martedì 26 aprile 2016

Chernobyl, trent'anni dopo

Il 26 Aprile di trent'anni fa sulla Russia sapevo tutto quello che c’era da sapere: un covo di comunisti nemici giurati dell’America con un leggendario arsenale atomico puntato verso di noi. Lo avevo sentito ripetere mille volte al telegiornale e dai professori.  Io stessa lo avevo scrupolosamente riportato in ognuno dei temi in classe accumulati nel corso della onesta e diligente carriera scolastica giunta ormai al quarto anno delle superiori.
Le altre verità sulla seconda potenza mondiale erano voci di sottofondo sussurrate con un pizzico di soddisfazione. Appena un po’ più in là dalla ostentata solidità di facciata, dei nostri avversari si raccontava, infatti, che fossero alle soglie della fame, in bilico tra la casalinga loquacità artificiale della vodka, di cui erano quasi perennemente ubriachi e il pubblico mutismo indotto dalla minaccia delle deportazioni siberiane di cui erano succubi.
Eppure, nonostante la spada di Damocle della guerra fredda oscillasse sulle nostre esistenze, eravamo tutti moderatamente ottimisti che alla fine il conflitto atomico non sarebbe scoppiato. Ci ispirava fiducia quel brav'uomo di Gorbaciov, a dispetto della grande voglia rossa a forma di Stati Uniti sulla fronte. Anche il buon Sting dalle radio ci garantiva che “i Russians amavano i propri figli”: come non credergli.
Non ci aspettavamo certo di doverci riparare da un onda radioattiva  200 volte superiore alla potenza della bomba atomica di Hiroshima.
Il 26 Aprile del 1986 era un sabato.  Questa circostanza ho reso difficile recuperare i ricordi di quel giorno: il livello di attenzione di una diciottenne per i fatti di cronaca, già scarso durante la settimana quando tuttavia è costretta a subire il tg per ragioni d’obbligo scolastico, raggiunge il valore minimo durante il fine settimana. Mi persi tutte le fasi iniziali del disastro: l’allarme lanciato dagli Svedesi, i tentativi di accertarne la veridicità, le smentite del Cremlino, la pletora di supposizioni seguenti.
Mi  sintonizzai sulla notizia nell'attimo in cui, maledicendo la propria lacunosa preparazione in geografia, la popolazione mondiale cercava febbrilmente di calcolare quanto  fosse lontana l’ Ucraina dalla propria casa, di quantificare quanto cielo, quanti pascoli, quanti corsi d’acqua in linea d’aria la separassero dal reattore numero 4 di Chernobyl.  Scoprii che “il mondo è piccolo”, e non per modo di dire.  A scavare sul fondo del sacco delle memorie ho tirato fuori il ricordo di mio zio –chimico di lungo corso esperto della materia- che si presentò a casa della nonna con il suo rilevatore personale di radiazioni proibendoci di mangiare frutta e verdura fino a quando non si fosse esaurita la nube. I filmati e le foto irreparabilmente deteriorate trasmesse dai telegiornali che davano l’idea di come le radiazione infiltrassero anche noi. Le chilate di retorica di buona qualità con cui infarcii i temi fatti in seguito a scuola.
Cosa rimane di Chernobyl trent'anni dopo? Le vite spentesi silenziosamente per i postumi della “intossicazione”, le esistenze anonime di chi continua a combattere, la desolazione di un territorio violentato e compromesso. Sopra ogni cosa la consapevolezza che di tanto dolore il catafalco, sotto cui   è ingabbiato quel malefico reattore, non  potrà e dovrà mai essere la pietra tombale.

domenica 24 aprile 2016

Ercolino

Da una settimana nel cortile del condominio accanto  sono in corso i lavori di ripristino della pavimentazione.
Se ne occupano tre operai, tutti sulla cinquantina. Arrivano puntuali al mattino, verso le sette e mezza, indossando già gli abiti da lavoro. Agganciano le giacche al chiodo fissato alla parete della guardiola, e dopo aver estratto dalle tasche le sigarette e l'accendino silenziosamente cominciano a lavorare.
Mentre stendevo i panni, ieri, ho ascoltato uno dei tre raccontare al portiere , mentre fumava appunto una sigaretta, la sua storia. Ho saputo così che Ercolino ha 58 anni e vive in un quartiere della periferia occidentale e che "non ha finito le scuole" perché da giovane "non c' aveva la capa". A 17 anni mise incinta la sua fidanzata e quindi a 18 anni era padre. Cominciò così a fare il "riggiularo" -il pavimentatore- per portare avanti la famiglia, che negli anni si è ulteriormente accresciuta di  ben tre figli. 
Ercolino è pure  nonno. Anzi, i nipoti sono ormai già grandicelli, poiché i suoi figli sono stati precoci quanto lui nel procreare.
A quel punto si è interrotto un momento per prendere dalla tasca della giacca il portafogli, da cui ha estratto la foto della "truppa"- parole sue - che ha mostrato al portiere. 
Il racconto e il gesto, entrambi pieni di orgoglio, mi hanno fatto una gran tenerezza.
Anche oggi mi sono  affacciata a ritirare il bucato.
Ercolino era sempre lì a lavorare, chino su una piastrella, di quelle grosse, di graniglia, intento a tagliarla con quella che credo sia una fresatrice. Era immerso in una nuvola di polvere bianca, tanto densa e minacciosa  che pure i piccioni, di solito più flemmatici di certi umani, hanno preferito zampettare  più in là.
Lui, Ercolino, ci stava dentro così, senza occhiali, senza mascherina, con la stessa naturalezza con cui un pesce sta nel mare.
La tenerezza di ieri, se n'è andata via. Oggi m'è salita solo la rabbia.

martedì 19 aprile 2016

Lettera a D. (Storia di un amore) di Andrè Gorz


Stai per compiere ottantadue anni. Sei rimpicciolita di sei centimetri, non pesi che quaranta chili e sei sempre bella, elegante e desiderabile. Sono cinquantotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai. Porto di nuovo in fondo al petto un vuoto divorante che solo il calore del tuo corpo contro il mio riempie.”
Comincia così una delle più folgoranti epistole d’amore della letteratura mondiale: “Lettera a D. – Storia di un amore” di Andrè Gorz , terminata il 6 giugno del 2006 e pubblicata in Italia nel 2008 da Sellerio, traduzione e cura di Maruzza Loria, prefazione di Adriano Sofri.
Andrè Gorz è stato –detta in maniera molto sintetica- uno dei più grandi filosofi francesi contemporanei, a lungo direttore della rivista di Sartre “Le temps modernes” e fondatore a sua volta del settimanale “Nouvel observateur”.
Della scoperta di questo libricino sono debitrice alle solite “consigliere” di fiducia le quali, corrucciate da quella che io sento ora come una colpevole “lacuna”, mi hanno suggerito, in maniera insolitamente ferma, di colmarla.
“Lettera a D.” nasce dalla necessità –in questi termini si esprime l’autore- di ricostruire la storia d’amore con la moglie Dorine per coglierne tutto il senso. “E’ lei –sostiene- che ci ha permesso  di diventare quello che siamo, l’uno attraverso l’altra e l’una per l’altro.”
Come accennato  le 78 pagine della lettera sono vergate nel 2006. Un anno dopo circa, nel settembre del 2007, Andrè, 84 anni, e Dorine, 83, si suicideranno con un’iniezione letale, nell’ estrema, ferma volontà di “trascorrere insieme” –come avevano sempre sperato- “la seconda vita”.
Ci sono momenti dell’esistenza in cui non abbiamo altra scelta se non cavalcare i sentimenti, assecondare l’emotività sedimentata sul fondo dell’animo che -quasi volessimo schernirci- classifichiamo adolescenziale e puntare su libri che soddisfino il nostro lato romantico. Vivo uno di questi periodi e con il desiderio descritto sono affondata nella lettura. La bellezza del testo, il contenuto nonché l’epilogo tragico mi hanno conquistato.
Sebbene Gorz non riesca a tenere totalmente a bada la propria personalità e inciampi nella inveterata abitudine di narrare in primis se stesso e le proprie idee filosofiche, indulgendo in quelle che altrove aveva già etichettato come “dissertazioni spocchiose sull’amore e il matrimonio”, attraverso il ricordo ad esempio della propria iniziale riluttanza verso la borghese istituzione matrimoniale o l’identificazione dell’amore “nella reciproca fascinazione di due soggetti per quello che hanno di meno dicibile, di meno socializzabile, di refrattario ai ruoli e alle immagini di se stessi che la società impone loro, alle appartenenze culturali”, non tradisce mai l’annunciata intenzione di pagare il proprio debito alla donna della sua vita. La realizza componendo un ritratto della moglie tanto vivido e caldo da farcene innamorare, tanto amorevole  e appassionato da generare in  noi il rimpianto di non averla incrociata almeno una volta nella vita. Inevitabile subire il fascino di Dorine, a cui le difficoltà mettevano le ali, libera e consapevole, se stessa in tutto quello che faceva. Ammirare la forza di carattere della persona che non ha avuto bisogno di scienze cognitive per sapere che senza intuizioni ne’ affetti non c’è intelligenza ne’ significato, che si è rifiutata di seguire la moda, che fin dall’età di sette anni è giunta alla conclusione che, per essere vero, l’amore deve disprezzare il denaro. 
Cosa altro si può aggiungere riguardo a una confessione d’immutato o rinato desiderio per l’amata espressa con la delicata intensità che carica e connota le parole di Gorz? Nulla di più che un vivo invito alla lettura. 




Ad Auschwitz non c'era il mare

Le croci di Francesco Tuccio realizzate con i legni delle imbarcazioni  dei profughi naufragate
Adoro il mare.

Mi piace sedermici di fronte, per guardarlo.

Mi piace bagnarmici, per trovare sollievo alla calura.

Mi piace nuotarci dentro in libertà, per sfuggire al peso della terra.

Eppure, ad andare per mare, non mi ci troverete se non in casi di necessità estrema.

Soffro le onde. Anche galleggiare su un piccolo materassino e per pochi minuti mi sfinisce.

Ho vergogna a confessare che per " casi di estrema necessità" intendo "raggiungere un luogo di vacanza" e per "sfinisce" andar soggetta a un transitorio episodio di nausea.

Ne ho più vergogna oggi, che affidarsi al mare, per tanti, è  andare incontro alla morte .

E io mi immagino una deportazione liquida.

Mi immagino non più il chiuso di un vagone ma uno spazio aperto al vento.

Il fetore di corpi e di umori in cui le lacrime e la salsedine si mischiano e si confondono.

La fame, la sete.



La ressa, le voci.


Lo stremo delle forze e la forza per resistere ancora e ancora e ancora, un miglio, due, tre...



Il buio.


La definitiva oscurità non più di ceneri impastate a neve e ghiaccio.


E io qui, ora, vedo un Auschwitz liquida.


Vedo una nuova oscurità di corpi gonfi di acqua salata e speranze.

Mare-tana libera tutti dal peso della terra

lunedì 18 aprile 2016

Cara Belen



Cara Belen,
leggo che le “hai uscite” su FB provocando il delirio.
E’ un lunedì strano, questo. Il referendum “sulle trivellazioni” non ha superato il quorum. La televisione e i giornali sono un tripudio di facce e parole, parole e facce tutte vuote alla stessa maniera, deludenti, talune travalicanti il limite della provocazione e dell’insolenza.
Magari dovrei, per senso civico, occuparmi di questo e invece arrivi tu a distrarmi e la mia contrizione si sposta su di te.
Sono corsa a cercarti sul web vinta dalla curiosità, ma della foto dei tuoi due argomenti tirati fuori dal reggiseno per racimolare un po’ di attenzione, non v’è traccia.
Mi sono affacciata persino sul tuo profilo social per approfondire, pensa tu. Tranquilla, non sono preda di un conato di voyeurismo, ne’ di una pulsione moralizzatrice alla Savonarola.
Alla fine le tette credo che tu non le abbia uscite per davvero. Temo tuttavia che sia questione di tempo. Fino ad oggi, mi piacevi, confesso. Facevo il tifo per te, sperando che tenessi tu loro nel sacco e non ti facessi mettere sotto.
Sei molto intelligente -traspare- e avevo avuto l’impressione che la furbizia ti avrebbe fatto arrivare se non lontana, comunque ad approdi differenti rispetto ai soliti dove giungono le tue colleghe. Avevo immaginato per te uno scenario diverso dai passaggi alla televisione  in lacrime o dagli “strascini” pubblici con avversarie o dai patetici finti tira e molla con il partner a scopo paparazzate.  
Una che trova il modo di fare pendere  gli uomini -seppure di quelli con encefalogramma totalmente piatto- da una farfalla tatuata -ho pensato- sa condurre il gioco.
E invece mi pare, Cara Belen, che ti stia avviando anche tu verso il Sunset Boulevard con il solito vecchio  autobus, quello privo di confort, olezzante vagamente di psicofarmaci, lacrime  e bile, su cui sono salite tante altre giovani di divina presenza e belle speranze al pari tuo.
Se avessi una figlia le direi…
Aspetta, io di figlie ne ho ben due, quindi considera quel   condizionale un obbligo sintattico e null'altro.
Cara Belen, ti suggerisco di decidere al più presto, prima cioè che si manifestino danni irreparabili, con cosa campare per il futuro.  Vuoi mangiare basandoti sul corpo o piuttosto sulla mente? Per adesso 
le orde di maschi sbavanti le hai ancora in pugno, e - ipotizzo- le avrai al seguito ancora per un po’. Ma le folle di fans, quelle che ragionano con le parti basse –su cui tu hai puntato - si fanno usare dai bastoni di cui sono corredate laggiù come rabdomanti: al prossimo sentore di una fonte d’acqua più fresca e rigogliosa abbandoneranno il vecchio pozzo in via d’esaurimento per abbeverarsi al nuovo. 
E lo so, cioè posso solo immaginare, che ti manchino le comparsate alla televisione. Persino essere oggetto di imitazioni è piacevole quando rientra tra le manifestazioni di popolarità e esserne privata è un colpo al cuore. Ma la vita è altro, può e deve essere altro. Archivia il senso di vuoto e ricompatta la terra sotto i piedi. Ma di una cosa ti prego: non uscirle. Volta pagina e fatti una vita. Dimostraci che puoi fare a meno di noi, prima che noi ti si sbatta in faccia che possiamo fare a meno di te.
  

sabato 16 aprile 2016

A ruota libera

A ruota libera.
Non può che intitolarsi così un post nato dalla idea “basica” di raccontare i tre libri letti nei giorni scorsi che finirà poi per deragliare su Vespa, Riina, le ospitate alla televisione, i padri, i figli e il pentitismo.
Per chi fosse curioso, i tre titoli di questo periodo, in rigoroso ordine cronologico, sono:
- Lettera a D. Storia di un amore. (André Gorz –edizioni Sellerio)
- Mr Peanut (Adam Ross – edizioni Einaudi)
- Maestro Utrecht (Davide Longo – edizioni NN). 
Da tempo uso un’espressione di cui rivendico la maternità ( d’impulso mi era venuto di scrivere la paternità ma mi sono corretta in tempo. Anzi, visto che ci sto a riflettere tanto sopra, la metto giù ancora più politicamente corretta e azzardo a scrivere di rivendicarne la genitorialità). Mi riferisco a “comunisti vista mare”, locuzione con cui stigmatizzo –inutile negarne l’accezione negativa- la categoria dei figli della media, alta, altissima borghesia, i quali ostentano inclinazioni marxiste, vocazioni rivoluzionarie, orientamenti anarchici e controborghesi, con annessi e connessi aneliti e afflati socialisti e uguaglitari, senza  rinunciare di fatto alla costosa scarpa di marca ( che però –attenzione- è simbolica), all'abbigliamento di una certa tipologia ( che fa hipster), persino ad un determinato taglio dei capelli  e ancora alla vacanza in barca con mamma e papà, alla cameretta vista mare nel quartiere bene. Parlo in buona sostanza di quelli che vivono la rivoluzione perché “se lo possono permettere”. Mi stanno antipatici, lo ammetto e si sarà capito.
Eppure nel mio odierno furoreggiamento del pensiero  non chiamo in causa loro, bensì l'altra categoria che pure mi raccapriccia, ovvero quella dei benpensanti qualunquisti, centimètre à penser – che tengo ancora più sulle scatole- i quali hanno tuonato contro Vespa e Riina,   che hanno plaudito ai librai fattisi censori,  che hanno invocato la necessità del ravvedimento per la riabilitazione nel consorzio umano  dei camorristi –cosa buona e giusta, per carità- ma che restano sostanzialmente ciechi difronte all'ostinato mancato pentimento della maggior parte degli ormai cresciuti “comunisti vista mare” di cui sopra,  alcuni dei quali  imprenditori a loro volta, altri stimati professionisti, altri ancora persino ben inseriti nelle redazioni dei giornali e delle televisioni, nel mondo politico e culturale a tenerci lezioni sulla morale.
A chi mai è venuto in mente di indagare  se il figlio di un piccolo, medio o grande imprenditore si sia dissociato dall’operato del genitore che si avvale di operai sfruttati al nero. Chi ha mai preteso che il seme di tali piante certifichi di esserne caduto lontano, scuotendone i rami –non solo a chiacchiere- e chiedendo che il caro padre non delocalizzi, non evada le tasse, non  attui discriminazioni verso le lavoratrici, non corrompa e paghi mazzette?
Solo allora, quando rifletteremo in forma più complessa, quando  articoleremo i pensierini non unicamente in slogan che entrano nello spazio di un tweet, su certe indignazioni  mi ci troverete totalmente d'accordo. Non mi dite che da qualche parte bisogna iniziare ed è bene partire dal più marcio. Non ci sono sfumature nel  putrido.
Come sostenne Veronica, nel celebre monologo sul donatore di lavoro (https://www.youtube.com/watch?v=Q3FP5Cdx-gE) non ci sono figli e figliastri, per me i figli sono tutti uguali: pretendo da tutti la stessa coerenza e onestà intellettuale.

giovedì 14 aprile 2016

E che peccato!

Dare un senso nuovo alla parola peccato. Di questo si era trattato, infondo. Era accaduto nel più semplice e naturale dei modi, casualmente, attraverso il tentativo di liberare le figlie dalle grinfie del demonio. Fin dall'età della ragione aveva sentito vegliare su di lei più che il buon Dio, con la sua aura benevola, il diavolo, con il suo ghigno sinistro. Gli imperativi morali tradizionali, infatti, non li aveva interiorizzati in vista del paradiso quanto piuttosto per sfuggire alle fiamme dell’inferno. Ed era stata sempre attenta a non deragliare dalla via celestiale quando si era trattato di prendete decisioni difficili, di quelle che implicano una rottura con i mores.
C’è un tratto della vita, esordio della fase adulta, nel quale il concetto di caduta è completamente assorbito dalla sfera sessuale. Sono gli anni dell'adolescenza, naturalmente. Magari non era vero per tutti. Magari era opportuno restringere il campo e aggiustare il tiro alla sua di adolescenza, consumatasi intorno agli anni ottanta in un quartiere periferico. Il primo bacio, poi le palpatine, infine il primo rapporto sessuale completo. Azioni per affrontare le quali aveva costantemente combattuto un fiero corpo a corpo con l'angelo caduto che le alitava instancabile sul collo.
Voleva che per le sue figlie le cose andassero diversamente, fossero più facili. Aveva lavorato allora a spostare le idee di trasgressione e colpa dalla dimensione privata a quella pubblica, insegnando loro che i comandamenti etici impongono “solo” il rispetto per se stessi in primis, quindi dell’altro, poi dello stato e  infine delle istituzioni. Riguardo al sesso -prima o dopo, fuori o dentro il matrimonio- le era parso plausibile dedurre che non avesse alcuna connotazione peccaminosa per Dio, a patto di viverlo come gesto di libertà. Non di liberazione -seppure giungendo a questa conclusione   si era infine liberata del famoso diavolo- ma di libertà. Se non si soggiace a ricatti, a pressioni, neppure alla spinta della curiosità, se si ha, cioè, la fortuna di poter vivere la conoscenza carnale con il "soggetto" del proprio desiderio esclusivamente in virtù di una consapevole volontà personale, il sesso, lungi dall'essere una mortificazione, un subire, è  gesto la cui reale essenza peccaminosa si concretizza solo nella rinuncia.

E’ così, nel loro lessico famigliare, l'atto nefando non era di certo o non più quello che si è soliti additare con l’indice teso a riprovazione, ma quello la cui rinuncia si stigmatizza con un’alzata di spalle  e con l'esclamazione: - “Astenersi? Che peccato!”.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...