Per quelle di noi che vivono sul margine
Ritte sull’orlo costante della decisione
Cruciali e sole
Per quelle di noi che non possono lasciarsi andare
Al sogno passeggero della scelta
Che amano sulle soglie mentre vanno e vengono
Nelle ore fra un’alba e l’altra
Guardando dentro e fuori
E prima o poi allo stesso tempo
Cercando un adesso che dia vita
A futuri
Come pane nelle bocche dei nostri figli
Perché i loro sogni non riflettano
La fine dei nostri
Per quelle di noi
Che sono state marchiate dalla paura
Come una ruga leggera al centro delle nostre fronti
Imparando ad aver paura con il latte di nostra madre
Perché con questa arma
Questa illusione di poter essere al sicuro
Quelli dai piedi pesanti speravano di zittirci
Per noi tutte
Questo istante e questo trionfo
Non era previsto che noi sopravvivessimo
E quando il sole sorge abbiamo paura
Che forse non resterà
Quando il sole tramonta abbiamo paura
Che forse non si alzerà domattina
Quando abbiamo la pancia piena abbiamo paura
Dell’indigestione
Quando abbiamo la pancia vuota abbiamo paura
Di non poter mai più mangiare
Quando siamo amate abbiamo paura
Che l’amore svanirà
Quando siamo sole abbiamo paura
Che l’amore non tornerà
E quando parliamo abbiamo paura
Che le nostre parole non verranno udite
O ben accolte
Ma quando stiamo zitte
Anche allora abbiamo paura
Perciò è meglio parlare
Ricordando
Che non era previsto che noi sopravvivessimo
giovedì 29 novembre 2018
martedì 27 novembre 2018
E' tutto qui, tutto si riduce al corpo di Diane Lockward
E' tutto qui, tutto si riduce al corpo,
mi manca il suo volto, la sua voce, la sua pelle.
Immagino mia figlia mentre balla a Madrid, Barcellona
e Siviglia. La vedo scalare le montagne dell'Andalusia.
Non avevo immaginato quanto sarebbe stato lontano il lontano.
Felicità e infelicità sono la stessa cosa,
sostiene il mio soave maestro zen:
e allora mi chiedo se la mia testa
stia sostenendo il cielo, o se è un'emicrania
quella che sale.
Allora, giro in tondo, torno al luogo dove esattezza e
estasi si incontrano, allora ricordo come ho portato in me il girino
del suo corpo, molto prima del primo fremito, trattenendola
come un segreto dentro di me.
Mi sveglio la notte perchè mi manca
una parte del corpo, il braccio si tende attraverso l'oceano,
agganciato al passato, e mi chiedo,
come la madre di Achille deve aver fatto,
Quale parte di te non ho tuffato in acqua?
Appesantita dall'assenza, appendo le tende alle sue finestre,
metri e metri di delicato pizzo irlandese .
Mi nascondo dietro la porta, pressando l'orecchio al legno,
e osservo la sua corsa serale, spio la vita di mia figlia.
le sue cene notturne a Saragozza.
La stanza si riempie del profumo di gazpacho, di paella, di sangria.
Qualcosa simile al dolore cola dentro di me, qualcosa simile alla gioia.
Mi infilo tra le onde, mi perdo nella risacca,
il mio folletto d'acqua, la mia ninfa marina, ricordo il modo
in cui scivola attraverso la stanza, la bassa marea
della sua voce. Il modo in cui ci lascia,
senza fiato, come pesci ai suoi piedi.
mi manca il suo volto, la sua voce, la sua pelle.
Immagino mia figlia mentre balla a Madrid, Barcellona
e Siviglia. La vedo scalare le montagne dell'Andalusia.
Non avevo immaginato quanto sarebbe stato lontano il lontano.
Felicità e infelicità sono la stessa cosa,
sostiene il mio soave maestro zen:
e allora mi chiedo se la mia testa
stia sostenendo il cielo, o se è un'emicrania
quella che sale.
Allora, giro in tondo, torno al luogo dove esattezza e
estasi si incontrano, allora ricordo come ho portato in me il girino
del suo corpo, molto prima del primo fremito, trattenendola
come un segreto dentro di me.
Mi sveglio la notte perchè mi manca
una parte del corpo, il braccio si tende attraverso l'oceano,
agganciato al passato, e mi chiedo,
come la madre di Achille deve aver fatto,
Quale parte di te non ho tuffato in acqua?
Appesantita dall'assenza, appendo le tende alle sue finestre,
metri e metri di delicato pizzo irlandese .
Mi nascondo dietro la porta, pressando l'orecchio al legno,
e osservo la sua corsa serale, spio la vita di mia figlia.
le sue cene notturne a Saragozza.
La stanza si riempie del profumo di gazpacho, di paella, di sangria.
Qualcosa simile al dolore cola dentro di me, qualcosa simile alla gioia.
Mi infilo tra le onde, mi perdo nella risacca,
il mio folletto d'acqua, la mia ninfa marina, ricordo il modo
in cui scivola attraverso la stanza, la bassa marea
della sua voce. Il modo in cui ci lascia,
senza fiato, come pesci ai suoi piedi.
domenica 25 novembre 2018
Ritratto di signora
Mi chiamo Giuseppina Esposito, nata a Napoli il 24 giugno del 1952. Per tutti sono Peppina.Ho letto su una rivista del vostro concorso letterario.Non mi sono mai concessa colpi di testa. Considero queste due cartelle che vi invio, il primo, in una intera vita fatta esclusivamente di gesti ragionevoli, necessari e dignitosi.Non sono una scrittrice, non sono al di sotto dei trent'anni, non aspiro a vincere la vostra borsa di studio. Ciascuno dei requisiti da voi indicati escluderebbe la mia partecipazione, eccetto quello principale: richiedete un “Ritratto di signora”. Io il ritratto ce l’ho: è il mio e ve lo invio, con la speranza che possa essere utile a qualcuno.Sono una signora di sessantuno anni, non di quelle belle, brune, con i capelli sempre a posto e le unghie curate, che hanno realizzato nella loro esistenza la maggior parte delle cose che si erano proposte da giovani. Il colore castano dei miei capelli, tagliati in un caschetto facile da gestire, è frutto delle tinture che mi ingegno a fare in casa da me per coprire i capelli bianchi. Le mie unghie sono semplicemente rese più lucide da una sola , sbrigativa, passata di smalto trasparente anche quella opera mia.
Sono alta poco più di un metro e mezzo. Posseggo il fisico ordinario di chi non si è mai potuta concedere nulla di più delle creme anticellulite a buon mercato dei grandi magazzini. Delle diete fai da te costituite essenzialmente da digiuni lette sulle riviste femminili. Di lunghe camminate sotto il peso grave delle buste della spesa, nell'illusione che sostituiscano la palestra, che per una questione di soldi non mi sono mai potuta permettere.Il mio aspetto è quello ordinato e composto della madre di famiglia attenta alle apparenze. Fingo una “finezza”che non posseggo per nascita e spero che l’occhio altrui non colga la fatica di comporre, con estenuanti giri tra i banchi del mercato, un abbigliamento distinto e decoroso, versione economica di quella idea di lusso rubata alle vetrine dei ricchi.Il mio papà era un mite artigiano. La mia mamma una donna volitiva e a suo modo ambiziosa. Voleva fornire alla figlia, oltre alla dote classica di gioielli, masserizie e biancheria, anche un titolo di studio che ne accrescessero il valore , rendendola un partito migliore delle altre concorrenti agli occhi di eventuali candidati al matrimonio. Mi fecero studiare da segretaria alla scuola di avviamento professionale. Non erano grandi studi, - lo so bene-, ma certamente quella uscita di casa, negli anni 60, rappresentava una rivoluzione per una ragazza nella mia condizione sociale. Anche il passo seguente fu considerato estremamente moderno: al termine dei tre anni pretesi di andare a lavorare. Me lo concessero a condizioni che – ora mi rendo conto- erano tutte sbagliate e inammissibili, ma che io accettai. Acconsentii che fosse un impiego “part time”,-come si dice oggi-, in un luogo vicino casa , dove le colleghe fossero tutte donne e soprattutto che quest’avventura si concludesse alla vigilia di un eventuale matrimonio. Per me non finire in un laboratorio di sartoria o tra apprendiste ricamatrici, -il destino di tutte le mie coetanee- era comunque una conquista, e non mi opposi.
Perché dovrebbe interessarvi il mio ritratto monocromatico e piatto, privo del tutto di talento artistico, così scialbo e usuale?Perché le soffitte sono colme di tele dove il volto della sofferenza ha le sembianze moderate e disciplinate della normalità , ed è forse giunto il momento che questi visi vengano alla luce . Il buon partito arrivò, come sperava mamma. La differenza di età che c’era tra noi non mi impedì di innamorarmi di lui. Era bello, distinto, aveva modi compiti e mi corteggiava molto rispettosamente.
Gestiva insieme alla madre una merceria che avrebbe ereditato “a babbo morto”, come si usava dire allora.Ne rimanemmo entrambe affascinate, la mamma ed io. Nel turbinio emozionale dei 17 anni regalai senza riserve il mio cuore, carico dei sogni e delle ambizioni di ragazza moderna, a quel giovanotto. Lo stesso fece mia madre, che aprì il suo, senza che alcun dubbio la sfiorasse, per accogliere colui che incarnava i suoi desideri: un bravo marito per l’amata figlia, benestante e di buona famiglia. L’unico che colse gli indizi della brutalità, tenuta a bada con maestria dietro quell'apparenza pacata e bonaria, fu il mio papà, nella sua mitezza. Proprio mio padre orfano di madre dalla nascita, a cui dunque nessuno aveva insegnato il dogma della superiorità maschile e che quindi si era affidato pacatamente (non da debole, bensì da pari) alla moglie, colse la rozzezza del mio futuro marito, tanto da propormi, mentre attraversavamo insieme la navata verso l’altare nel giorno delle nozze, di tornare a casa con lui. Il ritratto di signora che vi porgo, il mio , è un puzzle composto da un numero incalcolabile di bugie. Invenzioni a cui sono ricorsa per costruire la rispettabile facciata di una vita normale.Una menzogna, il ripetere che mi bastasse essere “solo sangue prestato” –come sentenziava mia suocera- allo scopo di dare a mio marito dei figli, perpetuare il cognome di famiglia.Una menzogna, l’ accogliere i suoi rimproveri e sopportare i suoi insulti, considerandoli meritati.Una menzogna, il ritenere che i soldi contati al centesimo, che lui mi concedeva, fossero sufficienti, mentre lottavo per far quadrare i conti e sfamare i figli.Una menzogna, il ribadire che fossi felice di essere seduta al tavolo insieme ai miei bambini, mentre ogni giorno sognavo di essere altrove.Una menzogna, il rifugiarmi nell'illusorio piccolo orgoglio di saper dattilografare, stenografare, far computi di ragioneria, per consolarmi di un' esistenza così sofferta, e sostenere il paragone con quelle evidentemente più serene delle amiche mie.Una menzogna, il convincermi di non aver voglia di parlare a mia madre, cercando di ignorare il lucchetto inserito nel disco dei numeri, che mi impediva di telefonarle .Una menzogna, infine, il negare che desiderassi ascoltare parole d’amore, mentre lui mi parlava con l’unico linguaggio che conoscesse: mani pesanti e dure che mi schiaffeggiavano il viso, l’ orgoglio, l’ animo.Ancora oggi, a distanza di 10 anni dalla morte di mio marito, causata da un infarto che lo stecchì sul colpo, lasciandogli una metà del corpo cupa e livida, quasi che la sua anima cattiva si fosse finalmente palesata, io mi ostino a fingere di essere stata felice con lui, di essere stata una moglie come le altre, di essere stata una donna, come le altre.
Sono alta poco più di un metro e mezzo. Posseggo il fisico ordinario di chi non si è mai potuta concedere nulla di più delle creme anticellulite a buon mercato dei grandi magazzini. Delle diete fai da te costituite essenzialmente da digiuni lette sulle riviste femminili. Di lunghe camminate sotto il peso grave delle buste della spesa, nell'illusione che sostituiscano la palestra, che per una questione di soldi non mi sono mai potuta permettere.Il mio aspetto è quello ordinato e composto della madre di famiglia attenta alle apparenze. Fingo una “finezza”che non posseggo per nascita e spero che l’occhio altrui non colga la fatica di comporre, con estenuanti giri tra i banchi del mercato, un abbigliamento distinto e decoroso, versione economica di quella idea di lusso rubata alle vetrine dei ricchi.Il mio papà era un mite artigiano. La mia mamma una donna volitiva e a suo modo ambiziosa. Voleva fornire alla figlia, oltre alla dote classica di gioielli, masserizie e biancheria, anche un titolo di studio che ne accrescessero il valore , rendendola un partito migliore delle altre concorrenti agli occhi di eventuali candidati al matrimonio. Mi fecero studiare da segretaria alla scuola di avviamento professionale. Non erano grandi studi, - lo so bene-, ma certamente quella uscita di casa, negli anni 60, rappresentava una rivoluzione per una ragazza nella mia condizione sociale. Anche il passo seguente fu considerato estremamente moderno: al termine dei tre anni pretesi di andare a lavorare. Me lo concessero a condizioni che – ora mi rendo conto- erano tutte sbagliate e inammissibili, ma che io accettai. Acconsentii che fosse un impiego “part time”,-come si dice oggi-, in un luogo vicino casa , dove le colleghe fossero tutte donne e soprattutto che quest’avventura si concludesse alla vigilia di un eventuale matrimonio. Per me non finire in un laboratorio di sartoria o tra apprendiste ricamatrici, -il destino di tutte le mie coetanee- era comunque una conquista, e non mi opposi.
Perché dovrebbe interessarvi il mio ritratto monocromatico e piatto, privo del tutto di talento artistico, così scialbo e usuale?Perché le soffitte sono colme di tele dove il volto della sofferenza ha le sembianze moderate e disciplinate della normalità , ed è forse giunto il momento che questi visi vengano alla luce . Il buon partito arrivò, come sperava mamma. La differenza di età che c’era tra noi non mi impedì di innamorarmi di lui. Era bello, distinto, aveva modi compiti e mi corteggiava molto rispettosamente.
Gestiva insieme alla madre una merceria che avrebbe ereditato “a babbo morto”, come si usava dire allora.Ne rimanemmo entrambe affascinate, la mamma ed io. Nel turbinio emozionale dei 17 anni regalai senza riserve il mio cuore, carico dei sogni e delle ambizioni di ragazza moderna, a quel giovanotto. Lo stesso fece mia madre, che aprì il suo, senza che alcun dubbio la sfiorasse, per accogliere colui che incarnava i suoi desideri: un bravo marito per l’amata figlia, benestante e di buona famiglia. L’unico che colse gli indizi della brutalità, tenuta a bada con maestria dietro quell'apparenza pacata e bonaria, fu il mio papà, nella sua mitezza. Proprio mio padre orfano di madre dalla nascita, a cui dunque nessuno aveva insegnato il dogma della superiorità maschile e che quindi si era affidato pacatamente (non da debole, bensì da pari) alla moglie, colse la rozzezza del mio futuro marito, tanto da propormi, mentre attraversavamo insieme la navata verso l’altare nel giorno delle nozze, di tornare a casa con lui. Il ritratto di signora che vi porgo, il mio , è un puzzle composto da un numero incalcolabile di bugie. Invenzioni a cui sono ricorsa per costruire la rispettabile facciata di una vita normale.Una menzogna, il ripetere che mi bastasse essere “solo sangue prestato” –come sentenziava mia suocera- allo scopo di dare a mio marito dei figli, perpetuare il cognome di famiglia.Una menzogna, l’ accogliere i suoi rimproveri e sopportare i suoi insulti, considerandoli meritati.Una menzogna, il ritenere che i soldi contati al centesimo, che lui mi concedeva, fossero sufficienti, mentre lottavo per far quadrare i conti e sfamare i figli.Una menzogna, il ribadire che fossi felice di essere seduta al tavolo insieme ai miei bambini, mentre ogni giorno sognavo di essere altrove.Una menzogna, il rifugiarmi nell'illusorio piccolo orgoglio di saper dattilografare, stenografare, far computi di ragioneria, per consolarmi di un' esistenza così sofferta, e sostenere il paragone con quelle evidentemente più serene delle amiche mie.Una menzogna, il convincermi di non aver voglia di parlare a mia madre, cercando di ignorare il lucchetto inserito nel disco dei numeri, che mi impediva di telefonarle .Una menzogna, infine, il negare che desiderassi ascoltare parole d’amore, mentre lui mi parlava con l’unico linguaggio che conoscesse: mani pesanti e dure che mi schiaffeggiavano il viso, l’ orgoglio, l’ animo.Ancora oggi, a distanza di 10 anni dalla morte di mio marito, causata da un infarto che lo stecchì sul colpo, lasciandogli una metà del corpo cupa e livida, quasi che la sua anima cattiva si fosse finalmente palesata, io mi ostino a fingere di essere stata felice con lui, di essere stata una moglie come le altre, di essere stata una donna, come le altre.
sabato 24 novembre 2018
L’ultima notte di Willie Jones
Questo consiglio è apparso su LuciaLibri, giornale online di approfondimenti culturali legati al mondo letterario ed editoriale.
New Iberia, Louisiana, anno del Signore 1943. Dopo otto mesi di carcere il diciottenne di colore Willie Jones è al suo ultimo giorno di pena. Accusato da un uomo bianco di averne stuprato la figlia, suicidatasi poi per timore dello scandalo, alla mezzanotte andrà sulla sedia elettrica. Questa la sintesi de L’ultima notte di Willie Jones (302 pagine, 18 euro), tradotto da Silvia Rota Sperti, titolo originale The Mercy Seat, con cui l’editore Solferino introduce ai lettori italiani Elizabeth Winthorp.
Ispirandosi alle storie di Willie McGee e Willie Francis, entrambi di colore, giustiziati negli anni cinquanta sulla Feroce Gertie, la sedia elettrica su cui sono morte ottantasette persone, Elizabeth Winthorp intinge la penna nel calamaio d’inchiostro corvino e vischioso dell’odio razziale e dei linciaggi, per scrivere dell’America rurale dove essere di colore costituiva colpa indelebile e la sanzione capitale presupposto non negoziabile della giustizia legale. Ci regala, souvenir del viaggio a ritroso nel tempo, un romanzo sostanzioso, complesso, attuale, nel quale è tratteggiato, con impressionante forza evocativa, il clima che ristagna laddove allignino intolleranza razziale e giustizialismo. Un romanzo che, per il forte valore simbolico, meriterebbe di essere letto dalle scolaresche, suonando come un monito contro la seduzione di quelle brutali convinzioni tornate purtroppo a far proseliti. La Mercy Seat del titolo originario e Willie Jones di quello italiano, pur essendo, in quanto protagonisti, all’apice dell’architettura narrativa del libro, non possono dare voce alla propria storia, per la ragione oggettiva di consistere in un ammasso di legno e cavi elettrici la sedia, e per essere in uno stato di sospesa incredulità il condannato. Viene loro in soccorso un originale tessuto connettivo di ottanta sezioni, in cui sette uomini bianchi e due di colore danno corpo alla cronaca dei fatti e alla descrizione del clima generale al margine dell’evento. Una pianificazione strutturale felice, che agendo come una centrifuga, separa il tema politico, elemento solido del romanzo, dall’altro, liquido, attinente alla sfera dei sentimenti. Winthorp carica, in questo modo, le questioni sociali sulle spalle della Feroce Gertie e di Wille, strumento e vittima dell’iniquo sistema penale, per cristallizzarne l’empietà e il dolore in un monolite che schiacci il lettore. Al contrario, frammenta le emozioni tra i vari personaggi affinché, trasformate in un caleidoscopio, investano e trapassino chi legge con ognuna delle loro possibili sfumature.
«L’affluire dei sentimenti non è quello specchio d’acqua uniforme» dice, in Elvira di Brigitte Jaques, Jouvet istruendo l’allieva. «È proprio in quest’affluire (…) che c’è il ribollire della sensibilità». Dubito che Winthorp avesse presente tali parole mentre scriveva, ma mi pare che, seppur inconsapevolmente, le abbia attuate attraverso la sua composizione. La disperazione per il figlio in guerra della coppia che aiuta il padre di Willie a trasportarne la lapide. La caparbia ostinazione dell’anziano genitore di tenere fede alla promessa di seppellirlo degnamente. La solitudine del prete al fianco di Willie, che, in preda ad una crisi di vocazione, fronteggia l’antico demone dell’alcolismo. La famiglia del giudice responsabile della sentenza, che soggiace ai ricatti dei razzisti. Infine i razzisti, che attendono di godersi lo spettacolo del diciottenne “fritto” sulla macchina infernale: il coinvolgimento è tale che l’amore, la pietà, l’odio non restano confinate alle pagine. «Recitare è l’arte di smuovere la propria sensibilità per trovare nuove voci, nuove strade, nuovi punti di partenza» – rubo ancora a Jouvet – affinché lo spettatore provi sempre ciò che prova l’attore. Se alla fine di un libro siamo totalmente compenetrati con l’autore vuol dire che la lezione vale anche in letteratura e il romanzo di Elizabeth Winthorp ne costituisce una prova: con L’ultima notte di Willie Jones è riuscita a dare una bella, forte e appassionante interpretazione alle parole
New Iberia, Louisiana, anno del Signore 1943. Dopo otto mesi di carcere il diciottenne di colore Willie Jones è al suo ultimo giorno di pena. Accusato da un uomo bianco di averne stuprato la figlia, suicidatasi poi per timore dello scandalo, alla mezzanotte andrà sulla sedia elettrica. Questa la sintesi de L’ultima notte di Willie Jones (302 pagine, 18 euro), tradotto da Silvia Rota Sperti, titolo originale The Mercy Seat, con cui l’editore Solferino introduce ai lettori italiani Elizabeth Winthorp.
Ispirandosi alle storie di Willie McGee e Willie Francis, entrambi di colore, giustiziati negli anni cinquanta sulla Feroce Gertie, la sedia elettrica su cui sono morte ottantasette persone, Elizabeth Winthorp intinge la penna nel calamaio d’inchiostro corvino e vischioso dell’odio razziale e dei linciaggi, per scrivere dell’America rurale dove essere di colore costituiva colpa indelebile e la sanzione capitale presupposto non negoziabile della giustizia legale. Ci regala, souvenir del viaggio a ritroso nel tempo, un romanzo sostanzioso, complesso, attuale, nel quale è tratteggiato, con impressionante forza evocativa, il clima che ristagna laddove allignino intolleranza razziale e giustizialismo. Un romanzo che, per il forte valore simbolico, meriterebbe di essere letto dalle scolaresche, suonando come un monito contro la seduzione di quelle brutali convinzioni tornate purtroppo a far proseliti. La Mercy Seat del titolo originario e Willie Jones di quello italiano, pur essendo, in quanto protagonisti, all’apice dell’architettura narrativa del libro, non possono dare voce alla propria storia, per la ragione oggettiva di consistere in un ammasso di legno e cavi elettrici la sedia, e per essere in uno stato di sospesa incredulità il condannato. Viene loro in soccorso un originale tessuto connettivo di ottanta sezioni, in cui sette uomini bianchi e due di colore danno corpo alla cronaca dei fatti e alla descrizione del clima generale al margine dell’evento. Una pianificazione strutturale felice, che agendo come una centrifuga, separa il tema politico, elemento solido del romanzo, dall’altro, liquido, attinente alla sfera dei sentimenti. Winthorp carica, in questo modo, le questioni sociali sulle spalle della Feroce Gertie e di Wille, strumento e vittima dell’iniquo sistema penale, per cristallizzarne l’empietà e il dolore in un monolite che schiacci il lettore. Al contrario, frammenta le emozioni tra i vari personaggi affinché, trasformate in un caleidoscopio, investano e trapassino chi legge con ognuna delle loro possibili sfumature.
«L’affluire dei sentimenti non è quello specchio d’acqua uniforme» dice, in Elvira di Brigitte Jaques, Jouvet istruendo l’allieva. «È proprio in quest’affluire (…) che c’è il ribollire della sensibilità». Dubito che Winthorp avesse presente tali parole mentre scriveva, ma mi pare che, seppur inconsapevolmente, le abbia attuate attraverso la sua composizione. La disperazione per il figlio in guerra della coppia che aiuta il padre di Willie a trasportarne la lapide. La caparbia ostinazione dell’anziano genitore di tenere fede alla promessa di seppellirlo degnamente. La solitudine del prete al fianco di Willie, che, in preda ad una crisi di vocazione, fronteggia l’antico demone dell’alcolismo. La famiglia del giudice responsabile della sentenza, che soggiace ai ricatti dei razzisti. Infine i razzisti, che attendono di godersi lo spettacolo del diciottenne “fritto” sulla macchina infernale: il coinvolgimento è tale che l’amore, la pietà, l’odio non restano confinate alle pagine. «Recitare è l’arte di smuovere la propria sensibilità per trovare nuove voci, nuove strade, nuovi punti di partenza» – rubo ancora a Jouvet – affinché lo spettatore provi sempre ciò che prova l’attore. Se alla fine di un libro siamo totalmente compenetrati con l’autore vuol dire che la lezione vale anche in letteratura e il romanzo di Elizabeth Winthorp ne costituisce una prova: con L’ultima notte di Willie Jones è riuscita a dare una bella, forte e appassionante interpretazione alle parole
venerdì 23 novembre 2018
L'importanza della condivisione culturale
In tutta onestà riconosco di essere una persona ordinaria nel pensiero e nelle azioni.
Sono ordinata e diligente. Due caratteristiche da cui discende, quasi come naturale corollario, una terza: l'essere ortodossa.
Tendo ad accettare ciò che mi si impone dall'alto, sia essa legge, norma, regola generale o consuetudine.
Mi sarebbe piaciuto nascere "libera pensatrice". Mi sarebbe piaciuto nascere ribelle. Mi sarebbe piaciuto nascere dotata di autonomo senso critico.
Niente, non mi è capitato nessuno di questi talenti.
Mi considero però fortunata e molto. La mia vita è costellata di incontri con persone che mi hanno insegnato ad essere, con buona approssimazione, "libera pensatrice", ribelle, critica.
Ho avuto insegnanti che con pazienza e passione mi hanno suggerito la necessità di uscire, a volte, fuori dagli schemi, indicandomene la strada e gli strumenti. Ho amici e conoscenti che consapevolmente o inconsapevolmente mi hanno dimostrato che la verità ha tante facce, che il concetto di giusto, di normale, di necessario sono oggetti di revisione costante.
Se fossi rimasta nel mio isolamento culturale, probabilmente avrei inorridito al pensiero del divorzio. Sicuramente lo avrei fatto dinanzi al bacio tra due individui dello stesso sesso. Prima ancora sarei stata razzista, forse classista. Avrei sostenuto che non c'è parità tra uomo e donna.
Per mia fortuna, lo ribadisco ancora, c'è chi mi ha insegnato a pensare, a vedere, a capire.
La cultura rende liberi. . Non smettiamo mai di crederci. E di condividerla.
Sono ordinata e diligente. Due caratteristiche da cui discende, quasi come naturale corollario, una terza: l'essere ortodossa.
Tendo ad accettare ciò che mi si impone dall'alto, sia essa legge, norma, regola generale o consuetudine.
Mi sarebbe piaciuto nascere "libera pensatrice". Mi sarebbe piaciuto nascere ribelle. Mi sarebbe piaciuto nascere dotata di autonomo senso critico.
Niente, non mi è capitato nessuno di questi talenti.
Mi considero però fortunata e molto. La mia vita è costellata di incontri con persone che mi hanno insegnato ad essere, con buona approssimazione, "libera pensatrice", ribelle, critica.
Ho avuto insegnanti che con pazienza e passione mi hanno suggerito la necessità di uscire, a volte, fuori dagli schemi, indicandomene la strada e gli strumenti. Ho amici e conoscenti che consapevolmente o inconsapevolmente mi hanno dimostrato che la verità ha tante facce, che il concetto di giusto, di normale, di necessario sono oggetti di revisione costante.
Se fossi rimasta nel mio isolamento culturale, probabilmente avrei inorridito al pensiero del divorzio. Sicuramente lo avrei fatto dinanzi al bacio tra due individui dello stesso sesso. Prima ancora sarei stata razzista, forse classista. Avrei sostenuto che non c'è parità tra uomo e donna.
Per mia fortuna, lo ribadisco ancora, c'è chi mi ha insegnato a pensare, a vedere, a capire.
La cultura rende liberi. . Non smettiamo mai di crederci. E di condividerla.
martedì 20 novembre 2018
Asso spariglia tutto ( contributo al progetto Criature)
Quello che segue è un mio vecchio racconto confluito nel progetto di scrittura collettiva Criature.
Dopo aver letto e studiato il saggio di M. Fisher " The Weird and the Eeire" pubblicato da Minimum fax, i limiti della mia narrazione mi risultano più evidenti. Mi sono incaponita a dare all'agentività una connotazione che non andava esplicitata. E' che nella mia scrittura io sono il vero elemento weird, sono la porta d'accesso ai due mondi: la narrativa descrittiva classica e quella perturbante. Il punto è che la porta avrebbe bisogno di un buon falegname!
Illustrazione di Alessandra Gioia |
martedì 13 novembre 2018
Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman
Potrei cambiare il titolo della mia rubrica ne " il bipolarismo del consigliere".
Alterno, me ne rendo conto, suggerimenti letterari impegnativi ad altri più leggeri, non disdegnando romanzi di genere o addirittura young adult.
Qualcuno potrebbe accusarmi di avere poco gusto, di non essere strutturata abbastanza da discernere il buono dal cattivo, l'alto dal basso, il che inficerebbe la credibilità dei miei consigli. Piuttosto, credo fermamente che in lettura, rimanere ancorati alle etichette faccia molto, molto male. Lo snobismo letterario, insomma, non è mai bello. Potrebbero sfuggire, per una presa di posizione velleitaria, ottime occasioni. E' il caso di "Eleanor Oliphant sta benissimo" di Gail Honeyman, edito da Garzanti, tradotto da S. Beretta, romanzo che agli occhi di alcuni ha una aprioristica pecca: l'essere stato immediatamente risucchiato dal clamore delle classifiche. Elemento sufficiente per diffidarne, visto che il mainstream è male.
A costo di passare per una banderuola alla mercé del puro piacere della lettura, io ve lo propongo. Una storia pesante come un piombo. Indigeribile se... Se la Honeyman non avesse trovato una chiave narrativa tanto piacevolmente delicata, tanto fresca. Un azzardo naïf che non compromette l'intensità della storia, dei sentimenti e finanche della lezione di vita che si trae dal romanzo. Che abbia vinto, in questi giorni, la prima edizione del premio "Amo questo libro" attribuito dai librai di Giunti al Punto, per i sospettosi costituirà un'aggravante, un motivo ulteriore per saltarlo a piè pari.
Io vi dico provare per credere. Finirà per diventare una strenna Natalizia su cui puntare senza margine di errore.
Alterno, me ne rendo conto, suggerimenti letterari impegnativi ad altri più leggeri, non disdegnando romanzi di genere o addirittura young adult.
Qualcuno potrebbe accusarmi di avere poco gusto, di non essere strutturata abbastanza da discernere il buono dal cattivo, l'alto dal basso, il che inficerebbe la credibilità dei miei consigli. Piuttosto, credo fermamente che in lettura, rimanere ancorati alle etichette faccia molto, molto male. Lo snobismo letterario, insomma, non è mai bello. Potrebbero sfuggire, per una presa di posizione velleitaria, ottime occasioni. E' il caso di "Eleanor Oliphant sta benissimo" di Gail Honeyman, edito da Garzanti, tradotto da S. Beretta, romanzo che agli occhi di alcuni ha una aprioristica pecca: l'essere stato immediatamente risucchiato dal clamore delle classifiche. Elemento sufficiente per diffidarne, visto che il mainstream è male.
A costo di passare per una banderuola alla mercé del puro piacere della lettura, io ve lo propongo. Una storia pesante come un piombo. Indigeribile se... Se la Honeyman non avesse trovato una chiave narrativa tanto piacevolmente delicata, tanto fresca. Un azzardo naïf che non compromette l'intensità della storia, dei sentimenti e finanche della lezione di vita che si trae dal romanzo. Che abbia vinto, in questi giorni, la prima edizione del premio "Amo questo libro" attribuito dai librai di Giunti al Punto, per i sospettosi costituirà un'aggravante, un motivo ulteriore per saltarlo a piè pari.
Io vi dico provare per credere. Finirà per diventare una strenna Natalizia su cui puntare senza margine di errore.
venerdì 9 novembre 2018
L’amore prima della fine del mondo di Jacopo Masini
Come raccontare, senza spoilerare il finale,“L’amore prima della fine del mondo” di Jacopo Masini, Epika Edizioni? Cominciando magari dalla copertina, illustrata da Ombretta Tavano, che già rivela indizi sulla storia. Due giovani amanti. Lui inerme, è immerso in tumultuose onde scure. Lei si sporge a prendergli il volto tra le mani. Lui è relegato, dal grigio tenue di cui è colorato, in una dimensione incorporea. Lei, al contrario, nonostante sembri fluttuare, per via delle tinte decise, ha una consistenza reale. Lui si chiama Vanni Martini ed è il protagonista del romanzo. Lei Alice Bia, ed è la fidanzata. Si sono conosciuti per caso, a Bologna, davanti ad un'edicola della stazione, un giorno in cui i rispettivi treni erano in ritardo.
Perché mai, se il romanzo ripercorre, attraverso i ricordi di Vanni, l’estate in cui stava con Alice, è poi proprio la sua immagine, vale a dire del protagonista, ad essere evanescente? Forse perché ai tempi, il nostro ventisettenne di Parma era una stupida, cocciuta, tonta parvenza di uomo della quale è sopravvissuta quell’ombra grigia che, a più di quindici anni di distanza, quando cioè Masini ne narra, intralcia, con i suoi rimpianti, e lo farà per sempre, l’adulto di oggi.
Prima della fine del mondo Vanni, in attesa del responso di un colloquio di lavoro a Torino, si guadagna da vivere accudendo due “matti” come collaboratore di una cooperativa sociale. Spesso e volentieri va fuori a bere con l’amico di sempre Giacomo, passa a pranzo dalla nonna e soprattutto non si lascia sfuggire l’occasione di tradire Alice, ripetutamente e con due diverse amanti, di cui una è la migliore amica di lei. Stando alla sua filosofia è esente da colpe, dato che non crede nella forza della volontà. “Ogni sentimento, ogni cosa che accade è proprio come una corrente e non possiamo far altro che lasciarci portare senza andare a fondo o andare a sbattere contro una scogliera” e lui si lascia portare. Però poi arriva la fine del mondo a scompigliare le carte, a impedirgli di riparare agli errori, a negargli la possibilità di prendere il timone della sua vita e dirigerla verso il lido da cui si è allontanato, al quale sente ora di appartenere. “Una volta che conosciamo il finale di una storia tragica, siamo sempre tentati di chiedere perché il protagonista non si sia impegnato di più per cambiare il corso del suo destino”, scrive in Asimmetria, Lisa Halliday. Un interrogativo che sembra formulato dal Vanni adulto, perché è quella la radice della sua inguaribile malinconia, il nodo del suo struggimento: non aver impedito che andasse come è andata.
Realismo, equilibrio e originalità sono le parole chiave del romanzo.
Colpi di testa, insoddisfazioni, sbandate, bestemmie, sesso, noia, bevute e infedeltà: Masini lo vuole verace questo suo protagonista, desidera che esprima la sua palpitante giovinezza senza falsificazioni, ne’ censure o patinature e Vanni è infatti realissimo, tanto che, si finisce, senza alcuna difficoltà, a immaginarlo parlare con la caratteristica erre di Parma. Il tutto scandito da un'impeccabile armonia tra leggerezza e drammaticità, tra ironia e serietà, che Masini mantiene con rigore.
In quanto all’originalità, ha a che fare con “la fine del mondo” del titolo.
Elemento narrativo difficilissimo da gestire, che espone al pericolo di paragoni con mostri sacri del calibro di Franzen o Doctorow, ad esempio, che dalla stessa materia hanno tratto romanzi imprescindibili. Masini si è assunto un grandissimo rischio a farne la chiave della sua narrazione, dunque è doveroso riconoscergliene il merito.
Un piccolo romanzo, duecentodieci pagine in tutto, “L’amore prima della fine del mondo” conquista per la semplicità con cui Masini fa irrompere la Storia nella storia di Vanni, e la rende, in qualche modo, un po' più a nostra misura.
Perché mai, se il romanzo ripercorre, attraverso i ricordi di Vanni, l’estate in cui stava con Alice, è poi proprio la sua immagine, vale a dire del protagonista, ad essere evanescente? Forse perché ai tempi, il nostro ventisettenne di Parma era una stupida, cocciuta, tonta parvenza di uomo della quale è sopravvissuta quell’ombra grigia che, a più di quindici anni di distanza, quando cioè Masini ne narra, intralcia, con i suoi rimpianti, e lo farà per sempre, l’adulto di oggi.
Prima della fine del mondo Vanni, in attesa del responso di un colloquio di lavoro a Torino, si guadagna da vivere accudendo due “matti” come collaboratore di una cooperativa sociale. Spesso e volentieri va fuori a bere con l’amico di sempre Giacomo, passa a pranzo dalla nonna e soprattutto non si lascia sfuggire l’occasione di tradire Alice, ripetutamente e con due diverse amanti, di cui una è la migliore amica di lei. Stando alla sua filosofia è esente da colpe, dato che non crede nella forza della volontà. “Ogni sentimento, ogni cosa che accade è proprio come una corrente e non possiamo far altro che lasciarci portare senza andare a fondo o andare a sbattere contro una scogliera” e lui si lascia portare. Però poi arriva la fine del mondo a scompigliare le carte, a impedirgli di riparare agli errori, a negargli la possibilità di prendere il timone della sua vita e dirigerla verso il lido da cui si è allontanato, al quale sente ora di appartenere. “Una volta che conosciamo il finale di una storia tragica, siamo sempre tentati di chiedere perché il protagonista non si sia impegnato di più per cambiare il corso del suo destino”, scrive in Asimmetria, Lisa Halliday. Un interrogativo che sembra formulato dal Vanni adulto, perché è quella la radice della sua inguaribile malinconia, il nodo del suo struggimento: non aver impedito che andasse come è andata.
Realismo, equilibrio e originalità sono le parole chiave del romanzo.
Colpi di testa, insoddisfazioni, sbandate, bestemmie, sesso, noia, bevute e infedeltà: Masini lo vuole verace questo suo protagonista, desidera che esprima la sua palpitante giovinezza senza falsificazioni, ne’ censure o patinature e Vanni è infatti realissimo, tanto che, si finisce, senza alcuna difficoltà, a immaginarlo parlare con la caratteristica erre di Parma. Il tutto scandito da un'impeccabile armonia tra leggerezza e drammaticità, tra ironia e serietà, che Masini mantiene con rigore.
In quanto all’originalità, ha a che fare con “la fine del mondo” del titolo.
Elemento narrativo difficilissimo da gestire, che espone al pericolo di paragoni con mostri sacri del calibro di Franzen o Doctorow, ad esempio, che dalla stessa materia hanno tratto romanzi imprescindibili. Masini si è assunto un grandissimo rischio a farne la chiave della sua narrazione, dunque è doveroso riconoscergliene il merito.
Un piccolo romanzo, duecentodieci pagine in tutto, “L’amore prima della fine del mondo” conquista per la semplicità con cui Masini fa irrompere la Storia nella storia di Vanni, e la rende, in qualche modo, un po' più a nostra misura.
giovedì 8 novembre 2018
il collezionista
Una mattina di inizio autunno, anni fa, feci davvero un insolito incontro. Mi imbattei in una persona decisamente singolare, alla quale ancora oggi mi capita di a volte di ripensare.
Ero da poco tornata nella mia città natale dopo un lungo periodo di vita all’estero.
Dovendo adempiere alle formalità e ai riti amministrativi utili per tornare ad essere, a tutti gli effetti di legge,cittadina napoletana, ogni giorno ero costretta ad ignorare gli scatoloni del recente trasloco che ancora la facevano da padrona in casa e regalare parte del mio tempo alla burocrazia, rimanendo in ostaggio di interminabili file presso gli uffici comunali per ore.
Uscii di casa all'alba nella speranza di battere sul tempo la concorrenza degli altri sventurati con cui avrei condiviso l'esperienza nel girone dantesco. L'atto temerario non valse a nulla:a metà mattinata ero ancora ben lontana dal vedere la luce. Anzi, nel gioco dei rimpalli tra competenze e incompetenze delle varie amministrazioni mi ritrovai, stanca e furibonda, dirottata all'ufficio delle imposte, ultima in coda. Su una di quelle diaboliche sedie in plastica che tra la seduta e la spalliera hanno un profondo e tondeggiante vuoto, tale da non offrire pace e ristoro ne’al sedere ne’ alla schiena,di fronte a me si accomodò un anziano.
I suoi capelli bianchi si diradavano a creare un ampia stempiatura sulla fronte alta, segnata dalle rughe tipiche di chi valuta il mondo attraverso lo sguardo perplesso che costringe le sopracciglia ad un perenne arco verso l’alto. Il volto perfettamente sbarbato, ordinato e composto nel vestire, aveva decisamente l’aria di una brava persona.
Il mio istinto, ma principalmente il suo giornale diligentemente ripiegato in grembo, mi suggerivano che fosse pronto ad attaccar bottone; tuttavia non sentendomi incline alla socievolezza per via della frustrazione di quella ennesima attesa, mantenni fino a quando mi fu possibile il mio ostinato e scostante silenzio.
Cedetti infine alla perseveranza del suo sorriso cordiale.
Cominciammo uno di quei dialoghi da sala d’aspetto fatti di dichiarazioni di comprensione e reciproche esortazioni alla sopportazione. Gli sguardi complici di riprovazione e di ironia all'indirizzo di certe intemperanze altrui, aprirono, infine, la strada delle confidenze personali.
Gli raccontai brevemente la mia vita e le impressioni che avevo avuto ritornando, dopo anni, a casa.
Nella sua carriera da dirigente in una famosa multinazionale aveva anche lui viaggiato molto e vissuto all'estero con la famiglia. Piccole coincidenze tra i nostri percorsi di vita delle quali sorridemmo entrambi.
Fino a quel punto della conversazione, dunque, non avevo motivo di dubitare che il mio interlocutore fosse nulla di più che un simpatico ma - tutto sommato- ordinario pensionato.
Nessuna traccia della benché minima stranezza.
Le nostre chiacchiere si spostarono inevitabilmente su aneddoti di vita più recente e fu a quel punto che appresi la particolarità a cui facevo cenno.
Quest'uomo -del quale non saprò mai il nome per non aver avuto allora l'ardire di chiederlo- coltivava una passione: collezionare visite ad appartamenti in locazione.
Per via degli innumerevoli trasferimenti connessi al suo lavoro, si era trovato ripetutamente nella necessità di prendere in affitto case, tanto da diventare, di destinazione in destinazione, di trasloco in trasloco, una vera e propria autorità in materia.
Quando infine, alle soglie della pensione affrontò per l’ultima e definitiva volta la ricerca di una casa, quella in cui lui e la moglie avrebbero trascorso il resto dei giorni, fu colto -così disse- da autentica mestizia.
Avendo io pure una certa qual dimestichezza con l’argomento in parola, la confessione del mio interlocutore non mi lasciò indifferente.
Immediatamente ritornai con la memoria al dispiacere e all'apprensione -non esagererei a definirla angoscia- che avevano accompagnato lo sgombro della mia prima casa. Poi ripensai a tutti quelli successivi, ammettendo che effettivamente le cose fossero andate semplificandosi negli anni. Le operazioni preliminari da compiere, le sgobbate per disfare gli scatoloni, persino le reazioni psicologiche, ad un certo punto, si erano trasformate infatti in antiche consuetudini famigliari, finendo per l’essere assolte con la risoluta praticità a queste riservate. Tuttavia, nonostante il conforto di tali considerazioni, non arrivavo proprio a convincermi che ci si potesse dispiacere per la fine di ciò che continuava a parermi un indicibile strazio.
Cogliendo evidentemente il dubbio sulla mia faccia, sorrise condiscendente e si affrettò a precisare le ragioni della sua tristezza.
Non avrebbe rimpianto certo quella forsennata transumanza di mobili e masserizie. Piuttosto si rammaricava di non poter più andare in giro ad esaminare appartamenti; un’attività - il termine lasciava intuire un' autentica passione - che onestamente amava.
L’abitudine acquisita fin da bambino a perdersi in fantasticherie , spiegò, non si era affievolita negli anni, ne’ si era esaurita la costante curiosità verso i suoi simili.
L’ innocua pratica di visitare alloggi sfitti gli permetteva di soddisfare entrambe le inclinazioni. Come un pittore sfoga la sua carica creativa sulla tela bianca, lui utilizzava la sua fertile immaginazione per popolare e arredare a piacimento gli ambienti vuoti al di là di ogni soglia.
Ammetto che il racconto a quel punto mi aveva tanto conquistata che, dopo aver controllato con apprensione lo stato della fila, tirai un sospiro di sollievo nel contare ancora ben 20 persone davanti. Mi rimaneva tempo sufficiente a godermi il resto della storia.
La prima volta che visitò una casa -proseguì- le ansie personali, che già da giorni gli toglievano il sonno, impedirono alla mente di andare oltre le immagini registrate con eccessiva fedeltà dagli occhi.
L’unto incrostato sulle piastrelle della cucina, gli strati di calcare induriti intorno ai sanitari, le pareti segnate dalle sagome tristi dei mobili gli comunicarono una tale desolazione che, vinto dallo sconforto, non provò neppure a terminare il giro dell’appartamento.
E’ che ognuno ha in testa la propria casa - spiegava- con il mobilio disposto in quel certo ordine, il tale quadro proprio su quella determinata parete, il portasciugamano in quel punto preciso dove anche a occhi chiusi sei certo, girandoti, di trovare la salvietta; e non credi che altrove potrai mai trovare lo stesso magico equilibrio.
Poi la necessità incalza e, come si dice, aguzza l’ingegno. Così capitò che all'ennesima visita, quando ormai i tempi per il trasloco stringevano, si decidesse a fare qualche tentativo con l’immaginazione: si figurò la cucina ripulita e tinteggiata di fresco con i suoi mobili ben allineati al muro, le sue tende alle finestre del bagno, il suo divano a dominare la parete lunga della sala.
Più cresceva il numero degli alloggi ispezionati, più la fantasia si faceva ardita al punto che, capovolgendo lo stato d’animo degli inizi, la realtà che gli si manifestava davanti alla vista scompariva immediatamente davanti a quell'altra, prontamente suggeritagli dal fervore del suo intelletto. Mettendo piede nell'appartamento di turno, infatti, egli subito, con il pensiero, disponeva sulla prima parete utile, il solito mobiletto da ingresso su cui immaginava già pure sistemate le foto dei figli accanto allo svuota tasche traboccante.
L'insospettato talento creativo era stato -ne convenivo anch'io- una vera e propria benedizione; un’ancora a cui si era aggrappato per dissipare il clima tragico -anzi funereo- dei trasferimenti e traslochi.
Dopo il divertimento di arredare abitazioni estranee con tali simulazioni scoprì poi di essere affascinato dalla possibilità di fantasticare sulle vite dei precedenti inquilini. Così passò a inventarsi pure quelle. Raccoglieva ovunque indizi per costruire le sue storie: l’impronta dei piedi di un comò in camera da letto, il colore con cui erano tinteggiate le stanze, i fori alle pareti che avevano supportato scaffali, tutti elementi utilissimi alla sua fertile mente per ricomporre frammenti di esistenze, quadretti famigliari e abitudini di casa. Gli bastava gettare un occhio ai pavimenti, ad esempio, o ai rivestimenti di bagno e cucina, agli infissi, per dare un età a quegli sconosciuti, attribuire loro dei figli piccoli o adolescenti, rappresentarsi la padrona di casa come donna trascurata o efficientissima. Insomma, dietro ogni porta si nascondevano infinite possibilità e innumerevoli mondi.
In men che non si dica si era ritrovato con un assortimento di appartamenti e di racconti considerevole, degno della più ambiziosa delle collezioni.
Il mondo è pieni di gente che si appassiona agli oggetti più strani e comincia ad accumularli, lasciando che ne sia invaso l'intero spazio disponibile.
Lui che non poteva custodire il suo tesoro -per ovvie ragioni- , in nessun altro posto se non nella memoria, aveva sistemato e catalogato nella testa, appunto, ogni singolo pezzo in base alla bellezza, alla grandezza, alla singolarità. Se li ricordava tutti.
Il cottage sperduto nella campagna inglese conservato rigorosamente nello stato originario, con i pavimenti di legno che scricchiolavano ad ogni passo e la cucina a carbone con annesso un cubicolo che, dall'ovale sulla parete aperto verso l'esterno, si deduceva fosse il frigorifero. La casa in Turchia nel cui soggiorno troneggiava un camino con tanto di colonne e capitelli in marmo, ribattezzata la “casa di Saddam”, tanto ricordava la regia del dittatore nelle immagini della tv.
Un appartamento nel cuore di Chiaia, quartiere bene di Napoli, corredato da una delle più bizzarre cucine di sempre. In cubicolino definito dall'agente immobiliare, con un eccessivo slancio di fantasia, cucina, collocato su un tavolinetto claudicante, c'era un fornelletto da campeggio a due fuochi difronte al quale si apriva la porta di un bagnettino. Senza il minimo sforzo, tenendo l'uscio aperto e stando addirittura seduto sul gabinetto avrebbe potuto comodamente spignattare.
A quel punto del racconto la mestizia, cui l’anziano signore aveva fatto inizialmente cenno, aveva un senso. A dirla tutta anche io, ormai calata nei suoi panni, mi ero rattristata. Una passione è una passione, per quanto inconsueta. Doverci rinunciare è un indiscutibile dolore. E proprio mentre cercavo parole adatte a esprimergli la mia solidarietà, ecco il colpo di scena finale.
Non disposto affatto al sacrificio, con la complicità della moglie, quest’uomo aveva trovato un modo semplice per coltivare il suo hobby.
Ogni qualvolta che gli prendeva la fregola, una o due volte l’anno, vestito di tutto punto, insieme alla consorte, si presentava in un agenzia immobiliare. Un solerte ed elegantissimo giovanotto ben felice di guidarli in giro si trovava sempre. Esaurite infine le agenzie, fu sufficiente ripiegare sugli annunci senza intermediazione.
Che volete che vi dica?
Grazie al simpatico sconosciuto la mia mattinata, a dispetto delle aspettative, trascorse piacevolissima tanto che mi rammarico di non averlo neppure ringraziato. Addirittura sono curiosa delle nuove perle di cui si sarà nel frattempo arricchita la collezione.
Un modo per scoprirlo ci sarebbe. Pubblicando una finta inserzione su uno di quei giornali che, immagino, a lui capiti sempre di sfogliare, sono certa che, presto o tardi, me lo ritroverei di fronte. Chissà che prima o poi, cedendo all'impulso eccentrico,non mi decida per davvero a lanciare la fava nella speranza di catturare il piccione.
venerdì 2 novembre 2018
Ragazzo da parete di Stephen Chbosky
Nella vita accadono strane cose: non avrei mai immaginato, ad esempio, che questo piccolo libro, consigliatomi da mia figlia, mi prendesse così tanto. Spesso leggo i romanzi generazionali che girano per casa tanto per capire di cosa si nutrano le giovani menti. Qualche volta -confesso- non trovo i testi all'altezza dei "cult" della mia generazione. Questioni sentimentali, suppongo, che inficiano la mia obiettività. Invece a questo giro mi devo arrendere al fatto che "Noi siamo infinito" regga alla grande il paragone con i miei mostri sacri.
"Noi siamo infinito: Ragazzo da parete" è un romanzo epistolare scritto da Stephen Chbosky, pubblicato per la prima volta in italia da Frassinelli nel 2006 con il titolo di Ragazzo da parete nella traduzione di Chiara Brovelli,poi ripubblicato,sempre nella traduzione della Brovelli,nel 2012 da Sperling&Kupfer con il titolo attuale.
Alla metà di ottobre mi aveva colpito una riflessone sul ruolo e la percezione della cultura pop nel nostro paese apparsa su Rivista Studio(che potete leggere qui). Mi è tornato in mente questo romanzo e mi sono rammaricata del fatto che probabilmente molti dei ragazzi che frequentate(figli, alunni, nipoti)lo abbiano letto mentre a voi manchi. Ho pensato che sia ora di colmare la lacuna perché si tratta di un bel pezzo di narrativa pop che vi riserverà più sorprese di quante immaginiate.
Al termine del romanzo di Chbosky ( dal quale fu tratto poi l'omonimo film)vi ritroverete tra le mani una fantastica lista di romanzi da leggere obbligatoriamente, di ottimi film da rivedere e - se siete anche cultori di musica- di brani tutt'altro che deludenti.
Se avete amato "Alta fedeltà", "Il Giovane Holden" o "Pretty in Pink",il delizioso film con Molly Ringwald, non ci pensate due volte, accettate il mio consiglio di lettura.
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