Non avevo la minima idea di come suonasse la lingua turca. Pertanto fui afflitta per giorni da quello stato di sordità e di mutismo che all’estero ci fa reagire anche alle più piccole difficoltà con stizza. Non poter ringraziare o accennare il più elementare saluto mi facevano sentire scostumata e irriconoscente verso le persone che cercavano di aiutarmi. Ero sconsolata, non riuscendo ad avanzare con chiarezza le mie richieste agli agenti immobiliari. Mi sentivo quasi d’essere un loro ostaggio mentre li seguivo, in cerca di una casa decente da prendere in affitto, nei più remoti angoli della città, mentre andavo su e giù per palazzi vecchi e malridotti, mentre visitavo appartamenti da incubo per i quali mi si chiedevano pigioni esorbitanti. Quanto grande è il senso d’impotenza che si prova a non poter insultare un giovanotto che, con faccia da schiaffi, ti chiede 1000 euro per un appartamento vintage anni sessanta, al sesto piano, senza ascensore, con cucina priva di finestra e con in bagno la famigerata “turca”, l’ho sperimentato allora.
Poi fu la volta della scuola per le figlie. A stento ho creduto ai miei occhi ritornando oggi nel posto dov’ è la scuola italiana: invece d’invecchiare sei addirittura ringiovanita. E’ straordinario il lavoro che hai fatto in questi tre anni per ammodernarti anche in quel piccolo angolo di città. Non è sopravvissuta traccia dei marciapiedi stretti e sconnessi dei miei tempi, i nuovi sono spaziosi e comodi. Anche i negozi, allora botteghe spartane, ora sono moderni e eleganti. Che brutta impressione mi facesti quando venni per la prima volta nel cuore della vecchia Alsancak per iscrivere mia figlia Vittoria alla scuola Italiana. Fui assalita da un crescendo di spiacevoli emozioni. Nell’arco di mezz’ora la lieve agitazione si trasformò in inquietudine, che a sua volta sublimò in vera e propria disperazione. Seguendo le indicazioni che mi ero procurata, svoltai dinanzi al Centro Italiano di cultura. Mi addentrai, così, nel vicoletto dove sorge l’edificio scolastico, lasciandomi alle spalle la popolatissima e rassicurante Kibris Caddesi, un’enorme strada da noi italiani ribattezzata “la pedonale” essendo interdetta al traffico dei veicoli. La 1454 Sokak – in Turchia le stradine secondarie sono indicate con una numerazione progressiva a differenza delle vie principali, alle quali invece sono riservate i nomi - esordiva con un diroccato, anzi decrepito bagno pubblico per soli uomini, gestito da due omaccioni che mi ispirarono sul momento una gran diffidenza ma che, tutte le volte che ce ne fu una qualche necessità, si dimostrarono verso di noi solerti e protettivi. A seguire c’era un polveroso negozio di rigattiere nel quale, a dispetto del giuramento di non mettervi mai piede fatto quel giorno, in seguito ho perfino comprato uno sgabello. Infine, sul fondo della viuzza si ergeva una palazzina malandata, abitata da un gruppetto di attempati transessuali molto discreti che, nei locali del piano terra affacciati sulla strada, proprio dirimpetto al portone della scuola, gestivano un modesto e riservato salone di parrucchiere.
Potendo decidere diversamente non avrei portato mia figlia di sette anni in un posto come quello, ma non c’erano altre scelte. Concentrata in questa riflessione, giunsi innanzi al cancello del “Özel İtalyan Ana ve İlk okulu” e suonai il campanello. Dalla soglia fece capolino, circondata dalle consorelle, la suora che dirigeva la scuola invitandomi a entrare. La considerazione che il muro perimetrale delimitante l’intero fabbricato, almeno a prima vista, sembrasse inespugnabile fu di conforto. Passando velocemente in rassegna il gruppetto di religiose, con sollievo, constatai poi che i loro sorrisi docili, più che di eteree creature mistiche come mi ero immaginata, tradivano un temperamento da energiche guerriere. Sarebbero state perfettamente in grado di difendere l’edificio e i suoi occupanti - pensai- nel caso in cui qualche malintenzionato fosse riuscito a scavalcare. L’immagine mi strappò addirittura un sorriso. Tuttavia la ventata di ottimismo spirò solo per una manciata di minuti, fino a quando non misi piede nella palazzina ottocentesca.

“Come il mulino odora di farina
e la chiesa d'incenso e cera fina,
sa di gesso la scuola.
E' il buon odor che lascia ogni parola
Scritta sulla lavagna
Come un fioretto in mezzo alla campagna.”
Per magia il tempo si era fermato ed io ero entrata nella scuola di cui parlavano i versi di questa vecchia poesia delle elementari. Nell’angolo della classe dove fui fatta accomodare, proprio là dove mi aspettavo che fosse, c’era l’enorme lavagna di legno, con una facciata a quadretti e l’altra, nascosta sul retro, a righe. Le facevano compagnia i banchetti a due posti, anch’essi in legno, con il piano a ribalta e tanto di buco per il calamaio. La palla color latte del lampadario, come mi ero immaginata, pendeva dal soffitto. Il pavimento –nemmeno a dirlo- era piastrellato con la classica graniglia nera incorniciata dalla greca scura. La cartina fisica dell’Italia, infine, occupava la parete alle spalle della cattedra. Mancava -pensai- solamente la fotografia del re. Anche il refettorio non riservò sorprese. Vi trovai, infatti, i tavolini tondi di formica verde, circondati dalle minuscole sedie dello stesso colore. Ero –con tutta evidenza- risucchiata tra le pagine del libro Cuore. Da un momento all’altro mi sarebbe venuto incontro il Maestro Perboni insieme al buon Garrone. Terminai la visita con un nodo alla gola e gli occhi di lacrime. Sperai che le parole di Suor Roberta, la direttrice, - “Le scuole appaiono tutte tristi, quando sono vuote, i bambini le rendono allegre e vive, vedrà, vedrà” -  si avverassero.



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