Cosa qualifica un romanzo, dal punto di vista del lettore, come “riuscito”? Senza dubbio la capacità di rapire chi sta al di là delle pagine, assoggettarlo senza concedergli requie, renderlo incapace di pensare ad altro che non sia la conclusione della storia, perché dentro quella storia lo fa muovere come se si fosse, tanto le è aderente, nella vita vera: incassando colpi, schivandoli, odiando, amando e sperando bene.
Per scrivere un racconto così occorrono talento e coraggio, che – a rifletterci bene – vanno a braccetto, si sostengono a vicenda. Il talento di puntare, per recuperare l’autenticità smarrita da molta letteratura contemporanea, su una lingua tascìa (neologismo palermitano traducibile con l’ormai italiano tamarro), facendosi bastare poche parole, talvolta «violente e in putrefazione» per eludere «l’inganno degli orditi che esse tramano». Il coraggio di lasciare il protagonista libero, conferirgli l’autonomia di agire senza paura di niente e di nessuno, consentirgli di fare, contro logica e morale, tutto quello verso cui lo spinge l’istinto primordiale di ragazzo solo e ferito.
Estro e audacia di cui Dario Levantino dà ampia e compiuta prova, nel suo Di niente e di nessuno (159 pagine, 17,50 euro), edito da Fazi. Il trentaduenne professore palermitano, trapiantato al nord per ragioni sentimentali, nell’arco apparentemente striminzito di 159 pagine, ha realizzato un avvincente romanzo di formazione. Rosario, nome che sa di devozione ai santi e obbligatorie omonimie tramandate da generazioni, quando lo incontriamo per la prima volta, è intento a marciare sui binari della retta via, con l’ostinazione e lo zelo di chi aspira a cambiare il futuro cui lo destinerebbe la storia familiare. Sotto la cura della madre, prigioniera di un rapporto coniugale che le assegna il ruolo di vittima sacrificale, e la sorveglianza del padre, ambizioso intrallazzatore dalla doppia vita, fa la spola tra Brancaccio, quartiere «aborto umano, non luogo», dove è nato, e la zona bene di Palermo in cui frequenta il liceo, consapevole che il suo andirivieni è cosa più complessa del mero percorrere un tragitto cittadino.
È un funambolismo tra paesaggi urbani, la periferia imbarbarita e il centro ben curato, antitetici; tra codici linguistici, il palermitano domestico e l’italiano scolastico, su piani comunicativi incompatibili; tra paradigmi umani, modelli sociali e strutture familiari inconciliabili. È soprattutto una spedizione senza ritorno dall’adolescenza all’età adulta. Un viaggio durante il quale gli restiamo al fianco sebbene delusi, increduli e a tratti arrabbiati, mentre lui, il nostro Rosario, smarrito, afflitto, emarginato, deraglia nel tentativo di restare a galla. Romanzo di pura fantasia, assicura Levantino in questa intervista a LuciaLibri. Nessun riferimento autobiografico, dice l’autore. A maggior ragione, già apprezzato innanzi lo stato di grazia della sua penna e il coraggio, tocca qui complimentarsi per la sua sensibilità di uomo che gli ha dettato un simile distillato di autentica fragile giovinezza, ancorché solo immaginata.
Questa recensione è apparsa su LuciaLibri che ringrazio.
Questa recensione è apparsa su LuciaLibri che ringrazio.