Il 26 Aprile di trent'anni fa sulla Russia sapevo tutto
quello che c’era da sapere: un covo di comunisti nemici giurati dell’America con
un leggendario arsenale atomico puntato verso di noi. Lo avevo sentito ripetere
mille volte al telegiornale e dai professori.
Io stessa lo avevo scrupolosamente riportato in ognuno dei temi in classe
accumulati nel corso della onesta e diligente carriera scolastica giunta ormai
al quarto anno delle superiori.
Le altre verità sulla seconda potenza mondiale erano voci di sottofondo sussurrate con un pizzico di soddisfazione. Appena un po’ più in là dalla ostentata solidità di facciata, dei nostri avversari si raccontava, infatti, che fossero alle soglie della fame, in bilico tra la casalinga loquacità artificiale della vodka, di cui erano quasi perennemente ubriachi e il pubblico mutismo indotto dalla minaccia delle deportazioni siberiane di cui erano succubi.
Eppure, nonostante la spada di Damocle della guerra fredda oscillasse sulle nostre esistenze, eravamo tutti moderatamente ottimisti che alla fine il conflitto atomico non sarebbe scoppiato. Ci ispirava fiducia quel brav'uomo di Gorbaciov, a dispetto della grande voglia rossa a forma di Stati Uniti sulla fronte. Anche il buon Sting dalle radio ci garantiva che “i Russians amavano i propri figli”: come non credergli.
Non ci aspettavamo certo di doverci riparare da un onda radioattiva 200 volte superiore alla potenza della bomba atomica di Hiroshima.
Le altre verità sulla seconda potenza mondiale erano voci di sottofondo sussurrate con un pizzico di soddisfazione. Appena un po’ più in là dalla ostentata solidità di facciata, dei nostri avversari si raccontava, infatti, che fossero alle soglie della fame, in bilico tra la casalinga loquacità artificiale della vodka, di cui erano quasi perennemente ubriachi e il pubblico mutismo indotto dalla minaccia delle deportazioni siberiane di cui erano succubi.
Eppure, nonostante la spada di Damocle della guerra fredda oscillasse sulle nostre esistenze, eravamo tutti moderatamente ottimisti che alla fine il conflitto atomico non sarebbe scoppiato. Ci ispirava fiducia quel brav'uomo di Gorbaciov, a dispetto della grande voglia rossa a forma di Stati Uniti sulla fronte. Anche il buon Sting dalle radio ci garantiva che “i Russians amavano i propri figli”: come non credergli.
Non ci aspettavamo certo di doverci riparare da un onda radioattiva 200 volte superiore alla potenza della bomba atomica di Hiroshima.
Il 26 Aprile del 1986 era un sabato. Questa circostanza ho reso difficile
recuperare i ricordi di quel giorno: il livello di attenzione di una
diciottenne per i fatti di cronaca, già scarso durante la settimana quando tuttavia
è costretta a subire il tg per ragioni d’obbligo scolastico, raggiunge il
valore minimo durante il fine settimana. Mi persi tutte le fasi iniziali del disastro:
l’allarme lanciato dagli Svedesi, i tentativi di accertarne la veridicità, le smentite del Cremlino, la pletora di supposizioni seguenti.
Mi sintonizzai sulla notizia nell'attimo in cui, maledicendo la propria lacunosa preparazione in geografia, la popolazione mondiale cercava febbrilmente di calcolare quanto fosse lontana l’ Ucraina dalla propria casa, di quantificare quanto cielo, quanti pascoli, quanti corsi d’acqua in linea d’aria la separassero dal reattore numero 4 di Chernobyl. Scoprii che “il mondo è piccolo”, e non per modo di dire. A scavare sul fondo del sacco delle memorie ho tirato fuori il ricordo di mio zio –chimico di lungo corso esperto della materia- che si presentò a casa della nonna con il suo rilevatore personale di radiazioni proibendoci di mangiare frutta e verdura fino a quando non si fosse esaurita la nube. I filmati e le foto irreparabilmente deteriorate trasmesse dai telegiornali che davano l’idea di come le radiazione infiltrassero anche noi. Le chilate di retorica di buona qualità con cui infarcii i temi fatti in seguito a scuola.
Cosa rimane di Chernobyl trent'anni dopo? Le vite spentesi
silenziosamente per i postumi della “intossicazione”, le esistenze anonime di chi
continua a combattere, la desolazione di un territorio violentato e compromesso. Sopra ogni cosa la consapevolezza che di tanto dolore il catafalco, sotto cui è
ingabbiato quel malefico reattore, non potrà e dovrà mai essere la pietra tombale. Mi sintonizzai sulla notizia nell'attimo in cui, maledicendo la propria lacunosa preparazione in geografia, la popolazione mondiale cercava febbrilmente di calcolare quanto fosse lontana l’ Ucraina dalla propria casa, di quantificare quanto cielo, quanti pascoli, quanti corsi d’acqua in linea d’aria la separassero dal reattore numero 4 di Chernobyl. Scoprii che “il mondo è piccolo”, e non per modo di dire. A scavare sul fondo del sacco delle memorie ho tirato fuori il ricordo di mio zio –chimico di lungo corso esperto della materia- che si presentò a casa della nonna con il suo rilevatore personale di radiazioni proibendoci di mangiare frutta e verdura fino a quando non si fosse esaurita la nube. I filmati e le foto irreparabilmente deteriorate trasmesse dai telegiornali che davano l’idea di come le radiazione infiltrassero anche noi. Le chilate di retorica di buona qualità con cui infarcii i temi fatti in seguito a scuola.