mercoledì 2 novembre 2016

Il pacco di farina e la nonna

Ogni volta che compro un pacco di farina sorrido pensando a mia nonna. Era una donna semplice come il nome che portava: Anna.
Cresciuta durante i duri anni della seconda guerra, quando la vita offriva alle persone pochissime alternative e divenuta madre nel dopoguerra, tempo in cui valevano unicamente le necessità , lei  tradusse entrambi, i bisogni e la mancanza di scelte , in certezze; non saprei dire se per un eccesso di ingenuità o di scaltrezza.
La nonna non conosceva sicuramente Amleto e se gliene avessero parlato avrebbe sorriso dell’interrogativo che egli si poneva, non comprendendone soprattutto la ragione. Piuttosto avrebbe risposto, con risolutezza, che tra essere o non essere si era obbligati unicamente e con tutta evidenza ad essere! Non ha mai avuto dubbi sulla condotta da tenere in ogni contingenza e questo valeva per i sentimenti da provare come per le azioni da compiere.  Ad esempio, se il tempo era incerto, mia nonna assolutamente non lo era sulla necessità di uscire con l’ombrello. Di fronte ad un dolore bisognava piangere, così come in caso felicità si doveva gioire, senza sfumature o zone grigie.

Ho sempre immaginato che  custodisse, nel grosso secretaire dove stipava le cose importanti, compresi gli abiti con i quali un giorno voleva essere sepolta, un libro ereditato dalle sue antenate, costituito da un lungo elenco dei dispiaceri e delle gioie. Mi pareva, infatti, che i moti dell’anima, in lei non fossero generati spontaneamente da un sentimento personale, quanto piuttosto dalle indicazioni contenute in questa sorta di fantomatica  enciclopedia.
Nei momenti di grande pericolo per l’umanità o semplicemente per la nostra nazione, spento il televisore e dopo un breve consulto con la sua vicina e amica fedele, nonna correva a far scorta di generi di prima necessità. Se tornando da scuola trovavo la famiglia intenta alle grandi manovre, senza dubbio, mi preoccupavo e l’intensità della mia ansia dipendeva dalla serietà dei preparativi.
 La guerra fredda imponeva che in casa vi fosse sempre una scorta fissa di pochi chili di farina, ma ogni volta che lo scoppio del conflitto atomico si profilava imminente a causa dell’aprirsi di una nuova crisi internazionale, seppur a migliaia di chilometri lontano da noi,  i pochi chili divenivano decine. Non importava né cosa raccontassero i telegiornali o quali fossero gli umori che captavo origliando i discorsi dei grandi, né le parole che i miei genitori usavano per tranquillizzarmi. Mi fidavo solo di nonna. Temendo il peggio, ho perso il sonno unicamente durante la lunga fase della rivoluzione di Khomeini in Iran, culminata con l’episodio dell’assalto all'Ambasciata americana di Teheran nel novembre 1979. Ricordo che in sala da pranzo, accostata alla parete, in corrispondenza del tavolo posto al centro della stanza, c’era una credenza - il buffet, come lo chiamava lei-. Un giorno, nel periodo in cui alla televisione imperava il volto dell’Ayatollah, rincasando mi colpì che il mobile non si trovasse al solito posto, bensì chiudesse un angolo della stanza a mò d’ipotenusa, creando nel retro un capiente spazio vuoto. Corsi a sbirciare in quello stanzino realizzato in maniera rudimentale e vidi una cosa mai vista in precedenza: un saccone enorme contenente un quintale di farina. Oltre quella volta, negli anni  accaddero altri fatti allarmanti: il rapimento dell’on. Moro, il terremoto del novembre 1980 e l’ attacco missilistico libico contro Lampedusa  , ma  furono tutti episodi “da pochi pacchetti” e mai più rividi il “quintale”.
Ci sono parole, simboli e gesti che non travalicano i confini del proprio tempo, così é stato per l’inconfondibile comportamento di nonna, trascinato via dalla modernità. Ogni lingua si evolve costantemente, sacrificando alcune parole per crearne di altre, mi chiedo spesso quale sia il nuovo, muto vocabolo del mio lessico famigliare attraverso il quale, ora le mie figlie colgono i pericoli dei tempi. In attesa della risposta, mi rifugio nel ricordo di quei lontani giorni, che custodisco tra le immagini più preziose della mia fanciullezza, in cui la dispensa era un’oasi, e quell’oro bianco che la riempiva l’unico antidoto contro la mia ansia di vivere.
La nonna mi manca. Ho nostalgia del sorriso aperto e schietto che le adornava il viso, della luce dei suoi occhi, che mi guardavano con avidità perché ero la sua prima nipote e perché l’avevo resa bisnonna. Mi manca, soprattutto, la sua risolutezza di fronte alla vita e alla storia.

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