venerdì 20 maggio 2016

taccuino turco (3 cap.)

Le radici strappate dalla terra d’origine soffrono mentre cercano nuovi equilibri. Per giorni esitano in superficie, sondando da che parte provenga l’acqua, si irradi la luce o spiri il vento prima di risolversi a penetrare il suolo in profondità.
L’emigrazione è un’esperienza faticosa. I più fortunati godono dell’aiuto di angeli custodi, sotto la cui ala protettrice superano le complicate fasi iniziali. Ogni passo sarebbe ancor più duro e il nuovo sentiero più impervio se non ci fossero queste provvidenziali figure a tenerci per mano. Io sono tra quei privilegiati che, nell’avventura spinosa dell’espatrio, hanno conosciuto l’altruismo e la generosità.
Tutte le mattine c’era qualcosa di nuovo di cui occuparmi: faccende urgenti da sistemare, problemi da risolvere, cose da comprare, posti da raggiungere. Le tasche erano sempre piene di appunti e note, la testa sempre alla ricerca di una soluzione e di un’anima pia disposta all’aiuto. E ogni giorno il fato disseminava la mia strada di guide, traduttori e consiglieri, cosicché rincasavo stanca, ma sempre orgogliosa e soddisfatta di essere avanzata di un altro passo verso il traguardo della normalità.
Il mio mondo si popolava di nuovi compagni di viaggio. Volti sconosciuti irrompevano nella routine quotidiana per entrarne a far parte stabilmente. Ero confortata dall’idea che, aggirandomi per il quartiere, potessi scambiare un saluto e qualche parola, ad esempio, con le “levantine”, discendenti dei coloni italiani, strette con le famiglie in una piccola comunità molto affiatata, orgogliose protettrici delle tradizioni e della lingua degli avi, nonché custodi, in terra musulmana, della religione cattolica. Mi sentivo, in un certo senso, meno sola e più a casa ogni volta che le incontravo. Se del tutto insperatamente riadattai le ricette di famiglia alle nuove latitudini, permettendo ai miei cari di rifugiarsi, contro la nostalgia che a volte li coglieva, nei sapori consolatori della nostra cucina, fu esclusivamente merito loro. Non c’era ingrediente di cui non mi indicassero l’equivalente, con il loro italiano da un accento antico: dal basilico, fesleğen, alla ricotta, lor, dal mascarpone, kayma, al lievito di birra, maya, e di cui mi suggerissero poi con esattezza la bottega o il banco del mercato dove reperirlo.

Senza l’aiuto delle suore, tuttavia, non mi sarei ambientata facilmente nel quartiere. Grazie a loro scoprii, infatti, che nel dedalo di viuzze di cui avevo diffidato inizialmente si celava un vero e proprio tesoro di piccole botteghe. Se chiudo gli occhi riesco a rivederle tutte. Sarei in grado di recitarne a memoria l’esatto ordine di successione. C’era il ciabattino sempre sorridente, la sarta, Ayshè, con la quale col tempo riuscii a fare anche lunghe chiacchierate, il fioraio, a cui ci rivolgevamo per i bouquet con cui si usa rendere omaggio alle insegnanti nel giorno della loro festa nazionale. Ricordo il pescivendolo, un omaccione che mi avrà pure rifilato del pessimo pesce, ma sempre con estremo garbo e gentilezza, e infine l’affabile corniciaio, che esaudiva con ben celata rassegnazione ogni mia richiesta.

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