«Forse dovresti scrivere.»
«Invece tu dovresti piantarla di leggere tutto ciò che è stato scritto.»
«E cosa dovrei fare nel tempo libero?»
«Immergerti nella vita vera.»
«C’è un libro che parla proprio di questo, sai.»
Di tutte le citazioni di Philip Roth questa è la mia preferita.
Di qualsiasi cosa si abbia bisogno: un oracolo, un maestro, uno specchio, un'approfondimento, siatene certi, da qualche parte nel mondo, c'è un volume che fa al caso vostro.
Sono arrivata a " Nati per correre" di Adharanand Finn, tradotto in italiano da Andrea Mazza per Sperling & Kupfer, partendo dalla notizia -nel cui merito non intendo entrare, invitando chiunque lo desideri ad approfondirla e, eventualmente verificarne l'epilogo consultando il web, che di tutto conserva indelebile ricordo- dell'impossibilità per gli atleti africani di iscriversi alla mezza maratona di Trieste del 5 maggio, riportata nei giornali il 27 aprile 2019.
Un fatto di cronaca, dunque, che mi ha sollecitato ad indagare due mondi di cui so poco: l'Africa, continente misconosciuto ( la cui storia, la cui geopolitica, usi e costumi in questi ultimi anni sono riuscita ad approfondire un minimo grazie a scrittrici del calibro di Chimamanda Ngotzi Adichi) e la corsa ( in cui, lo si evince in maniera inoppugnabile dai risultati delle competizioni sportive degli ultimi anni, dominano gli africani). Mi è bastato digitare sul motore di ricerca più diffuso tre termini:" +libro+corsa+Africa" e cliccare sul titolo che, tra quelli comparsi sullo schermo, mi ha ispirato di più.
"Nati per correre" è un romanzo autobiografico, senza alcuna velleità letteraria di ampio respiro -lo sottolineo in maniera esplicita- in cui il giornalista, scrittore e runner Adharandan Finn racconta, con l'andamento quasi di una cronaca diaristica, del semestre in cui, famiglia al seguito ( moglie e tre pargoli) si è trasferito in Kenya per allenarsi alla durissima maratona di Lewa: 42 chilometri sulla Rift Valley, gareggiando spalla a spalla con gli uomini più veloci del mondo. Sei mesi intensi per l'uomo e lo sportivo. Ripercorrendoli con la semplicità e la pacatezza che connotano la sua scrittura, l'autore mi ha concesso l'opportunità di correre al suo fianco una speudo maratona che rappresenta un piccolo, ma significativo traguardo personale verso la composizione di un quadro più organico circa gli usi, i costumi, la lingua e la cucina del paese africano coprotagonista del romanzo. Per quanto riguarda la corsa, infine, è stato esaltante approfondire il mondo dei runners attraverso le esperienze e le voci di corridori leggendari, grazie ai quali ne so un po' di più sulle ragioni che fanno del Kenya una riserva di maratoneti vincenti.