giovedì 29 novembre 2018

Litania per la sopravvivenza di Audre Lorde ( traduzione di M. Giacobino)

 Per quelle di noi che vivono sul margine
Ritte sull’orlo costante della decisione
Cruciali e sole
Per quelle di noi che non possono lasciarsi andare
Al sogno passeggero della scelta
Che amano sulle soglie mentre vanno e vengono
Nelle ore fra un’alba e l’altra
Guardando dentro e fuori
E prima o poi allo stesso tempo
Cercando un adesso che dia vita
A futuri
Come pane nelle bocche dei nostri figli
Perché i loro sogni non riflettano
La fine dei nostri

Per quelle di noi
Che sono state marchiate dalla paura
Come una ruga leggera al centro delle nostre fronti
Imparando ad aver paura con il latte di nostra madre
Perché con questa arma
Questa illusione di poter essere al sicuro
Quelli dai piedi pesanti speravano di zittirci
Per noi tutte
Questo istante e questo trionfo
Non era previsto che noi sopravvivessimo

E quando il sole sorge abbiamo paura
Che forse non resterà
Quando il sole tramonta abbiamo paura
Che forse non si alzerà domattina
Quando abbiamo la pancia piena abbiamo paura
Dell’indigestione
Quando abbiamo la pancia vuota abbiamo paura
Di non poter mai più mangiare
Quando siamo amate abbiamo paura
Che l’amore svanirà
Quando siamo sole abbiamo paura
Che l’amore non tornerà
E quando parliamo abbiamo paura
Che le nostre parole non verranno udite
O ben accolte
Ma quando stiamo zitte
Anche allora abbiamo paura

Perciò è meglio parlare
Ricordando
Che non era previsto che noi sopravvivessimo

martedì 27 novembre 2018

E' tutto qui, tutto si riduce al corpo di Diane Lockward

E' tutto qui, tutto si riduce al corpo,



mi manca il suo volto, la sua voce, la sua pelle.

Immagino mia figlia mentre balla a Madrid, Barcellona

e Siviglia. La vedo scalare le montagne dell'Andalusia.

Non avevo immaginato quanto sarebbe stato lontano il lontano.



Felicità e infelicità sono la stessa cosa,

sostiene il mio soave maestro zen:

e allora mi chiedo se la mia testa

stia sostenendo il cielo, o se è un'emicrania

quella che sale.



Allora, giro in tondo, torno al luogo dove esattezza e

estasi si incontrano, allora ricordo come ho portato in me il girino

del suo corpo, molto prima del primo fremito, trattenendola

come un segreto dentro di me.



Mi sveglio la notte perchè mi manca

una parte del corpo, il braccio si tende attraverso l'oceano,

agganciato al passato, e mi chiedo,

come la madre di Achille deve aver fatto,

Quale parte di te non ho tuffato in acqua?



Appesantita dall'assenza, appendo le tende alle sue finestre,

metri e metri di delicato pizzo irlandese .

Mi nascondo dietro la porta, pressando l'orecchio al legno,

e osservo la sua corsa serale, spio la vita di mia figlia.

le sue cene notturne a Saragozza.

La stanza si riempie del profumo di gazpacho, di paella, di sangria.



Qualcosa simile al dolore cola dentro di me, qualcosa simile alla gioia.

Mi infilo tra le onde, mi perdo nella risacca,

il mio folletto d'acqua, la mia ninfa marina, ricordo il modo

in cui scivola attraverso la stanza, la bassa marea

della sua voce. Il modo in cui ci lascia,

senza fiato, come pesci ai suoi piedi.

domenica 25 novembre 2018

Ritratto di signora

Mi chiamo Giuseppina Esposito, nata a Napoli il 24 giugno del 1952. Per tutti sono Peppina.Ho letto su una rivista del vostro concorso letterario.Non mi sono mai concessa colpi di testa. Considero queste due cartelle che vi invio, il primo, in una intera vita fatta esclusivamente di gesti ragionevoli, necessari e dignitosi.Non sono una scrittrice, non sono al di sotto dei trent'anni, non aspiro a vincere la vostra borsa di studio. Ciascuno dei requisiti da voi indicati escluderebbe  la mia partecipazione, eccetto quello principale: richiedete un “Ritratto di signora”. Io il ritratto ce l’ho: è il mio e ve lo invio, con la speranza che possa essere utile a qualcuno.Sono una signora di sessantuno anni, non di quelle belle, brune, con i capelli sempre a posto e le unghie curate, che hanno realizzato nella loro esistenza la maggior parte delle cose che si erano proposte da giovani. Il colore castano dei miei capelli, tagliati in un caschetto facile da gestire, è frutto delle tinture che mi ingegno a fare in casa da me per coprire i capelli bianchi. Le mie unghie sono semplicemente rese più lucide da una sola , sbrigativa, passata di smalto trasparente anche quella opera mia.
Sono alta poco più di un metro e mezzo. Posseggo il fisico ordinario di chi non si è mai potuta concedere nulla di più delle creme anticellulite a buon mercato dei grandi magazzini. Delle diete fai da te costituite essenzialmente da digiuni lette sulle riviste femminili. Di lunghe camminate sotto il peso grave delle buste della spesa, nell'illusione che sostituiscano la palestra, che per una questione di soldi non mi sono mai potuta permettere.Il mio aspetto è quello ordinato e composto della madre di famiglia attenta alle apparenze. Fingo una “finezza”che non posseggo per nascita e spero che l’occhio altrui non colga la fatica di comporre, con estenuanti giri tra i banchi del mercato, un abbigliamento distinto e decoroso, versione economica di quella idea di lusso rubata alle vetrine dei ricchi.Il mio papà era un mite artigiano. La mia mamma una donna volitiva e a suo modo ambiziosa. Voleva fornire alla figlia, oltre alla dote classica di gioielli, masserizie e biancheria, anche un titolo di studio che ne accrescessero il valore , rendendola un partito migliore delle altre concorrenti agli occhi di eventuali candidati al matrimonio. Mi fecero studiare da segretaria alla scuola di avviamento professionale. Non erano grandi studi, - lo so bene-, ma certamente quella uscita di casa, negli anni 60, rappresentava una rivoluzione per una ragazza nella mia condizione sociale. Anche il passo seguente fu considerato estremamente moderno: al termine dei tre anni pretesi di andare a lavorare. Me lo concessero a condizioni che – ora mi rendo conto- erano tutte sbagliate e inammissibili, ma che io accettai. Acconsentii che fosse un impiego “part time”,-come si dice oggi-, in un luogo vicino casa , dove le colleghe fossero tutte donne e soprattutto che quest’avventura si concludesse alla vigilia di un eventuale matrimonio. Per me non finire in un laboratorio di sartoria o tra apprendiste ricamatrici, -il destino di tutte le mie coetanee- era comunque una conquista, e non mi opposi.
Perché dovrebbe interessarvi il mio ritratto monocromatico e piatto, privo del tutto di talento artistico, così scialbo e usuale?Perché le soffitte sono colme di tele dove il volto della sofferenza ha le sembianze moderate e disciplinate della normalità , ed è forse giunto il momento che questi visi vengano alla luce . Il buon partito arrivò, come sperava mamma. La differenza di età che c’era tra noi non mi impedì di innamorarmi di lui. Era bello, distinto, aveva modi compiti e mi corteggiava molto rispettosamente.
Gestiva insieme alla madre una merceria che avrebbe ereditato “a babbo morto”, come si usava dire allora.Ne rimanemmo entrambe affascinate, la mamma ed io. Nel turbinio emozionale dei 17 anni regalai senza riserve il mio cuore, carico dei sogni e delle ambizioni di ragazza moderna, a quel giovanotto. Lo stesso fece mia madre, che aprì il suo, senza che alcun dubbio la sfiorasse, per accogliere colui che incarnava i suoi desideri: un bravo marito per l’amata figlia, benestante e di buona famiglia. L’unico che colse gli indizi della brutalità, tenuta a bada con maestria dietro quell'apparenza pacata e bonaria, fu il mio papà, nella sua mitezza. Proprio mio padre orfano di madre dalla nascita, a cui dunque nessuno aveva insegnato il dogma della superiorità maschile e che quindi si era affidato pacatamente (non da debole, bensì da pari) alla moglie, colse la rozzezza del mio futuro marito, tanto da propormi, mentre attraversavamo insieme la navata verso l’altare nel giorno delle nozze, di tornare a casa con lui. Il ritratto di signora che vi porgo, il mio , è un puzzle composto da un numero incalcolabile di bugie. Invenzioni a cui sono ricorsa per costruire la rispettabile facciata di una vita normale.Una menzogna, il ripetere che mi bastasse essere “solo sangue prestato” –come sentenziava mia suocera- allo scopo di dare a mio marito dei figli, perpetuare il cognome di famiglia.Una menzogna, l’ accogliere i suoi rimproveri e sopportare i suoi insulti, considerandoli meritati.Una menzogna, il ritenere che i soldi contati al centesimo, che lui mi concedeva, fossero sufficienti, mentre lottavo per far quadrare i conti e sfamare i figli.Una menzogna, il ribadire che fossi felice di essere seduta al tavolo insieme ai miei bambini, mentre ogni giorno sognavo di essere altrove.Una menzogna, il rifugiarmi nell'illusorio piccolo orgoglio di saper dattilografare, stenografare, far computi di ragioneria, per consolarmi di un' esistenza così sofferta, e sostenere il paragone con quelle evidentemente più serene delle amiche mie.Una menzogna, il convincermi di non aver voglia di parlare a mia madre, cercando di ignorare il lucchetto inserito nel disco dei numeri, che mi impediva di telefonarle .Una menzogna, infine, il negare che desiderassi ascoltare parole d’amore, mentre lui mi parlava con l’unico linguaggio che conoscesse: mani pesanti e dure che mi schiaffeggiavano il viso, l’ orgoglio, l’ animo.Ancora oggi, a distanza di 10 anni dalla morte di mio marito, causata da un infarto che lo stecchì sul colpo, lasciandogli una metà del corpo cupa e livida, quasi che la sua anima cattiva si fosse finalmente palesata, io mi ostino a fingere di essere stata felice con lui, di essere stata una moglie come le altre, di essere stata una donna, come le altre.

sabato 24 novembre 2018

L’ultima notte di Willie Jones

Questo consiglio è apparso su LuciaLibri, giornale online di approfondimenti culturali legati al mondo letterario ed editoriale.  
New Iberia, Louisiana, anno del Signore 1943. Dopo otto mesi di carcere il diciottenne di colore Willie Jones è al suo ultimo giorno di pena. Accusato da un uomo bianco di averne stuprato la figlia, suicidatasi poi per timore dello scandalo, alla mezzanotte andrà sulla sedia elettrica. Questa la sintesi de L’ultima notte di Willie Jones (302 pagine, 18 euro), tradotto da Silvia Rota Sperti, titolo originale The Mercy Seat, con cui l’editore Solferino introduce ai lettori italiani Elizabeth Winthorp.
Ispirandosi alle storie di Willie McGee e Willie Francis, entrambi di colore, giustiziati negli anni cinquanta sulla Feroce Gertie, la sedia elettrica su cui sono morte ottantasette persone, Elizabeth Winthorp intinge la penna nel calamaio d’inchiostro corvino e vischioso dell’odio razziale e dei linciaggi, per scrivere dell’America rurale dove essere di colore costituiva colpa indelebile e la sanzione capitale presupposto non negoziabile della giustizia legale. Ci regala, souvenir del viaggio a ritroso nel tempo, un romanzo sostanzioso, complesso, attuale, nel quale è tratteggiato, con impressionante forza evocativa, il clima che ristagna laddove allignino intolleranza razziale e giustizialismo. Un romanzo che, per il forte valore simbolico, meriterebbe di essere letto dalle scolaresche, suonando come un monito contro la seduzione di quelle brutali convinzioni tornate purtroppo a far proseliti. La Mercy Seat del titolo originario e Willie Jones di quello italiano, pur essendo, in quanto protagonisti, all’apice dell’architettura narrativa del libro, non possono dare voce alla propria storia, per la ragione oggettiva di consistere in un ammasso di legno e cavi elettrici la sedia, e per essere in uno stato di sospesa incredulità il condannato. Viene loro in soccorso un originale tessuto connettivo di ottanta sezioni, in cui sette uomini bianchi e due di colore danno corpo alla cronaca dei fatti e alla descrizione del clima generale al margine dell’evento. Una pianificazione strutturale felice, che agendo come una centrifuga, separa il tema politico, elemento solido del romanzo, dall’altro, liquido, attinente alla sfera dei sentimenti. Winthorp carica, in questo modo, le questioni sociali sulle spalle della Feroce Gertie e di Wille, strumento e vittima dell’iniquo sistema penale, per cristallizzarne l’empietà e il dolore in un monolite che schiacci il lettore. Al contrario, frammenta le emozioni tra i vari personaggi affinché, trasformate in un caleidoscopio, investano e trapassino chi legge con ognuna delle loro possibili sfumature.
«L’affluire dei sentimenti non è quello specchio d’acqua uniforme» dice, in Elvira di Brigitte Jaques, Jouvet istruendo l’allieva. «È proprio in quest’affluire (…) che c’è il ribollire della sensibilità». Dubito che Winthorp avesse presente tali parole mentre scriveva, ma mi pare che, seppur inconsapevolmente, le abbia attuate attraverso la sua composizione. La disperazione per il figlio in guerra della coppia che aiuta il padre di Willie a trasportarne la lapide. La caparbia ostinazione dell’anziano genitore di tenere fede alla promessa di seppellirlo degnamente. La solitudine del prete al fianco di Willie, che, in preda ad una crisi di vocazione, fronteggia l’antico demone dell’alcolismo. La famiglia del giudice responsabile della sentenza, che soggiace ai ricatti dei razzisti. Infine i razzisti, che attendono di godersi lo spettacolo del diciottenne “fritto” sulla macchina infernale: il coinvolgimento è tale che l’amore, la pietà, l’odio non restano confinate alle pagine. «Recitare è l’arte di smuovere la propria sensibilità per trovare nuove voci, nuove strade, nuovi punti di partenza» – rubo ancora a Jouvet – affinché lo spettatore provi sempre ciò che prova l’attore. Se alla fine di un libro siamo totalmente compenetrati con l’autore vuol dire che la lezione vale anche in letteratura e il romanzo di Elizabeth Winthorp ne costituisce una prova: con L’ultima notte di Willie Jones è riuscita a dare una bella, forte e appassionante interpretazione alle parole

venerdì 23 novembre 2018

L'importanza della condivisione culturale

In tutta onestà riconosco di essere una persona ordinaria nel pensiero e nelle azioni.
Sono ordinata e diligente. Due caratteristiche da cui discende, quasi come naturale corollario, una terza: l'essere ortodossa.
Tendo ad accettare ciò che mi si impone dall'alto, sia essa legge, norma, regola generale o consuetudine.
Mi sarebbe piaciuto nascere "libera pensatrice". Mi sarebbe piaciuto nascere ribelle. Mi sarebbe piaciuto nascere dotata di autonomo senso critico.
Niente, non mi è capitato nessuno di questi talenti.
Mi considero però fortunata e molto. La mia vita è costellata di incontri con persone che mi hanno insegnato ad essere, con buona approssimazione, "libera pensatrice", ribelle, critica.
Ho avuto insegnanti che con pazienza e passione mi hanno suggerito la necessità di uscire, a volte, fuori dagli schemi, indicandomene la strada e gli strumenti. Ho amici e conoscenti che consapevolmente o inconsapevolmente mi hanno dimostrato che la verità ha tante facce, che il concetto di giusto, di normale, di necessario sono oggetti di revisione costante. 
Se fossi rimasta nel mio isolamento culturale, probabilmente avrei inorridito al pensiero del divorzio. Sicuramente lo avrei fatto dinanzi al bacio tra due individui dello stesso sesso. Prima ancora sarei stata razzista, forse classista. Avrei sostenuto che non c'è parità tra uomo e donna. 
Per mia fortuna, lo ribadisco ancora, c'è chi mi ha insegnato a pensare, a vedere, a capire.
La cultura rende liberi. . Non smettiamo mai di crederci. E di condividerla.

martedì 20 novembre 2018

Asso spariglia tutto ( contributo al progetto Criature)

Quello che segue è un mio vecchio racconto confluito nel progetto di scrittura collettiva Criature.
Dopo aver letto e studiato il saggio di M. Fisher " The Weird and the Eeire" pubblicato da Minimum fax, i limiti della mia narrazione  mi risultano più evidenti. Mi sono incaponita a dare all'agentività una connotazione  che non andava esplicitata. E' che nella mia scrittura io sono il vero elemento weird, sono la porta d'accesso ai due mondi: la narrativa descrittiva classica e quella perturbante. Il punto è che la porta avrebbe bisogno di un buon falegname!

Illustrazione di Alessandra Gioia
A quel Signora! sopraggiuntole alle spalle con una certa perentorietà, aveva risposto il corpo prima ancora del cervello. Con la prontezza dei soldati, che si piegano agli ordini senza neppure processarli mentalmente, i piedi di Aurora si erano inchiodati al suolo e la testa si era rivolta in direzione della voce femminile che, forse più mansueta per l’esito sortito, passava ora dal tono imperativo a quello di preghiera.
L’anziana fissò interrogativa la brunetta alle sue spalle, truccata con zelo eccessivo per l’ora mattutina, realizzando che probabilmente se l’era portata alle calcagna, senza accorgersene, fin dall’uscita della messa. Quindi spostò gli occhi sul microfono che la ragazza, fattasi più vicina, le puntava alla bocca e, scuotendosi di dosso lo stupore, tornò in sé.

Prevedibile che la notizia si sarebbe sparsa oltre i confini di San Cupo ai Monti, che giornalisti e curiosi sarebbero comparsi a ficcare il naso, ma quel primo faccia a faccia con l’intrusa l’aveva comunque colta alla sprovvista. La sparizione dei bambini, che il giorno prima aveva sconvolto il paese, precipitava tutti loro in una dimensione surreale; e come sempre accade quando si vive in un clima onirico, la realtà sembrava realizzarsi o in anticipo sui tempi d’attesa, cogliendoli impreparati, o in maniera incoerente, lasciandoli attoniti, trasecolati, spesso incapaci di reagire. “Signora, non scappi!”, ripeteva con tono suadente quella, lo sguardo fisso nella camera dell’operatore materializzatosi di fronte.“Siamo la televisione! La RAI! Può raccontare ai nostri amici a casa cosa succede in paese? Sono vere le voci sulla sparizione dei bambini? Lei conosce le famiglie colpite dalla tragedia?”.
A risvegliarla dall’inebetimento ci pensò, grazie a uno schiaffo assestatole in piena faccia per il tramite di una foglia, l’Oria, il vento della zona, fattosi insolente nelle ultime quarantotto ore. Aurora scansò il microfono e la cinepresa, rigirò sui tacchi e riprese la via di casa senza badare alle rimostranze dell’inseguitrice, nuovamente molesta. L’unica cosa saggia era rispettare la consegna del silenzio cui tutti i paesani erano stati vincolati da Don Michele. Quella mattina in chiesa avevano stabilito, infatti, di rilasciare dichiarazioni e testimonianze solo agli inquirenti. “Evitate le chiacchiere”, si era raccomandato il prete, senza che in fondo ce ne fosse bisogno, data la natura schiva, al limite dell’asociale, della gente. “Ciascuno ripensi a quello che ha visto e ciò che ha fatto quel giorno, ma mantenga la bocca chiusa anche con i propri famigliari. Va a finire che a parlarne tra noi rischiamo di confonderci, di influenzarci a vicenda, di suggestionarci e di alterare i fatti”. Nulla però — rifletté l’anziana — aveva aggiunto in merito al sacramento della confessione. Poteva ben succedere che qualcuno, proprio in virtù o a causa di quell’animo reticente di cui si è detto, scegliesse di confidare al prete indizi rilevanti, mettendolo in una posizione di privilegio.
Giunta a destinazione, mentre si frugava le tasche in cerca delle chiavi, con la coda dell’occhio notò la porta dei vicini richiudersi alle spalle di due uomini in divisa. I detective erano già all’opera e la prossima — pensò — sarebbe stata lei.
Con il fare automatico delle casalinghe, che appena mettono piede in casa e mentre si infilano le ciabatte cominciano pure a rassettare, Aurora prese a rifare il letto e ad organizzare i suoi ricordi secondo un metro logico, così da non affrontare impreparata gli agenti.

Due notti prima aveva dormito malissimo, tanto che l’indomani si era attardata tra le lenzuola saltando l’abituale messa mattutina. Le era venuta in sogno in più occasioni la defunta nonna. La prima volta, un repentino quanto inopportuno risveglio aveva impedito l’abbraccio tra le due. Sebbene rammaricata per l’occasione perduta, era riuscita comunque a riprender sonno. L’antenata si era ripresentata una seconda volta e dopo aver eluso il suo tentativo di baci — con il chiaro intento di sottrarla ai presagi funesti di cui questi scambi d’affetto sono portatori in sogno — prima di dileguarsi le aveva posato in grembo un bambino. Nel linguaggio che nonna e nipote utilizzavano per parlarsi da un capo all’altro dei loro mondi, messo a punto in anni di simili dialoghi, il gesto significava che qualcosa di grosso sarebbe successo.

Dovere di buona creanza imponeva di offrire ai due ospiti, alla cui attesa si era così predisposta, almeno una tazza di caffè. Fece appena in tempo ad apparecchiare un vassoietto con il servizio buono che quelli bussarono.“Vi siete sbrigati in fretta”, esordì, abbozzando solo in un secondo momento un saluto. Senza neppure attendere che si qualificassero, li indirizzò in salotto invitandoli ad accomodarsi.La schiettezza di quell’accoglienza indusse gli investigatori a essere altrettanto spicci.
Venivano a chiederle conto del perché non si fosse recata a Messa il giorno prima — come loro riferito dal Parroco — e soprattutto per quali ragioni la sua presenza era stata segnalata all’ingresso della scuola già prima che si spargesse la notizia dei bambini.
Se erano stati già da Don Michele — pensò Aurora — e le cose erano andate come lei aveva ipotizzato, il compito dei due si riduceva a verificare le indicazioni avute dal prete.
Non intendeva coprirsi di ridicolo e dunque non avrebbe né accennato all’incontro notturno con l’antenata, né confessato che tutto era partito dal turbamento generato in lei dall’episodio.
Quelle le ragioni che le avevano allertato i sensi, spinto a presidiare la finestra in attesa non sapeva neppure lei bene di cosa, e resa spettatrice — niente affatto casuale quindi — degli strani accadimenti, preludio e indizio della iattura calata sul paese.
“Sono stata poco bene durante ‘a nuttata”, esordì con una mezza verità.
“Quando mi sono susuta mi sentivo di mancare o’ ciato, il respiro, e sono andata alla finestra pe’ piglia’ aria. Tempo una mezz’ora ed è comparso Manlio, o’ meccanico, che ha aperto l’officina molto anticipatamente. Agg’ subito pensatoche qualcuno teneva bisogno e perciò l’ha scitat’. Allora magg’ mis’ a guarda’ p’ ‘a curiosità e sape’ chi era rimasto a per’.”
Un impercettibile fremito delle froge scompose il volto del più giovane dei due uomini, tradendo insofferenza verso gli inconcludenti preamboli della padrona di casa. Lo colse il collega, che abbassate le palpebre e strette le labbra in una sorta di sorriso mal riuscito, lo esortò con quel cenno ad aver pazienza. Lo colse anche Aurora, avvezza a leggere le espressioni sulle facce altrui, che annuendo a sua volta in direzione del ragazzo, s’inserì nel duetto rafforzando il tacito invito del più anziano.
“A un certo punto”, riprese, “Manlio è sciut for’ co’ o’ cellulare in mano, come se nun riusciva a piglia’ ‘a linea e là so’ accuminciate le stranezze”.
Il tono della voce divenne a quel punto greve.
Aurora raccontò con parole non sue, come sull’onda di una misteriosa ispirazione, che “l’Oria si è fatto sferzata violenta, il tempo un cristallo di istanti inerti e il silenzio quasi materia solida”.
Due passeri, abbozzato un tentativo di volo, erano caduti stecchiti ai suoi piedi. Un fracasso, proveniente dalla cucina, l’aveva poi richiamata in casa, ponendo fine a quel momento di artefatta quiete.
Lì, tredici calamite della sua collezione di souvenir, alla quale avevano contribuito negli anni un po’ tutti i paesani, stavano ammassate sul pavimento davanti al frigo.
C’erano, tra le altre, la giapponesina della coppia di sposi avventuratasi a Tokio in viaggio di nozze, l’Empire State Building dei vicini andati oltreoceano in visita ai cugini emigrati, la foglia d’acero della nipote cui aveva finanziato la vacanza studio in Canada. Nel raccoglierle, ricomponendo quelle andate in pezzi, passò in rassegna le facce e i nomi di coloro che gliele avevano portate: erano proprio i genitori dei tredici bambini sfrecciati davanti casa, prima, a bordo dello scuolabus di Evaristo.
Il racconto accusò una pausa, breve ma intensa, come la boccata di fiato che s’incamera prima di un’immersione. Non c’era un modo appropriato per dire, senza rischiare diffidenza o sarcasmo, che si era subito angosciata per quelleanime di Dio sul cui destino avrebbe interrogato le carte.
Malgrado i prevedibili preconcetti degli agenti — immaginava la presentazione poco lusinghiera del prete, apertamente ostile alla veggenza — e a dispetto di come l’avrebbero giudicata — se con ostilità o ironia — era l’ora della verità e la verità era che l’Oria — sì, proprio quello dello schiaffo! — l’aveva inseguita tra le mura domestiche.
Si toccò il fianco con un gesto inconscio — quasi le bruciasse ciò che teneva in tasca — e continuò. Il vento si era insinuato nelle stanze determinato a raggiungere il tavolino da cartomante prima di lei.
Puntate le carte le aveva scompaginate con violenza, lasciandone sul banchetto solo ventisei. L’intento era di indirizzarle un messaggio che, lei intuì, si celava nelle quattordici finite a terra. Cominciò a raccoglierle e contemporaneamente a decifrarle: il quattro e il cinque di spade annunciavano imprevisti e ostacoli, il tre di coppe lacrime e dolore, e i fanti, di tutti i semi, mettevano al centro della profezia i bambini. L’ultima carta, il cinque di coppe, che recuperò accanto alle calamite smagnetizzate, prediceva un ritorno.
Rimise insieme il mazzo e lo contò per verificare che fosse completo. Una carta, invece, mancava. La quarantesima, quella che segnava la sorte dei tredici scolari, se l’era portata con sé l’Oria, deciso a tenersi l’ultima, definitiva parola sulla faccenda.
Aurora doveva assolutamente riprendersela, anche a costo di affrontare lo storico nemico nel cortile della scuola, il covo dove s’era andato a rifugiare. Così, quando la voce della scomparsa de’ criature aveva cominciato a circolare, e le mamme prima e i padri poi, e i nonni e via via tutto il paese si era riversato, sgomento e con la lingua contratta in gola, in quel luogo, lei era già là, a chiedere conto del malfatto al vento, a esigere indietro l’ unica garanzia che tutto sarebbe tornato a posto. Davanti al portone del plesso, muto di voci e deserto di presenze infantili, aveva infine recuperato il rettangolo di carta per lei vitale: l’asso di bastoni, quasi del tutto abraso dalla forza del vento, tanto malconcio che a stento si riconosceva.
“È questione di tempo e tutto torna in ordine. Iss’ nun sa mangia ‘a parola data”. Disse, estraendo dalla tasca la carta e aggiungendo: “Chesta è ‘a chiù bella, chella do’ gusto. Chella che port’ ‘e nutizie bone. Pigliatavella vuie e quando torneranno ‘e criature, quando chiuderete il caso, aggiungetela agli atti!”
Di storie, negli anni, i due agenti ne avevano raccolte tante. Quella di Aurora l’avrebbero archiviata nel cumulo delle bislacche. Senza scomporsi, come d’abitudine, finsero interesse per il reperto che la vecchia porgeva loro e il più l’anziano dei due, con ben simulata solerzia, s’incaricò di riporlo nella propria tasca.
Più tardi, mentre tiravano le somme del caso, un refolo capriccioso danzò intorno al naso dell’uomo fino a sollecitargli uno starnuto che lo costrinse all’uso del fazzoletto. L’asso di bastone profittò del gesto e evase dalla sua improvvisata custodia, finendo, con la complicità dall’onnipresente Oria, all’angolo del marciapiede tra le grinfie di un branco di mici randagi. Aurora l’avrebbe voluto al sicuro in un faldone stipato di atti. Il vento, ancora una volta non facendo carte se la prese vinta e l’affidò a quei gatti

martedì 13 novembre 2018

Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman



    Potrei cambiare il titolo della mia rubrica ne " il bipolarismo del consigliere".

Alterno, me ne rendo conto, suggerimenti letterari impegnativi ad altri più leggeri, non disdegnando  romanzi di genere o addirittura young adult.

Qualcuno potrebbe accusarmi di avere poco gusto, di non essere strutturata abbastanza da discernere il buono dal cattivo, l'alto dal basso, il che inficerebbe la credibilità dei miei consigli. Piuttosto, credo fermamente che in lettura, rimanere ancorati alle etichette faccia molto, molto male. Lo snobismo letterario, insomma, non è mai bello. Potrebbero sfuggire, per una presa di posizione velleitaria, ottime occasioni.  E' il caso di "Eleanor Oliphant sta benissimo" di Gail Honeyman, edito da Garzanti, tradotto da S. Beretta, romanzo che agli occhi di alcuni ha una aprioristica pecca: l'essere stato immediatamente risucchiato dal clamore delle classifiche. Elemento sufficiente per diffidarne, visto che il mainstream è male.

A costo di passare per una banderuola alla mercé del puro piacere della lettura, io ve lo propongo. Una storia pesante come un piombo. Indigeribile se... Se la Honeyman non avesse trovato una chiave narrativa  tanto piacevolmente delicata, tanto fresca. Un azzardo naïf che non compromette l'intensità della storia, dei sentimenti e finanche della lezione di vita che si trae dal romanzo. Che abbia vinto, in questi giorni, la prima edizione del premio "Amo questo libro" attribuito dai librai di Giunti al Punto, per i sospettosi costituirà un'aggravante, un motivo ulteriore per saltarlo a piè pari.

Io vi dico provare per credere. Finirà per diventare una strenna Natalizia su cui puntare senza margine di errore.

venerdì 9 novembre 2018

L’amore prima della fine del mondo di Jacopo Masini

Come raccontare, senza spoilerare il finale,“L’amore prima della fine del mondo” di Jacopo Masini, Epika Edizioni? Cominciando magari dalla copertina, illustrata da Ombretta Tavano, che già rivela indizi sulla storia. Due giovani amanti. Lui inerme, è immerso in tumultuose onde scure. Lei si sporge a prendergli il volto tra le mani. Lui è relegato, dal grigio tenue di cui è colorato, in una dimensione incorporea. Lei, al contrario, nonostante sembri fluttuare, per via delle tinte decise, ha una consistenza reale. Lui si chiama Vanni Martini ed è il protagonista del romanzo. Lei Alice Bia, ed è la fidanzata. Si sono conosciuti per caso, a Bologna, davanti ad un'edicola della stazione, un giorno in cui i rispettivi treni erano in ritardo. 
Perché mai, se il romanzo ripercorre, attraverso i ricordi di Vanni, l’estate in cui stava con Alice, è poi proprio la sua immagine, vale a dire del protagonista, ad essere evanescente? Forse perché ai tempi, il nostro ventisettenne di Parma era una stupida, cocciuta, tonta parvenza di uomo della quale è sopravvissuta quell’ombra grigia che, a più di quindici anni di distanza, quando cioè Masini ne narra, intralcia, con i suoi rimpianti, e lo farà per sempre, l’adulto di oggi. 
Prima della fine del mondo Vanni, in attesa del responso di un colloquio di lavoro a Torino, si guadagna da vivere accudendo due “matti” come collaboratore di una cooperativa sociale. Spesso e volentieri va fuori a bere con l’amico di sempre Giacomo, passa a pranzo dalla nonna e soprattutto non si lascia sfuggire l’occasione di tradire Alice, ripetutamente e con due diverse amanti, di cui una è la migliore amica di lei. Stando alla sua filosofia è esente da colpe, dato che non crede nella forza della volontà. “Ogni sentimento, ogni cosa che accade è proprio come una corrente e non possiamo far altro che lasciarci portare senza andare a fondo o andare a sbattere contro una scogliera” e lui si lascia portare. Però poi arriva la fine del mondo a scompigliare le carte, a impedirgli di riparare agli errori, a negargli la possibilità di prendere il timone della sua vita e dirigerla verso il lido da cui si è allontanato, al quale sente ora di appartenere. “Una volta che conosciamo il finale di una storia tragica, siamo sempre tentati di chiedere perché il protagonista non si sia impegnato di più per cambiare il corso del suo destino”, scrive in Asimmetria, Lisa Halliday. Un interrogativo che sembra formulato dal Vanni adulto, perché è quella la radice della sua inguaribile malinconia, il nodo del suo struggimento: non aver impedito che andasse come è andata.
Realismo, equilibrio e originalità sono le parole chiave del romanzo. 
Colpi di testa, insoddisfazioni, sbandate, bestemmie, sesso, noia, bevute e infedeltà: Masini lo vuole verace questo suo protagonista, desidera che esprima la sua palpitante giovinezza senza falsificazioni, ne’ censure o patinature e Vanni è infatti realissimo, tanto che, si finisce, senza alcuna difficoltà, a immaginarlo parlare con la caratteristica erre di Parma. Il tutto scandito da un'impeccabile armonia tra leggerezza e drammaticità, tra ironia e serietà, che Masini mantiene con rigore. 
In quanto all’originalità, ha a che fare con “la fine del mondo” del titolo. 
Elemento narrativo difficilissimo da gestire, che espone al pericolo di paragoni con mostri sacri del calibro di Franzen o Doctorow, ad esempio, che dalla stessa materia hanno tratto romanzi imprescindibili. Masini si è assunto un grandissimo rischio a farne la chiave della sua narrazione, dunque è doveroso riconoscergliene il merito.
Un piccolo romanzo, duecentodieci pagine in tutto, “L’amore prima della fine del mondo” conquista per la semplicità con cui Masini fa irrompere la Storia nella storia di Vanni, e la rende, in qualche modo, un po' più a nostra misura. 

giovedì 8 novembre 2018

il collezionista


Una mattina di inizio autunno, anni fa, feci davvero un insolito incontro. Mi imbattei in una persona decisamente singolare, alla quale ancora oggi mi capita di a volte di ripensare.
Ero da poco tornata nella mia città natale dopo un lungo periodo di vita all’estero. 
Dovendo adempiere alle formalità e ai riti amministrativi utili per tornare ad essere, a tutti gli effetti di legge,cittadina napoletana, ogni giorno ero costretta ad ignorare gli scatoloni del recente trasloco che ancora la facevano da padrona in casa e regalare parte del mio tempo alla burocrazia, rimanendo in ostaggio  di interminabili file presso gli uffici comunali per ore.
Uscii di casa all'alba nella speranza di battere sul tempo la concorrenza degli altri sventurati con cui avrei condiviso l'esperienza nel girone dantesco. L'atto temerario non valse a nulla:a metà mattinata ero ancora ben lontana dal vedere la luce. Anzi, nel gioco dei rimpalli tra competenze e incompetenze delle varie amministrazioni mi ritrovai, stanca e furibonda, dirottata all'ufficio delle imposte, ultima in coda. Su una di quelle diaboliche sedie in plastica che tra la seduta e la spalliera hanno un profondo e tondeggiante vuoto, tale da non offrire pace e ristoro ne’al sedere ne’ alla schiena,di fronte a me si accomodò un anziano.
I suoi capelli bianchi si diradavano a creare un ampia stempiatura sulla fronte alta, segnata dalle rughe tipiche di chi valuta il mondo attraverso lo sguardo perplesso che costringe le sopracciglia ad un perenne arco verso l’alto. Il volto perfettamente sbarbato, ordinato e composto nel vestire, aveva decisamente l’aria di una brava persona. 
Il mio istinto, ma principalmente il suo giornale diligentemente ripiegato in grembo, mi suggerivano che fosse pronto ad attaccar bottone; tuttavia non sentendomi incline alla socievolezza per via della frustrazione di quella ennesima attesa, mantenni fino a quando mi fu possibile il mio ostinato e scostante silenzio. 
Cedetti infine alla perseveranza del suo sorriso cordiale. 
Cominciammo uno di quei dialoghi da sala d’aspetto fatti di dichiarazioni di comprensione e reciproche esortazioni alla sopportazione. Gli sguardi complici di riprovazione e di ironia all'indirizzo di certe intemperanze altrui, aprirono, infine, la strada delle confidenze personali. 
Gli raccontai brevemente la mia vita e le impressioni che avevo avuto ritornando, dopo anni, a casa.
Nella sua carriera da dirigente in una famosa multinazionale aveva anche lui viaggiato molto e vissuto all'estero con la famiglia. Piccole coincidenze tra i nostri percorsi di vita delle quali sorridemmo entrambi.
Fino a quel punto della conversazione, dunque, non avevo motivo di dubitare che il mio interlocutore fosse nulla di più che un simpatico ma - tutto sommato- ordinario pensionato. 
Nessuna traccia della benché minima stranezza.
Le nostre chiacchiere si spostarono inevitabilmente su aneddoti di vita più recente e fu a quel punto che appresi la particolarità a cui facevo cenno. 
Quest'uomo -del quale non saprò mai il nome per non aver avuto allora l'ardire di chiederlo- coltivava una passione: collezionare visite ad appartamenti in locazione.
Per via degli innumerevoli trasferimenti connessi al suo lavoro,  si era trovato ripetutamente nella necessità di prendere in affitto case, tanto da diventare, di destinazione in destinazione, di trasloco in trasloco, una vera e propria autorità in materia. 
Quando infine, alle soglie della pensione affrontò per l’ultima e definitiva volta la ricerca di una casa, quella in cui lui e la moglie avrebbero trascorso il resto dei giorni, fu colto -così disse- da autentica mestizia. 
Avendo io pure una certa qual dimestichezza con l’argomento in parola, la confessione del mio interlocutore non mi lasciò indifferente.
Immediatamente ritornai con la memoria al dispiacere e all'apprensione -non esagererei a definirla angoscia- che avevano accompagnato lo sgombro della mia prima casa. Poi ripensai a tutti quelli successivi, ammettendo che effettivamente le cose fossero andate semplificandosi negli anni. Le operazioni preliminari da compiere, le sgobbate per disfare gli scatoloni, persino le reazioni psicologiche, ad un certo punto, si erano trasformate infatti in antiche consuetudini famigliari, finendo per l’essere assolte con la risoluta praticità a queste riservate. Tuttavia, nonostante il conforto di tali considerazioni, non arrivavo proprio a convincermi che ci si potesse dispiacere per la fine di ciò che continuava a parermi un indicibile strazio.
Cogliendo evidentemente il dubbio sulla mia faccia, sorrise condiscendente e si affrettò a precisare le ragioni della sua tristezza.
Non avrebbe rimpianto certo quella forsennata transumanza di mobili e masserizie. Piuttosto si rammaricava di non poter più andare in giro ad esaminare appartamenti; un’attività - il termine lasciava intuire un' autentica passione - che onestamente amava. 
L’abitudine acquisita fin da bambino a perdersi in fantasticherie , spiegò, non si era affievolita negli anni, ne’ si era esaurita la costante curiosità verso i suoi simili. 
L’ innocua pratica di visitare alloggi sfitti gli permetteva di soddisfare entrambe le inclinazioni. Come un pittore sfoga la sua carica creativa sulla tela bianca, lui utilizzava la sua fertile immaginazione per popolare e arredare a piacimento gli ambienti vuoti al di là di ogni soglia. 
Ammetto che il racconto a quel punto mi aveva tanto conquistata che, dopo aver controllato con apprensione lo stato della fila, tirai un sospiro di sollievo nel contare ancora ben 20 persone davanti. Mi rimaneva tempo sufficiente a godermi il resto della storia.
La prima volta che visitò una casa -proseguì- le ansie personali, che già da giorni gli toglievano il sonno, impedirono alla mente di andare oltre le immagini registrate con eccessiva fedeltà dagli occhi.
L’unto incrostato sulle piastrelle della cucina, gli strati di calcare induriti intorno ai sanitari, le pareti segnate dalle sagome tristi dei mobili gli comunicarono una tale desolazione che, vinto dallo sconforto, non provò neppure a terminare il giro dell’appartamento. 
E’ che ognuno ha in testa la propria casa - spiegava- con il mobilio disposto in quel certo ordine, il tale quadro proprio su quella determinata parete, il portasciugamano in quel punto preciso dove anche a occhi chiusi sei certo, girandoti, di trovare la salvietta; e non credi che altrove potrai mai trovare lo stesso magico equilibrio.
Poi la necessità incalza e, come si dice, aguzza l’ingegno. Così capitò che all'ennesima visita, quando ormai i tempi per il trasloco stringevano, si decidesse a fare qualche tentativo con l’immaginazione: si figurò la cucina ripulita e tinteggiata di fresco con i suoi mobili ben allineati al muro, le sue tende alle finestre del bagno, il suo divano a dominare la parete lunga della sala.
Più cresceva il numero degli alloggi ispezionati, più la fantasia si faceva ardita al punto che, capovolgendo lo stato d’animo degli inizi, la realtà che gli si manifestava davanti alla vista scompariva immediatamente davanti a quell'altra, prontamente suggeritagli dal fervore del suo intelletto. Mettendo piede nell'appartamento di turno, infatti, egli subito, con il pensiero, disponeva sulla prima parete utile, il solito mobiletto da ingresso su cui immaginava già pure sistemate le foto dei figli accanto allo svuota tasche traboccante.
L'insospettato talento creativo era stato -ne convenivo anch'io- una vera e propria benedizione; un’ancora a cui si era aggrappato per dissipare il clima tragico -anzi funereo- dei trasferimenti e traslochi. 
Dopo il divertimento di arredare abitazioni estranee con tali simulazioni scoprì poi di essere affascinato dalla possibilità di fantasticare sulle vite dei precedenti inquilini. Così passò a inventarsi pure quelle. Raccoglieva ovunque indizi per costruire le sue storie: l’impronta dei piedi di un comò in camera da letto, il colore con cui erano tinteggiate le stanze, i fori alle pareti che avevano supportato scaffali, tutti elementi utilissimi alla sua fertile mente per ricomporre frammenti di esistenze, quadretti famigliari e abitudini di casa. Gli bastava gettare un occhio ai pavimenti, ad esempio, o ai rivestimenti di bagno e cucina, agli infissi, per dare un età a quegli sconosciuti, attribuire loro dei figli piccoli o adolescenti, rappresentarsi la padrona di casa come donna trascurata o efficientissima. Insomma, dietro ogni porta si nascondevano infinite possibilità e innumerevoli mondi.
In men che non si dica si era ritrovato con un assortimento di appartamenti e di racconti considerevole, degno della più ambiziosa delle collezioni.
Il mondo è pieni di gente che si appassiona agli oggetti più strani e comincia ad accumularli, lasciando che ne sia invaso l'intero spazio disponibile. 
Lui che non poteva custodire il suo tesoro -per ovvie ragioni- , in nessun altro posto se non nella memoria, aveva sistemato e catalogato nella testa, appunto, ogni singolo pezzo in base alla bellezza, alla grandezza, alla singolarità. Se li ricordava tutti.
Il cottage sperduto nella campagna inglese conservato rigorosamente nello stato originario, con i pavimenti di legno che scricchiolavano ad ogni passo e la cucina a carbone con annesso un cubicolo che, dall'ovale sulla parete aperto verso l'esterno, si deduceva fosse il frigorifero. La casa in Turchia nel cui soggiorno troneggiava un camino con tanto di colonne e capitelli in marmo, ribattezzata la “casa di Saddam”, tanto ricordava la regia del dittatore nelle immagini della tv. 
Un appartamento nel cuore di Chiaia, quartiere bene di Napoli, corredato da una delle più bizzarre cucine di sempre. In cubicolino definito dall'agente immobiliare, con un eccessivo slancio di fantasia, cucina, collocato su un tavolinetto claudicante, c'era un fornelletto da campeggio a due fuochi difronte al quale si apriva la porta di un bagnettino. Senza il minimo sforzo, tenendo l'uscio aperto e stando addirittura seduto sul gabinetto avrebbe potuto comodamente spignattare.
 A quel punto del racconto la mestizia, cui l’anziano signore aveva fatto inizialmente cenno, aveva un senso. A dirla tutta anche io, ormai calata nei suoi panni, mi ero rattristata. Una passione è una passione, per quanto inconsueta. Doverci rinunciare è un indiscutibile dolore. E proprio mentre cercavo parole adatte a esprimergli la mia solidarietà, ecco il colpo di scena finale.
Non disposto affatto al sacrificio, con la complicità della moglie, quest’uomo aveva trovato un modo semplice per coltivare il suo hobby. 
Ogni qualvolta che gli prendeva la fregola, una o due volte l’anno, vestito di tutto punto, insieme alla consorte, si presentava in un agenzia immobiliare. Un solerte ed elegantissimo giovanotto ben felice di guidarli in giro si trovava sempre. Esaurite infine le agenzie, fu sufficiente ripiegare sugli annunci senza intermediazione.
Che volete che vi dica? 
Grazie al simpatico sconosciuto la mia mattinata, a dispetto delle aspettative, trascorse piacevolissima tanto che mi rammarico di non averlo neppure ringraziato. Addirittura sono curiosa delle nuove perle di cui si sarà nel frattempo arricchita la collezione.
Un modo per scoprirlo ci sarebbe. Pubblicando una finta inserzione su uno di quei giornali che, immagino, a lui capiti sempre di sfogliare, sono certa che, presto o tardi, me lo ritroverei di fronte. Chissà che prima o poi, cedendo all'impulso eccentrico,non mi decida per davvero a lanciare la fava nella speranza di catturare il  piccione.

venerdì 2 novembre 2018

Ragazzo da parete di Stephen Chbosky


Nella vita accadono strane cose: non avrei mai immaginato, ad esempio, che questo piccolo libro, consigliatomi da mia figlia, mi prendesse così tanto. Spesso leggo i romanzi generazionali che girano per casa tanto per capire di cosa si nutrano le giovani menti.  Qualche volta -confesso- non  trovo i testi all'altezza dei "cult" della mia generazione. Questioni sentimentali, suppongo, che inficiano la mia obiettività. Invece a questo giro mi devo arrendere al fatto che "Noi siamo infinito" regga alla grande il paragone con i miei mostri sacri.
"Noi siamo infinito: Ragazzo da parete" è un romanzo epistolare scritto da Stephen Chbosky, pubblicato per la prima volta in italia da Frassinelli nel 2006 con il titolo di Ragazzo da parete nella  traduzione di Chiara Brovelli,poi ripubblicato,sempre nella traduzione della Brovelli,nel  2012 da Sperling&Kupfer con il titolo attuale.
Alla metà di ottobre mi aveva colpito una riflessone sul ruolo e la percezione della cultura pop nel nostro paese apparsa su Rivista Studio(che potete leggere qui). Mi è tornato in mente questo romanzo e mi sono rammaricata del fatto che probabilmente molti dei ragazzi che frequentate(figli, alunni, nipoti)lo abbiano letto mentre a voi manchi. Ho pensato che sia ora di colmare la lacuna perché si tratta di un bel pezzo di narrativa pop che vi riserverà più sorprese di quante immaginiate.   
Al termine del romanzo di Chbosky ( dal quale fu tratto poi l'omonimo film)vi ritroverete tra le mani una  fantastica lista di romanzi da leggere obbligatoriamente, di ottimi film da rivedere e - se siete anche cultori di musica- di brani tutt'altro che deludenti. 
Se avete amato "Alta fedeltà", "Il Giovane Holden" o "Pretty in Pink",il delizioso film con Molly Ringwald, non ci pensate due volte, accettate il mio consiglio di lettura.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...