mercoledì 30 novembre 2016

"Quando la storia finisce" di Alessandro Piperno


  "Dove la storia finisce" di Alessandro Piperno, edizioni Mondadori è il consiglio di lettura di oggi.

La difficoltà a parlarne sta nel fatto che, essendo il romanzo di un equilibrio esemplare, di una bellezza sobria, di un'eleganza asciutta, non vorrei che troppe parole e/o eccessivamente enfatiche gli rendessero un cattivo servigio. Non è mia intenzione, infatti, complicare una storia e una scrittura che hanno nella semplicità il proprio punto di forza e di pregio,  "sovrastrutturandole" inutilmente -per il piacere narcisistico del commentatore  logorroico-  con giudizi sovrabbondanti.  Mi rendo conto, tuttavia, che anche la laconicità ha i suoi rischi, quindi converà aggiungere qualche ulteriore indizio al generico:-" Leggetelo!" per essere più incisiva nell'invito alla lettura.

Protagonista del romanzo è Matteo Zevi, che, dopo la morte dell'usuraio al quale deve dei soldi, può finalmente tornare a Roma, lasciando il suoi rifugio di Los Angeles.  Ad attenderlo la moglie Federica e i figli  Giorgio e Martina, che gli riserveranno accoglienze molto differenti. Il piacere del ritorno dovrà misurarsi quindi con la gestione delle differenti personalità  e degli umori dei tre, ciascuno impegnato, con modalità ed esiti diversi, ad affrontare le proprie difficoltà  esistenziali. Sullo sfondo la Roma dei salotti borghesi in odor di decadenza, le radici ebraiche famigliari, i tentativi di omologazione e di rottura con i clichè del caso nello  sforzo perenne verso la felicità, e infine l'irruzione inaspettata della storia, quella con la S maiuscola.
 Alessandro Piperno dà prova di essere un grande scrittore, mantenendo la narrazione  entro i binari di una linearità che non esito a definire ristoratrice per il lettore spesso frastornato dalla prosa di romanzi dove tutto è "gridato", sospettato di essere esageratamente e insopportabilmente finto. I conflitti personali e interpersonali dei protagonisti di Piperno sono pressanti, dilanianti. Rubano loro il sonno, complicano loro l'esistenza eppure la penna dell'autore riesce a "tenerli calmi", a farli tornare  sempre alla ragione dopo ogni "sragionamento" senza ricorrere -o meglio- incorrere in un campionario di frasi sensazionali, alla ricerca spudorata dell'effetto.
Quanto al messaggio, Piperno pare voler dire che  la storia non finisce quando sembra finire perchè l'uomo trova sempre il modo di gestire sè stesso, a dispetto della storia stessa. 
Mi permetto, come ultima notazione, senza alcun intento di esprimere il mio favore per  l'uno piuttosto che per l'altro, di segnalare che " Quando la storia finisce" ha degli elementi in comune con "Eccomi" di  Jonathan Safran Foer : i conflitti coniugali dei protagonisti, il rapporto con l'ebraismo, perfino un dettaglio del finale a sorpresa, simile in entrambi i romanzi.  E' interessante constatare come  la mano di un autore plasmi la stessa materia su cui lavora anche un altro  giungendo ad esiti così diversi. La possibilità di fare rilievi simili resta poi uno dei tanti piaceri della lettura.


  


giovedì 24 novembre 2016

"La paranza dei bambini" di Roberto Saviano

Ho concluso la lettura del nuovo libro di Saviano " La paranza dei bambini", edito da Feltrinelli, da qualche giorno.
Contravvenendo alla consuetudine di chiacchierarne a caldo, ho preferito lasciare decantare le mie impressioni per un po'. Scriverne è, infatti, impresa ardimentosa, come spesso  risulta il manifestare le proprie opinioni su cose venute al mondo già con fama di leggenda. Sempre rischioso fare le pulci ad un libro predestinato ad essere best seller. Perfino audace, sotto certi aspetti, la scelta di commentare il romanzo di un autore percepito dal pubblico più che come scrittore come personaggio, divo amato o odiato tout court, e che per tanto induce  sostenitori e  detrattori a guardarsi con reciproca acrimonia.

Come procedere allora per dissipare dubbi di malafede e scongiurare accuse di malevolenza? Affidarsi alla solita premessa:
1) che il mio non sarà mai uno "sconsiglio di lettura", poichè, in ogni caso e con ostinazione, consiglio sempre di leggere i libri, anche quelli -e non è questo il caso- meno riusciti.
2) che, per un lettore serio e coscienzioso, imperativo è dimenticarsi dell'autore, lasciar perdere i "personalismi" per immergersi nel testo avendo unicamente riguardo a ciò che è scritto.
3) che naturalmente si tratta sempre di impressioni personali da cui ciascuno liberamente e a pieno titolo potrà dissentire.
Siedo davanti alla tastiera avendo in mente il lusinghiero giudizio di Asor Rosa
(http://www.repubblica.it/cultura/2016/11/11/news/saviano_la_paranza_dei_bambini-151778437/) e con il mio malloppo di appunti accanto.
Decido di profanare il foglio di world con la prima riflessione che mi viene di getto, la prima cosa che con urgenza sento di dover mettere nero su bianco: “La paranza dei bambini" è un romanzo che, sotto il profilo narrativo, funziona e alla grande. Saviano ha fatto un gran bel lavoro. Ha realizzato, cioè, alla lettera quello che chiedo ad ogni buon romanziere: afferrarmi per la collottola, trascinarmi nella storia, tenermi in apnea con la capa sotto l'acqua, rubarmi il sonno, costringendomi a tirare fino quasi all'alba per scoprire "come va a finire il fatto".
Eppure.
Eppure, con il timore reverenziale mirabilmente sintetizzato nella famosa: la mia" faccia sotto i suoi piedi, senza chiedere  nemmeno di sfar fermo", dovuto ad Asor Rosa, mi permetto di notare che questa partita -per me- non si gioca ne' sulla perfezione dei meccanismi narrativi, ne' sulla sapienza con cui viene commisto l'italiano con il dialetto napoletano, ne' su quanto il romanzo stia "sul pezzo" riguardo al tema di scottante attualità, ne'  tanto meno  sulla simpatia o antipatia per l'autore.
Intendo dire che , al di là di ogni analisi testuale e giudizio di merito, personalmente mi arrovella  il quesito sulle finalità di un romanzo che mi ha precipitato in una disturbante e straniante dimensione diabolica.
I personaggi della storia sono bambini talmente perduti che sulla loro salvezza o redenzione non è dato farsi illusioni. L'unico esito che mi sono ritrovata, non già ad immaginare, bensì a desiderare fortemente è stato la loro morte violenta, detestandomi per questo.
Se è vero che, diversamente a quanto accade nel mondo della finzione cinematografica dove, grazie al filtro oggettivo dello schermo dinanzi al quale si siede, non si realizza mai una compenetrazione totalizzante tra chi guarda e chi recita, nel mondo dei libri invece l'elemento di massima fascinazione consiste proprio nella possibilità di immedesimazione assoluta del lettore -sprofondato nelle pagine dimentico di sé- con il personaggio scritto, allora, sciogliere il nodo sugli intenti dello scrittore è determinante per formulare il giudizio definitivo sul gradimento del libro.
E' necessario quindi il  riferimento a "Gomorra la serie" : là Saviano ci fa vedere, per la prima volta, una porzione di mondo sconosciuta a molti. Qui, nel romanzo, entra di nuovo in quello stesso universo attraverso la porta maestra della coscienza negata di un bambino diabolico, ingiustificabile per nessuna delle scelte che compie. Il  giovane protagonista, Maraja, è reso come  un novello Achille, schiavo consenziente del fato, che aspira non già alla ricchezza ma alla gloria. Ma a che scopo non contrapporgli  ne' un Dio ne' un Ettore, a riscattare un frammento, una possibilità di bene? A che scopo instillare il dubbio, come sembra fare Saviano, che la delinquenza camorristica sia percorso di vita che attinge trasversalmente nel tessuto sociale? A che scopo prospettare un unico inesorabile epilogo, rinunciando a ogni  tentativo di spiegazione sociologica o psicologica?
"La paranza" resta un romanzo avvincente, ma paradossalmente, se si pensa al ruolo di divulgatore, moralizzatore e anche di maestro assunto da Saviano presso " la paranza" di giovani fans -
grande il successo ottenuto  ad "Amici di Maria De Filippi" negli anni scorsi e folta la presenza di ragazzi alla presentazione del libro al rione Sanità-  in merito all'argomento che fa da sfondo e da molla alla vicenda, scarsamente arricchente, quasi deludente. 

sabato 12 novembre 2016

" Scherzetto" di Domenico Starnone

Nel mese di ottobre, mentre fuori rinfocolava la discussione sulla identità di Elena Ferrante a causa dell’inchiesta di Claudio Gatti per il “Sole 24 ore”, Domenico Starnone (del quale si era indagato anche il conto corrente bancario)  “usciva in libreria” con  lo “Scherzetto”(titolo quasi maliziosamente allusivo), Einaudi editore.
Starnone, che ha all’attivo un Premio Strega, vinto con “Via Gemito” nel 2001, è uno dei migliori scrittori italiani contemporanei e con questo libro conferma l’ottima reputazione di cui gode.
Il soggetto del romanzo è semplice: un nonno ormai anziano, artista di una certa fama da decenni trapiantato a Milano, nonostante sia convalescente da una recente malattia, è richiamato dalla figlia a Napoli, luogo natale, per badare al nipotino di pochi anni  durante l’assenza di entrambe i genitori, costretti fuori città da un impegno di lavoro. Tra le pareti della vecchia casa d’infanzia, ereditata dalla figlia, Daniele Mallarico, il protagonista della storia, dovrà tenere a bada contemporaneamente Mario, l’arguto e vivace nipotino, i fantasmi di famiglia che riprendono vita dalle antiche stanze, nonché la duplice ombra del sé stesso giovane, riemerso  prepotente dai ricordi  e di quello vecchio, con il quale non sembra aver ancora del tutto familiarizzato.   
La linearità della trama di questo “ scherzetto” si armonizza perfettamente con la complessità caratteriale dei due protagonisti, dei quali Starnone, con una scrittura che rimane leggera e agevole, gradevole e fluida anche quando l’indagine introspettiva si fa puntigliosa –quasi fastidiosa per il limite a cui si spinge-  realizza  ritratti  del tutto verosimili. 
La contrapposizione che porta nonno e nipote a brevi ma continue scaramucce, a momenti di collera reciproca anche di grande intensità  con i quali si concludono le  -in verità brevi - parentesi di gioco, è molto di più di uno scontro generazionale.  Non è semplicemente la saggezza dell’anziano che tiene testa alla saccenza ingenua del bambino.  Ciascuno a suo modo e con aspettative diverse, i due sentono di avere un conto aperto con il tempo che li rende però similmente tracotanti e impazienti. Entrambi lottano con le fragilità legate alle rispettive età.  Il nonno prende coscienza che il tempo continua a eroderlo, sottraendogli pezzi di sé, dalla posizione sociale, a quella lavorativa, alla forza fisica, divenendo umbratile.  Il nipote al contrario sa che con l’alleanza del tempo diventerà  quello che ora talvolta finge di essere nei  giochi di bimbo, facendosi sfrontato e capriccioso.
Sullo sfondo il dubbio, il flebilissimo dubbio, che Daniele Mallarico , il quale ostinatamente ascrive i difetti caratteriali di Mario ad un’ odiosa eredità paterna, tema  che quel bimbo, da un insolito e precocissimo talento, sia invece la sua naturale nemesi

giovedì 10 novembre 2016

" Lo schiavista" di Paul Beatty"

      
Premessa:
Talvolta, come ebbe a dire Flaiano, “ la linea più breve tra due punti è l'arabesco”. E’ questo uno di quei casi, laddove, prima di giungere al consiglio di non lasciarsi scappare un libro molto, molto piacevole, ho ritenuto importante aprire una parentesi sulla letteratura afroamericana. L’esito è un pezzo insolitamente lungo, che spero non scoraggi i lettori.

The Sellout ”, dello statunitense Paul Beatty, ha vinto l’edizione 2016 del prestigioso premio letterario britannico “Man Booker Prize”.
In Italia il libro, intitolato “Lo Schiavista”, tradotto da Silvia Castoldi, è uscito il 6 Ottobre per Fazi Editore .
Amanda Foreman
, presidente di giuria, a proposito dei sei candidati alla vittoria aveva dichiarato che essi riflettono “ciò che è centrale nel romanzo moderno – la sua capacità di difendere ciò che non è convenzionale, di esplorare l’ignoto e di affrontare tematiche spinose”.

Ho considerato tali parole come un suggerimento circa gli elementi di cui tenere conto, tra gli altri, durante la lettura. Ho ritenuto, cioè, imperativo valutare se “ Lo Schiavista” rispetti i parametri della scelta per poi riferire quanto di non convenzionale, di nuovo, di spinoso effettivamente contenga.
Inverto per comodità la terna e comincio da quell’ultimo “spinoso”.
Paul Beatty, classe 1962 è uno scrittore di colore che affronta - qui, come in tutta la sua precedente produzione fatta di poetry slam (poesia orale), romanzi e racconti-  il tema razziale, ancora oggi tra i più spinosi per la letteratura americana.
L’opportunità di dare voce ai problemi dei neri ma soprattutto la necessità di stabilire se abbiano titolo a scriverne solo gli autori di colore o anche quelli bianchi, sono, infatti, argomenti molto discussi. Interessante, a tal proposito, la voce di  Jonathan Franzen:- “
Ho pensato di farlo ma non ho molti amici neri. Non sono mai stato innamorato di una nera. Scrivo di personaggi, e per scriverne devo amarli. Se non hai mai amato direttamente una categoria di persone –una persona di un’altra razza, o una profondamente religiosa– penso sia molto difficile azzardarsi, o inevitabilmente anche aspirare, a scrivere dal loro punto di vista.
L’autore de “ Le correzioni” sembrerebbe in perfetta linea con le  due posizioni  assunte a capisaldi della diatriba, sintetizzabili con l’idea di ascrivere alla “letteratura afroamericana” una prerogativa politica non accollata a quella bianca, alla quale invece compete  
registrare il presente per uno spirito di esplorazione, generosità, curiosità, audacia, compassione, ma non di dibattito, ne’ critica” (così Lionel Shriver), e di sconsigliare “agli scrittori bianchi” certi argomenti  più consoni ai colleghi afroamericani, per evitare -dato l’attuale popolarità dei temi razziali- l’accusa di ricercare solo il successo.  
Tentativi di “invasioni di campo” di grande livello letterario, tuttavia e per nostra fortuna, ci sono. Penso all’ottima prova di Philip Roth ne “ La macchia umana”, dove  Coleman Silk, il protagonista, decide di subire un’ infondata accusa di razzismo pur di preservare l’inconfessabile segreto sulla propria identità, o a quella che valse a J. R. Moehringer  nel 1999 il premio Pulitzer con “Oltre il fiume”, un documento sui neri della Gee’s Bend, piccola comunità di ex schiavi rimasta isolata nell’omonima striscia di terra a ridosso del fiume Alabama.
Così pure non mancano gli esempi di scrittori afroamericani che hanno rivendicato un’autonomia dai temi classici di riferimento, attirandosi perciò il biasimo per aver rinnegato le proprie origini. Obbligatorio citare Everett Percival il quale ha replicato alle critiche rilevando che“ essere neri non significa scrivere  solamente di segregazione e schiavitù. Così come non scriverne non significa essere a favore della segregazione e della schiavitù”. Gli scrittori possono “semplicemente essere attivisti silenziosi, coscienziosi romanzieri”.
Paul Beatty si inserisce, con “ Lo schiavista”, meritatamente tra gli scrittori del calibro di Toni Morrison (Prima afroamericana insignita del Nobel),  Alice Walker ( autrice de “il colore viola”), Maya Angelou ,  Jamaica Kincaid, che hanno fatto grande la letteratura “afroamericana”.   Altrettanto meritatamente si è aggiudicato il “Man Booker Prize” per aver scritto un libro non convenzionale con riguardo alla trama, al genere, nonché alla lingua, che gli hanno consentito di affrontare in maniera avvincente, attraverso prospettive inesplorate, lo spinoso  tema razziale.
Protagonista del romanzo è “Bonbon”, uomo di colore della piccola borghesia, che vive a Dickens, sobborgo della periferia di Los Angeles. Allevato da un padre single, studioso di scienze sociali, che lo usa come cavia per sperimentare le proprie teorie sociologiche sulla razza, dopo l’omicidio del genitore per mano della polizia,  sembra prendere coscienza delle tribolazioni della razza nera  e si sente pronto “ a realizzare qualcosa nella vita” . Quasi che il cadavere del padre gli “dicesse:- Lo vedi, negro, se una cosa del genere può capitare al nero più intelligente del mondo, immagina cosa potrebbe succedere a un deficiente come te. Solo perché il razzismo è morto, non significa che non sparino più ai neri a vista”.
Insieme  a Hominy Jenkins, vecchio attore di colore, un tempo tra i protagonisti de “ Le Simpatiche Canaglie”   autoproclamatosi suo schiavo, reintroduce  la segregazione razziale nel ghetto per spronare i neri a ricompattarsi e a rivendicare il proprio ruolo sociale. L’ avventura si concluderà  davanti alla Corte Suprema, punto a partire dal quale comincia la narrazione. 
La condizione dei negri in America è simile ad un disagio cronico.
La scelta dell’autore di affrontare l’argomento affidandolo alla satira, escogitando una soluzione paradossale che origina situazioni di grande comicità, fa de “ Lo Schiavista” un libro che si legge spedito e con la risata, sempre a fior di labbra, pronta a prorompere. Beatty è quello che si definisce un uomo colto, che conosce il latino:spassosissime sono le pagine sui motti tatuati nell’ antica lingua.  Apprezzabile che non ricorra ne’ ad un linguaggio eccessivamente aulico, ne’ alla finzione del gergo come capita ai negri che tra loro “parlano in gergo, con la pronuncia del ghetto e quando” vanno “invece in televisione sembrano Kelsey Grammer con il bastone nel culo”. L’uso della lingua è sapiente: vi si mescolano il parlato, il forbito, il gergale, perfino lo scurrile con un risultato di verosimiglianza e autenticità da cui il romanzo trae grande vantaggio . Che cosa dire poi delle metafore? Originalissime, divertenti e contemporaneamente efficacissime.
“ Lo Schiavista”  è decisamente un romanzo piacevole, irriverente, divertente, profondo: in una parola, imperdibile.
P.S:
Scrivere  de “ Lo schiavista” all’indomani della elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti D’America conferisce alla cosa un  non so che di surreale.  La recensione di un libro non è certo il “luogo” adatto ad analisi politiche e sociologiche, ne’ tantomeno per formulare auspici. Le eccezioni sono però talvolta ammesse.  La genialità di Beatty, oltre al linguaggio e all’ironia di cui si è detto, si concretizza nell’idea “ blasfema” di riproporre la segregazione razziale per infondere negli afroamericani di Dickens l’orgoglio dell’identità etnica, per istillare loro il desiderio di partecipazione, per incoraggiarne le rivendicazioni di equità e uguaglianza. Chissà che  l’ America non tragga dalla rappresentanza di Trump lo stimolo per imboccare la strada verso la definitiva integrazione.

mercoledì 2 novembre 2016

Il pacco di farina e la nonna

Ogni volta che compro un pacco di farina sorrido pensando a mia nonna. Era una donna semplice come il nome che portava: Anna.
Cresciuta durante i duri anni della seconda guerra, quando la vita offriva alle persone pochissime alternative e divenuta madre nel dopoguerra, tempo in cui valevano unicamente le necessità , lei  tradusse entrambi, i bisogni e la mancanza di scelte , in certezze; non saprei dire se per un eccesso di ingenuità o di scaltrezza.
La nonna non conosceva sicuramente Amleto e se gliene avessero parlato avrebbe sorriso dell’interrogativo che egli si poneva, non comprendendone soprattutto la ragione. Piuttosto avrebbe risposto, con risolutezza, che tra essere o non essere si era obbligati unicamente e con tutta evidenza ad essere! Non ha mai avuto dubbi sulla condotta da tenere in ogni contingenza e questo valeva per i sentimenti da provare come per le azioni da compiere.  Ad esempio, se il tempo era incerto, mia nonna assolutamente non lo era sulla necessità di uscire con l’ombrello. Di fronte ad un dolore bisognava piangere, così come in caso felicità si doveva gioire, senza sfumature o zone grigie.

Ho sempre immaginato che  custodisse, nel grosso secretaire dove stipava le cose importanti, compresi gli abiti con i quali un giorno voleva essere sepolta, un libro ereditato dalle sue antenate, costituito da un lungo elenco dei dispiaceri e delle gioie. Mi pareva, infatti, che i moti dell’anima, in lei non fossero generati spontaneamente da un sentimento personale, quanto piuttosto dalle indicazioni contenute in questa sorta di fantomatica  enciclopedia.
Nei momenti di grande pericolo per l’umanità o semplicemente per la nostra nazione, spento il televisore e dopo un breve consulto con la sua vicina e amica fedele, nonna correva a far scorta di generi di prima necessità. Se tornando da scuola trovavo la famiglia intenta alle grandi manovre, senza dubbio, mi preoccupavo e l’intensità della mia ansia dipendeva dalla serietà dei preparativi.
 La guerra fredda imponeva che in casa vi fosse sempre una scorta fissa di pochi chili di farina, ma ogni volta che lo scoppio del conflitto atomico si profilava imminente a causa dell’aprirsi di una nuova crisi internazionale, seppur a migliaia di chilometri lontano da noi,  i pochi chili divenivano decine. Non importava né cosa raccontassero i telegiornali o quali fossero gli umori che captavo origliando i discorsi dei grandi, né le parole che i miei genitori usavano per tranquillizzarmi. Mi fidavo solo di nonna. Temendo il peggio, ho perso il sonno unicamente durante la lunga fase della rivoluzione di Khomeini in Iran, culminata con l’episodio dell’assalto all'Ambasciata americana di Teheran nel novembre 1979. Ricordo che in sala da pranzo, accostata alla parete, in corrispondenza del tavolo posto al centro della stanza, c’era una credenza - il buffet, come lo chiamava lei-. Un giorno, nel periodo in cui alla televisione imperava il volto dell’Ayatollah, rincasando mi colpì che il mobile non si trovasse al solito posto, bensì chiudesse un angolo della stanza a mò d’ipotenusa, creando nel retro un capiente spazio vuoto. Corsi a sbirciare in quello stanzino realizzato in maniera rudimentale e vidi una cosa mai vista in precedenza: un saccone enorme contenente un quintale di farina. Oltre quella volta, negli anni  accaddero altri fatti allarmanti: il rapimento dell’on. Moro, il terremoto del novembre 1980 e l’ attacco missilistico libico contro Lampedusa  , ma  furono tutti episodi “da pochi pacchetti” e mai più rividi il “quintale”.
Ci sono parole, simboli e gesti che non travalicano i confini del proprio tempo, così é stato per l’inconfondibile comportamento di nonna, trascinato via dalla modernità. Ogni lingua si evolve costantemente, sacrificando alcune parole per crearne di altre, mi chiedo spesso quale sia il nuovo, muto vocabolo del mio lessico famigliare attraverso il quale, ora le mie figlie colgono i pericoli dei tempi. In attesa della risposta, mi rifugio nel ricordo di quei lontani giorni, che custodisco tra le immagini più preziose della mia fanciullezza, in cui la dispensa era un’oasi, e quell’oro bianco che la riempiva l’unico antidoto contro la mia ansia di vivere.
La nonna mi manca. Ho nostalgia del sorriso aperto e schietto che le adornava il viso, della luce dei suoi occhi, che mi guardavano con avidità perché ero la sua prima nipote e perché l’avevo resa bisnonna. Mi manca, soprattutto, la sua risolutezza di fronte alla vita e alla storia.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...