giovedì 31 marzo 2016

Taccuino turco.

Tempo fa, per ragioni che non sto qui a raccontare, scrissi una sorta di resoconto della mia esperienza in Turchia.
E' tanto che il "taccuino turco" -così ho chiamato il breve racconto- sta lì, sul desktop del computer .
Non avrò mai il coraggio di mandarlo in visione ad un editore, come pure avevo pensato di fare.
Questa mattina ho preso la decisione di metterlo qui, a puntate, sul mio piccolo spazio nel web.
Eccoci, io e il mio angolo di Turchia.
Cap. 1

Bella signora ti ho ritrovato così come ti avevo lasciata, stesa su di un fianco, capelli al vento, volto verso il sole e occhi chiusi, con l’espressione indolente di un’adolescente che ha scoperto il piacere dell’abbronzatura e vuole i raggi tutti per sé.
Alcuni ti chiamano Smirne alla maniera occidentale, altri Izmir secondo la tua lingua.
Per tutti i turchi fuori dalle tue mura sei “l’infedele,” a causa dell’indole ribelle. Le tue figlie godono fama d’essere le donne più belle di Turchia e non si ricorda persona che arrivata piangendo, si sia accomiatata da te versando almeno il doppio delle lacrime. Confesso che mi bastò sentire il tuo nome per temerti, per diffidare di tutto ciò che rappresentavi. Solamente piccoli dettagli, rispolverati da reminiscenze ginnasiali, aprirono la porta alla possibilità di un’amicizia. Ragioni che adesso mi suonano infantili, come il fatto che un tempo fosti parte di quel mondo greco della cui mitologia sono appassionata da sempre. Sapere che forse il poeta Omero crebbe tra le tue strade mi infuse il coraggio d’affrontarti. Tra le tante cose di cui ti sono debitrice, le più importanti sono l’avermi insegnato che i pregiudizi penalizzano principalmente coloro che li nutrono e l’avermi aiutato, giorno per giorno, a disfarmi dei miei.
Cara Amica, stretta nel tuo abbraccio di benvenuto, mentre il tuo profumo mi invadeva le narici, anch’io ho chiuso gli occhi. Ho offerto il viso a quel sole da cui attingi l’energia che emani e così illuminata ho cominciato a cercare nella memoria le prime immagini di te, anzi di noi.
Niente è più difficile che affrontare i ricordi. Sono tanti, talvolta belli, talaltra brutti. Ci costringono a fare i conti con il destino, con le nostre scelte o più banalmente con il trascorrere del tempo. Dopo tanti anni di lontananza, tra le tue braccia, mi sono persa nelle memorie e solo al termine di un lungo ripensamento finalmente eccomi qua, pronta ad aprirti il cuore.
Con i veri amici risalire al fatidico attimo in cui ci si è rivolta per la prima volta la parola  è una prova destinata al fallimento. A dispetto di ogni sforzo prevale l’impressione di conoscersi da sempre. Altre volte si è più fortunati. Io lo sono stata. Insperatamente ho recuperato l’immagine dell’ora zero in cui tutto ebbe inizio. Dal fondo di un cassetto dove era sepolta, intatta fin nei più minuti dettagli, come una foto ingiallita ma che ancora conserva un’apprezzabile nitidezza, è spuntata l’immagine del giorno in cui atterrai in città. La gioia della scoperta si è però incrinata brevemente al pensiero che tra noi non fu amore a prima vista. L’affetto totale e incondizionato, al quale mi arresi in seguito, fu preceduto da un sentimento d’autentica antipatia.
In che posto ero capitata! Mentre porgevo il passaporto agli agenti dei controlli doganali, le immagini brutali del film “Fuga di mezzanotte” -da cui, come molti della mia generazione, avevo appreso la crudeltà e la durezza delle carceri turche- scorrevano davanti ai miei occhi. Non dico che rimasi delusa, ma fui sinceramente sorpresa quando i poliziotti, stampigliando il visto sul documento, invece di dichiararmi in arresto mi lasciarono entrare nel paese augurandomi il benvenuto.
Non concorsero a migliorare il mio umore ne’ la ventata di aria torrida che mi investì all’uscita dall’aeroporto, ne’ l’onda disordinata di vecchie automobili che alimentavano il traffico infernale, ne’ infine il panorama circostante.
Il volto disadorno e scarno della povertà mi spaventò. Le centinaia di catapecchie inerpicate sulle colline circostanti, lungo strade sterrate e dissestate, ne erano una fedelissima e inequivocabile raffigurazione. Esaminai quel profilo con intransigenza forse eccessiva. Lo ritenni il disdicevole ritratto di un viso reso deforme e sgraziato dal degrado, stabilendo che vi regnassero solo emarginazione e imbarbarimento.
Mi sbagliavo. La povertà non si traduce necessariamente in assoluta indigenza e fame. La miseria può essere, come da queste parti, una condizione sociale diffusa e condivisa che si concreta certamente in mancanza di agi ma che conserva orgoglio, dignità e decoro. Con il tempo ho imparato ad apprezzare anche la grazia e la bellezza di quello che, con leggerezza eccessiva, battezzai un “triste presepe”.
Può succedere che il primo diffidente sguardo diretto a bruciapelo verso uno sconosciuto ci rimandi l’idea di essere di fronte ad una persona presuntuosa, boriosa e insolente. Così ti percepii quel giorno. Oggi ammetto che tra noi due fui io ad essere pessima. Quei tre spiacevoli aggettivi  probabilmente spettavano a pieno titolo a me.
Chiarimmo in seguito che la tua non fosse ostilità quanto piuttosto indifferenza, così come appurai che non eri maldisposta verso di me. Tuttavia all’istante non seppi fare di meglio che indirizzarti uno sguardo malevolo.
Tu sollevasti verso di me la mano con l’intento di stringermela e io, convinta che mi avresti assestato un pugno sul naso, mi ritrassi.

Cap. 2
Prima di venire a vedere con i miei occhi cosa mi aspettasse avevo letto il romanzo “Le streghe di Smirne” di Mara Meimaridi. Mi ci ero imbattuta per caso in libreria e naturalmente l’avevo comprato attratta dal tuo nome in copertina. Quando mi persi per la prima volta tra le vie del centro, con l’eco di quella lettura a tenermi compagnia, compresi che, sebbene le donne di Smirne evidentemente non sperimentano più come nella storia le loro alchimie ammaliatrici sugli uomini, di quello” spirito dionisiaco” che trasuda dalle pagine del libro sei pervasa tu stessa, Smirne.
Sotto il sole di mezzogiorno, mentre attendevo che il flusso frenetico di volti e di azioni di cui ero testimone, stremato dal caldo, si arrestasse per una pausa pomeridiana, mi stupii invece che nessuno e nulla si fermasse. Al contrario: quella umanità variopinta insisteva a popolare le strade fino al tramonto, affaccendata in una danza da uno strano ritmo, frenetico e placido insieme: “festina lente” pensai, affrettati lentamente.
Ne fui sorpresa e conquistata insieme. Una gran ricchezza di suoni, di colori e di profumi che tradivano lontane provenienze mi raccontava della moltitudine di popoli passati di là, ciascuno con la sua cultura e la sua religione, per brevi periodi o lunghi, stanziatisi in questa o quella parte della città in ragione della propria vocazione o della propria attività; mi parve di poterli rivedere tutti contemporaneamente. Compresi allora la ragione della presenza nei vari quartieri cittadini dei consolati di Germania, Grecia, Francia e Italia, con le relative scuole e “Centri di Cultura”, popolati da tanti Levantini e affollati di giovani frequentatori. Giudicai del tutto naturale quindi, che le strade risuonassero di tante lingue straniere. Ne’ mi parve più così strano l’essermi imbattuta, nel solo quartiere storico di Alsancak, in chiese di varie confessioni e persino in una sinagoga. Soddisfatta, al termine di quella faticosa giornata mi sedetti di fronte al mare per godermi il primo tramonto a oriente, disposta ora a concederti una possibilità.




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