mercoledì 29 giugno 2016

SS Pietro e Paolo

L’onomastico, alla fine degli anni sessanta, nel mio quartiere alla periferia di Napoli, assumeva i toni di una vera e propria festa di popolo.
Soccavo era, in quegli anni, un borgo di campagna all’ombra della collina dei Camaldoli, abitato da gente umile , saldamente ancorata alle proprie tradizioni contadine.
La rosa dei nomi di battesimo alla quale i miei compaesani solitamente attingevano, in armonia con la loro semplicità, si limitava all’elenco degli apostoli ed evangelisti, con un’indubbia preferenza per i Santi considerati più familiari e nostrani. Tommaso e Simone o Matteo e Marco, ad esempio, suonavano quasi esotici, poco adatti al proprio modesto contesto , nomi, cioè, appropriati più per ricchi o intellettuali.
I Soccavesi infatti prediligevano massimamente SS. Pietro e Paolo, cui era dedicata la parrocchia . Nel caso, tutt’altro che inconsueto, in cui i due Santi si fossero rivelati, in ragione della vena assai prolifica dei miei paesani, insufficienti alle esigenze ”nomenclatorie”famigliari, si ricorreva a San Giuseppe e San Vincenzo. Molto apprezzati erano anche S. Pasquale e S. Gennaro.
Vigeva un’unica perentoria interdizione riservata a S. Giorgio, patrono di Pianura, quartiere limitrofo e rivale: il martire con il drago doveva rimanere confinato , strettamente, nel territorio di sua competenza.
Per le bambine, fonte esclusiva d’ispirazione era la Madre di Gesù; si cominciava, solitamente, con l’omaggio alle due statue femminili della chiesa, una Maria semplice e una Addolorata , per poi scandagliare tutto il vasto campionario delle Madonne. Quasi in ogni casa si potevano trovare, in questo esatto ordine di successione, Assuntina , Carmelina, Immacolatella. Non c’era margine d’errore, l’ultima delle “piccirelle” sarebbe stata infine sicuramente una “Nunziatina”.
Vi era poi un altro elemento determinante nella scelta dei nomi. Al di sopra di ogni gusto o preferenza personali, infatti, si ergeva la vera regina del mos maiorum, ovvero la legge della “supponta”, secondo la quale, ai nipoti maschi primogeniti andava il nome del nonno paterno e alle nipoti femmine quello delle nonne. La norma era derogabile unicamente per adempimento di un sacro voto, formulato ad impetrare una grazia: in tali casa la Madonna del Rosario non temeva rivali.
Il combinato disposto dei due fattori: pochi nomi semplici e l'’uso di tramandarli reiteratamente dal capostipite all’ultimo dei nipoti , trasformava l’onomastico, da fatto privato, ad unica celebrazione collettiva.
Nel giorno designato dal calendario, ogni clan di ciascuno ceppo aveva il “santo “in casa. Anzi, il numero dei santi era assolutamente sovrabbondante, data la gran quantità dei consanguinei omonimi: nonni, zii, cugini. Impossibile, per vicini o conoscenti, omettere il doveroso tributo degli auguri.
Cosa del tutto diversa era invece il compleanno: la consuetudine di spegnere la prima candelina c’era, ma dopo il primo anniversario non erano previste altre feste. La data di nascita restava un fatto privatissimo, di cui oltre al diretto interessato si ricordava la mamma, che aveva patito le doglie, e forse le comari che l’avevano assistita, e che del lieto evento custodivano gli aneddoti salienti.
Solo molto tempo dopo, agli inizi degli anni ottanta, quando il principio della sopponta cominciò a vacillare sotto gli attacchi violenti di nomi più “fini”e “distinti “, originando grosse e sanguinose secessioni famigliari, anche Soccavo e i suoi abitanti si lasciarono conquistare dalla moda “nordica” di festeggiare il genetliaco.

Per me, invece, le cose andarono diversamente. Questa sorta di emancipazione arrivò ben prima, attraverso sentieri bizzarri .
La circostanza che la mia data di nascita coincidesse con la festa dei Santi Pietro e Paolo, giorno di solenne celebrazione per l’intero quartiere, rese più semplice, quasi naturale, l’introduzione della festa per il mio compleanno.

Ero la prima, attesissima nipotina da parte di madre, godevo, quindi, la condizione privilegiata di una venerata reginetta. Tuttavia il Santo cui ero dedicata, inflazionato nella casata di mio padre -papà, infatti, era ultimo di cinque fratelli già tutti prima di lui diventati genitori- entrava in questo ramo della famiglia per la prima volta con me.
Benché la nonna materna non dimenticasse mai all’onomastico di festeggiarmi con regali favolosi, e Sant’Antonio godesse del massimo rispetto, non si potevano fingere verso di lui, né devozione ne’affezione autentiche: era decisamente “fuori razza” .
Viceversa, poiché la tavolata in onore dei santi patroni sarebbe stata in ogni caso imbandita, come da consuetudine, bastò unire l’utile al dilettevole:far spuntare, cioè, a fine pranzo il dolce con le candeline, per dare corso alla nuova tradizione del taglio della torta in mio onore.
Cos’altro, più di un compleanno , quando sei bambina, ti porta così vicino alla felicità?
Mi svegliavo con la consapevolezza che quel giorno sarebbe stato tutto mio, speciale, lungo e pieno. Avrei indossato il vestito nuovo, confezionato per me dalla mamma. Avrei acquistato la palla di segatura con l’elastico alle bancarelle arrivate per la festa di piazza, anzi, me ne sarebbe stata concessa anche una seconda, quando la prima si fisse rotta, senza necessità di far capricci. Avrei mangiato, a tavola, le pietanze che io avevo richiesto, mi sarei alzata sulla sedia e averi soffiato sulle candeline. Durante la processione dei Santi, mi sarebbe parso di sfilare anche io, in trionfo , come una piccola statuina.
Sono nata il 30 /x/ 19yz e nonostante sia ormai una donna matura, ogni volta che penso o mi trovo a pronunciare questa terna di numeri, mi pare sia la data più bella del mondo.
Se importante è ciò che cambia il corso di un destino, considero tali, unicamente, le date di nascita delle mie figlie. Ventix y novantaxx / Quattro z novantxy
versi, claudicanti nella metrica e imperfetti nelle rime , di una poesia che del tutto casualmente , la maternità ha composto per me.
La bellezza della mia data di nascita, è cosa diversa. Spogliata da implicazioni filosofiche, e svincolata da leggi estetiche, la bellezza che non deve corrispondere al buono e non ha necessità di accordarsi con canoni oggettivi, è semplicemente un suggerimento, un’esortazione al sorriso.
Ditemi se non è proprio così che devono essere le date più belle del mondo!

domenica 19 giugno 2016

Futuro Interiore di Michela Murgia

 Non ho mai fatto mistero della mia simpatia per Michela Murgia.Tra i suoi romanzi preferisco -per uno scarto minimo-Accabadora a Chirù, sebbene sia la Murgia dei saggi che, in assoluto, prediligo . Non mi stancherò mai, infatti, di consigliare “Ave Mary. E la chiesa inventò la donna” del 2011, Einaudi edizioni, a chi voglia approfondire il ruolo femminile nella elaborazione della dottrina cristiana cattolica romana. Aggiungo ora, alla lista di suggerimenti, l’ultimo suo libro: “Futuro interiore”, sempre per l’editore Einaudi.
Uno dei dibattiti che tiene da sempre banco è quello relativo al ruolo sociale dell’intellettuale; se gli competa vivere da eremita, disertando ogni forma di partecipazione, in un empireo, oppure  mantenersi “schierato, partitico, fazioso”, correndo il rischio di essere dipendente o peggio ancora asservito” al potere,  o infine se debba essere “engagè”, assorbito totalmente dal proprio tempo ma eticamente libero, fedele unicamente alla propria idea del mondo, così da esercitare un ruolo critico, pedagogico e di riflessione sulla contemporaneità a vantaggio dell’opinione pubblica, che si traduce, e lo dice bene Vittorini, “ non nel suonare il piffero per la rivoluzione dando una veste poetica alla politica, ma nel raccogliere tutti gli stimoli culturali che la società offre, per rinnovarla dal profondo”.
Michela Murgia è una scrittrice che ha scelto di essere, in maniera esplicita, voce non solo narrante ma anche ragionante, nell’accezione sartriana descritta sopra, della e sulla nostra epoca. Nel saggio “ Futuro interiore”, l’autrice sarda, rivolgendosi alla generazione del quarantenni -da più parti considerata “perduta”- prova,  rispondendo a tre interrogativi: ” Sapremmo dire chi siamo senza evocare sangue e suolo? La democrazia avrà spazio per la bellezza? Si può essere potenti insieme, anziché uno contro l'altro?”, a fornire indicazioni su argomenti di attualità particolarmente scottanti. Se, mentre siamo intenti alla lettura del saggio, fuori dagli stadi le tifoserie convenute per assistere al Campionato Europeo di calcio si affrontano come opposte fazioni belligeranti, mostrandoci il volto più nazionalista dei popoli, se la serie televisiva “Gomorra”  ripropone le periferie urbane degradate come fucina di delinquenza e disagio sociale, sottolineando l'urgenza di un loro superamento, se infine le campagne elettorali delle recenti amministrative rivelano con spietatezza un abbrutimento addebitabile indistintamente ai vecchi partiti e ai nuovi movimenti, evidenziando la necessità di trovare forme alternative  alla gestione del potere, allora  le riflessioni sviluppate in queste –seppur poche- pagine  dalla  scrittrice di Cabras, si rivelano  oltremodo significative. Le  ottime capacità di scrittura della Murgia -va detto- rappresentano sicuramente un valore aggiunto  al pamphlet. La puntualità delle parole, la linearità dei periodi, la chiarezza delle argomentazioni, l’armoniosità complessiva del testo contribuiscono a fare del saggio oltre che uno  scritto  stimolante una lettura veramente molto piacevole.   





mercoledì 15 giugno 2016

dal libro delle "incomprensibilità"






Quando i genitori divenivano tali in un'età che oggi consideriamo quasi infantile, vale a dire verso i 25/30 anni,  le pubblicità dei pannolini per neonati erano affidate generalmente a  finti esperti in camice, i quali irrompevano  nelle  modeste sale da pranzo degli spettatori medi per convincerli, con esperimenti pseudo-scientifici, della bontà del prodotto.
Oggi che si diventa madri e padri alla soglia dei 40 anni -ci avete fatto caso?- sullo schermo televisivo appaiono cartoni animati di cui sono protagonisti coloratissimi angioletti che, squittendo gioiosamente, con un linguaggio che non risulterebbe convincente neppure per un bimbo dell'asilo, ci propongono il loro pannolino super assorbente direttamente dal paese di fantasilandia.
Mi chiedo a chi si rivolga "il creativo pubblicitario?" Ai genitori o al bebè, il quale dalla culla è il vero titolare del potere d'acquisto genitoriale e piglia capriccio se non gli si comprano i pannolini con i pupazzetti?
E queste scelte la dicono lunga sul grado di lucidità dei consumatori dei nostri tempi. Più grandi sono e più hanno bisogno di linguaggi infantili per essere conquistati!

venerdì 10 giugno 2016

La battaglia contro il femminicidio e i meme sbagliati

E’ da un po’ che compare sulla mia timeline la foto di sopra.
Credo che si possa leggere come un tentativo -goffo e maldestro, ma spero fatto in buona fede- di sensibilizzare contro il Femminicidio.
Ne gira di roba su fb. Spesso è difficile processarla con attenzione prima di “condividerla”.   Ancora più frequentemente la velocità del passaggio sulle nostre pagine è tale che il tempo speso a commentarla sarebbe sprecato: sarà fagocitata presto dal flusso di informazioni con buona pace di tutti.
La foto in questione, però, mi ha turbato a tal punto che sento di avere l’obbligo morale di scriverne qualche parola a proposito, di insisterci sopra.

Tua nonna ti ha dato TUA madre”
“Tua madre ti ha dato la vita”
“Tua suocera ti darà TUA moglie”
Tua moglie ti darà i VOSTRI figli”
Vuoi ancora un motivo per rispettare le donne?”

Detto in sincerità un uomo non dovrebbe aver bisogno di discorsi motivazionali per fermare la propria mano omicida contro la persona che ama.
Sappiamo tuttavia che, al di là dei casi in cui le violenze sono dettate da patologie psichiatriche gravi, il femminicidio è determinato,  nella stragrande maggioranza delle volte, da gravi carenze culturali relative al ruolo sociale della donna – sono da  escludersi dunque la mancata scolarizzazione o l' analfabetismo, poiché il delitto interessa trasversalmente ogni ambito della società- e  sappiamo pure che  “l’educazione sentimentale” resta un passo imprescindibile nella lotta contro la neo-fattispecie di reato. Ben vengano allora anche i promemoria se aiutano nell’urgente lavoro di rivoluzione culturale, purchè siano corretti.
L’elenco riportato nelle didascalie della foto è invece fuorviante e sbagliato.
La sovrabbondanza  di aggettivi possessivi contenuti  nel messaggio, infatti, potrebbe essere molto pericolosa
E’  sempre  bene partire dai fondamentali e ricordare il comandamento per eccellenza: Non uccidereDa esso si deduce che La prima  e unica ragione per non alzare la mano contro la donna che si ama resta e resterà sempre   il rispetto incondizionato della vita umana.   A prescindere, quindi, se  la potenziale vittima mi abbia generato, mi darà una compagna o mi partorirà dei figli, perchè non è  certo la sola capacità riproduttiva a connotare una donna come persona e a imporne la tutela.
L’amore non è un do ut des e non è possedere il proprio partner.
La radice cancrenosa del femminicidio sta proprio nel concepire la donna come una proprietà e il rapporto di coppia come una relazione basata sull’appartenenza e il dominio.
L’amore non è un legame, è un sentimento.La logica del possesso, della supremazia di genere  va tagliata con un unico decisivo colpo secco e urgentemente.
Provo a rispondere alla domanda dell’ultimo sottotitolo nel modo che reputo più corretto:
Il motivo per rispettare le donne esiste dalla notte dei tempi, non ne ho bisogno di altri: è l’obbligo di salvaguardare ogni vita, sempre.

giovedì 9 giugno 2016

Buon compleanno Marguerite

Oggi, 8 giugno, nel giorno del suo compleanno, voglio ricordare Marguerite Yourcenar, al secolo Marguerite Cleenewerck de Crayencour (Bruxelles, 8 giugno 1903 – Mount Desert, 17 dicembre 1987), scrittrice francese, prima donna eletta alla Académie française (fonte Wikipedia).
Sento l’esigenza di farlo perché la Yourcenar è il mio primo vero, grande, imperituro amore letterario. Prima di lei avevo letto tanto, ma tutte bazzecole. Poi, grazie alla Prof. di filosofia che ogni tre e quattro buttava nei suoi discorsi “L’opera al nero”, è avvenuto l’incontro che ha cambiato i miei gusti in fatto di letture.
Impossibile riassumere in poche righe la vita, il genio, la profondità della scrittrice e della persona.
Il mio intento è semplicemente di stimolarvi a leggerla.
Come ho detto, feci la sua conoscenza -negli anni del liceo- tra pagine de “L’opera al nero”, da cui Zenon, il protagonista, con queste parole mi irretì: Le nostre idee, i nostri idoli, le nostre costumanze presuntamente sante, e le nostre visioni che passano per ineffabili, mi sembravano generati senz'altro dai sussulti della macchina umana, al pari del soffio delle narici o delle parti basse, del sudore e dell'acqua salata delle lacrime, del sangue bianco dell'amore, dei liquami e degli escrementi del corpo. Mi irritava che l'uomo sprecasse così la propria sostanza in costruzioni quasi sempre nefaste, parlasse di castità prima di aver smontato la macchina del sesso, disputasse di libero arbitrio invece di soppesare le mille oscure ragioni che ti fanno battere le ciglia se improvvisamente avvicino ai tuoi occhi un legno, o di inferno prima di aver interrogato più dappresso la morte”.
Quando nel 1988 l’Einaudi ripubblicò “Memorie di Adriano” per la  traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, ero già adepta fedele alla sua causa e decisa a scandagliarne le opere.
L’idea che “Di tutti i giochi umani, quello d'amore è l'unico che minaccia costantemente di sconvolgere la nostra anima, ed è anche l'unico in cui il giocatore deve abbandonarsi all'estasi del corpo... Inchiodato al corpo amato come uno schiavo alla croce “, mi spingeva a ripercorrere tutte le riflessioni e le intuizioni della Yourcenar.
All’epoca nessuno faceva cenno alla vita privata della scrittrice, al fatto che dopo essersi innamorata di un omosessuale, che la respinse sul piano sentimentale ma la tenne stretta come amica per le profonde affinità intellettuali, si fosse legata a Grace Frick, con la quale visse more uxorio, in America, fino alla morte di lei.
Ma non c’è autore moderno che abbia saputo affrontare il tema dell’omosessualità meglio della scrittrice belga.
Basta leggere il libro che viene considerato il suo esordio, Alexis, o “Il trattato della lotta vana”, pubblicato nel 1929 da Feltrinelli, traduzione di Maria Luisa Spaziani, per convincersene.
So che ci sono dei nomi per tutte le malattie, e che ciò di cui ti parlo viene ritenuto una malattia. Io stesso l’ho creduto per molto tempo. Ma non sono medico; non sono neanche più certo di essere un malato. La vita, Monique, è molto più complessa di tutte le possibili definizioni; ogni immagine semplificata rischia sempre di essere volgare.” (…) Amica mia, vivere è difficile. Ho costruito abbastanza teorie morali per non costruirne altre, e contraddittorie: sono troppo ragionevole per credere che la felicità non stia se non sull'orlo di un peccato, e il vizio, non meno che la virtù, non possa dare la gioia a quelli che non l'hanno già in sè. Ma io preferisco ancora il peccato (se di peccato si tratta) piuttosto che una negazione di sè, così vicina alla demenza. La vita mi ha fatto ciò che sono, prigioniero (se vogliamo) di istinti che non ho scelto, ma ai quali mi rassegno, e questa accettazione, spero, in mancanza di felicità mi darà la serenità. Amica mia, ti ho sempre creduta capace di capire tutto, e ciò è assai più raro che perdonare tutto.”
Non bisogna tralasciare neppure “Colpo di grazia” edizioni Feltrinelli, traduzione di Maria Luisa Spaziani.
La collera, la ripugnanza, l’intenerimento, un vago rimorso da parte mia e un odio nascente da parte sua, tutti gli opposti, insomma, ci incollavano l’uno all’altro come due amanti o due danzatori. Quel legame tanto desiderato esisteva davvero tra noi”, nel quale l’autrice riversa la storia autobiografica del respingimento subito da André Fraigneau.
Solo così si può entrare nelle “Memorie di Adriano” potendo assaporarne pienamente il gusto e la portata.
Cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti" .
Tuttavia è imperativo , prima, vivere questa esistenza tenendo del pari, gli occhi spalancati. Gli scritti della Yourcenar sono il collirio migliore per il nostro sguardo.








mercoledì 8 giugno 2016

" L'arte della gioia" di Goliarda Sapienza

Non sono una che serba rancore, ma metto su certi bronci –quando sono contrariata- che a confronto i bimbi campioni di “muso lungo” sono dei dilettanti.
Verso quanti hanno letto “L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza, edito postumo nel 2008 da Einaudi, e non l’hanno consigliato con squilli di tromba a destra e a manca –si sappia- nutro del risentimento, per quanto passeggero.
Era dai tempi dei “ I Vicerè” di De Roberto o del “Il resto di niente” di Striano, o ancora da “La Storia” della Morante  che non leggevo un romanzo così potente e intenso.
Affermazione impegnativa, lo riconosco, ma quanti avranno la bontà di darmi credito  leggendo questo miracolo letterario non potranno che darmi ragione.
"Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com'è: non mi va di fare supposizioni o d'inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente."
Mantiene la promessa Modesta, protagonista del romanzo, al fianco della quale sono stata inesorabilmente inchiodata per le oltre 500 pagine in cui, senza reticenze e falsi pudori, racconta la sua peculiare esistenza: dalla misera infanzia agli anni del convento, dal tempo in cui diverrà “principessa” per matrimonio, ai giorni della “vecchiaia”.

Goliarda Sapienza, attrice e scrittrice (nata a Catania nel 1924 e morta prematuramente a Gaeta nel 1996) una vita tanto complessa e sui generis da averla portata anche in galera per un furto di gioielli in casa di amici, ultimò questo capolavoro nel 1976. Non riuscendo  tuttavia a pubblicarne che la prima parte nel 1994, nella collana Millelirepiù, lo affidò a Angelo Pellegrino, suo marito, il quale  dopo averlo tenuto in un cassapanca per un ventennio, lo pubblicò a sue spese nel 1998 per  Stampa Alternativa.
Le vicende di Modesta ottennero comunque più successo all’estero, in Francia, Germania e Spagna, di quanto ne abbiano avuto in Italia, dove continuano a circolare grazie al zelante passaparola di chi ha la fortuna di imbattervisi.
“L’arte della Gioia” è un romanzo sorprendentemente moderno. Modesta è una donna sorprendentemente moderna. La scrittura di Goliarda ad ogni riga, passo, episodio, argomento narrati è addirittura incredibilmente profetica.
"Hitler fu tradito, ma il suo sogno si avvererà: un' Europa unita con a capo il genio germanico"
Se la cifra della modernità è, infatti, la rottura con la morale, le consuetudini, le regole sociali del proprio tempo non più rispondenti alle esigenze personali e collettive dell’epoca, rivendico all’autrice e alla sua eroina, ciascuno nel proprio ambito, d’essere due riformiste, due innovatrici, due antesignane anticonformiste doc.
Modesta, classe 1900, lascia il convento avendo costruito, grazie alla prima rudimentale istruzione a cui ha accesso come novizia, una bozza di pensiero critico sulla religione che preluderà all’agnosticismo – novità assoluta per una donna della sua estrazione- dell’età adulta.
Primo grande gesto di ribellione di una lunga serie di atti compiuti per realizzare quella gioia che è l’arte di vivere.
Acuta, volitiva, coraggiosa la Principessa Modesta punta   sullo studio, sulla lettura e sull'istruzione per rifondarsi come persona, sfidando i pregiudizi e gli schemi sociali.
E’ spregiudicata nell'amore: vive in piena libertà e naturalezza la propria sessualità sia con uomini che con donne. 
"La verità è che quando trovi la donna giusta o l'uomo giusto, allora è di dovere intendersi. l corpo uno strumento delicato è, più lo studi e più l'accordi all'altro, più diventa perfetto il suono e forte il piacere"
"Ma l'amore non è assoluto e nemmeno eterno, e non c'è solo amore tra uomo e donna, possibilmente consacrato. Si poteva amare un uomo, una donna, un albero e forse anche un asino, come dice Shakespeare"Matura convinzioni politiche progressiste insospettabili per i tempi, abbracciando la causa socialista e antifascista che la porterà al confino.
E’ una madre e nonna atipica ma esemplare, per la quale libertà non è   parola manieristica ma una necessità da attuare, che assume senso concreto,  in ogni gesto quotidiano.

“L’arte della gioia” è uno di quei libri che si leggono tenendo costantemente la matita tra le dita per la continua necessità di sottolinearne i passi, che si divorano voracemente per la curiosità di sapere cosa succede pagina dopo pagina, ma anche con il rammarico di avvicinarsi alla conclusione troppo in fretta e la consapevolezza che l’addio ai protagonisti sarà in ogni caso doloroso.
 “L’ arte della gioia” – mi sbilancio nuovamente e ribadisco- è un romanzo imprescindibile.
Questo non è uno dei miei consueti consigli di lettura: è un ordine categorico!


lunedì 6 giugno 2016

Ultime letture

Tra “Lettera a D.” di A. Gorz ,  “La madonna dei mandarini” di A. Cilento e “Dalle rovine” di L. Funetta –dei quali ho già scritto - ho avuto altre avventure.
Ho letto “ Mr. Peanut” di Adam Ross, “Omaggio alla Catalogna” di G. Orwell, “Maestro Utrecht” di Paolo Longo,  “Non è un mestiere per scrittori” di G. D’Antona e infine “Casa” di Marilynne Robinson.
La premessa è sempre la solita: “quello che non strozza ingrassa, dunque aver letto un libro, anche se non ci lascia entusiasti è sempre meglio di non averlo letto.
Sono una lettrice indipendente -lo ribadisco con ostinazione- il che tradotto significa comprarsi i libri di tasca propria   e  parlarne poi non come ne farebbe un critico, valutando cioè tutti gli elementi tecnici della scrittura, ne’ come un imbonitore, che deve vendere il prodotto, ma come un appassionato che esprime un giudizio di gradimento.
L’editoria, industria malconcia ma vitale, sforna titoli su titoli ogni giorno. Più di quanti il più folle e appassionato lettore potrà mai leggerne in una, ma anche due vite.  Il passaparola resta il miglior strumento per destreggiarsi nella scelta. E qui di passaparola si tratta.
Detto ciò, ciò detto, che ritradotto significa. “Comprate e leggete ciò che volete”, passiamo ai libri.
Mr Peanut”, di Adam Ross, Einaudi editore, traduzione di Cristiana Mennella.
Ho scoperto Adam Ross e il suo romanzo d’esordio “Mr Peanut”, pubblicato in America nel 2010, grazie al suggerimento di un parente stretto della traduttrice. Il New York Times Book Preview, lo definì “un libro brillante, potente. In una parola memorabile”, Il The New Yorker lo incluse tra i migliori di quell’ anno e il Maestro King così lo descrisse:” La piú avvincente esplorazione del lato oscuro del matrimonio che abbia letto da molto tempo. Mi ha fatto venire gli incubi: impresa non da poco”. Confesso che la successione cronologica in cui ho infilato il libro mi hanno fatto dubitare della scelta.
Uscire da “lettera a D.” e pensare di immergermi, senza contraccolpi, in un romanzo che parla di uxoricidi aspiranti o addirittura praticanti? cosa se non pura follia. “Mr Penaut” è la riprova che una bella penna può davvero tutto, anche cancellare il romanticismo di Gorz per farti apprezzare altre voci sull’ amore e sul rapporto di coppia, farti entrare in altre vite e renderti ugualmente schiavo della storia fino al punto di costringerti alla nottata per venire al dunque.

Altro giro, altra corsa per “Omaggio alla Catalogna” di G. Orwell, edizioni Mondadori, traduzione a cura di Giorgio Monicelli.
Alla lettura di questo saggio –resto fedele alla catalogazione della Mondadori- ho dovuto ottemperare adeguandomi alle direttive del gruppo di  lettori di cui faccio parte. Difficilmente lo avrei fatto autonomamente.
Non amo particolarmente Orwell, neppure quello dei romanzi più fortunati. Convengo sulla importanza e l’originalità dei messaggi contenuti nei suoi testi, ma la sua penna non mi fa impazzire. La prima parte dell’” Omaggio”, cronaca dalla trincea, seppure non difficoltà, l’ho mandata giù. La seconda, invece, ovvero le due appendici di ricostruzione degli scenari politici, le ho patite come una passeggiata in salita sotto il sole d’agosto. Non si butta via niente in ogni caso: resta un utile lettura per chi volesse uno spaccato della guerra civile spagnola e venire a capo dell’avversione al comunismo   dell’autore, che affonda probabilmente le sue radici in quest’avventura.

Veniamo ora a “ Maestro Utrecht” di Paolo Longo, edizioni NN.
Con la casa editrice milanese si è aperta, fin dai suoi esordi con la Ofill, un canale di simpatia preferenziale che  neppure la delusione di questa lettura -sono certa- fiaccherà.
Avevo già usato l’espressione “ sa di poco” a proposito della Cilento e del suo “la Madonna dei mandarini”, subito –in quel caso- correggendo il tiro.
Qui, invece, non trovo argomentazioni sufficienti a rimangiarmi il giudizio. Una storia esigua. Buona scrittura, per carità, scorrevole e pulita. Raffinata, anche. Il ritmo complessivo della narrazione è pacato, disteso. Una passeggiata nei campi, questa, diversamente dall’affanno orwelliano di cui si diceva innanzi.  Tuttavia il libro si riduce a un filino di sottile di trama che non mi ha appagato affatto. Solo due i momenti in cui ha catturato con cipiglio l’attenzione: quando il protagonista, sulle tracce del Maestro Utrecht, fa riferimento a Montichiari, paese che conosco bene per essere vissuta nei pressi, e a Saarbrücken, posto nei cui paraggi vivo saltuariamente adesso e in cui mi trovavo proprio nei giorni in cui leggevo il romanzo. Motivi del tutto secondari e insufficienti –lo si comprende- a rivedere la mia idea.
Sotto a chi tocca e ora è il turno di “Non è un mestiere per scrittori” di G. D’Antona.
In questo caso il consiglio di lettura per gli appassionati di letteratura americana è perentorio: da leggere assolutamente.
D’Antona è un giornalista. Ha vissuto per un lungo periodo in America sulle tracce dei suoi scrittori preferiti, indagando inoltre gli ambienti della editoria, delle scuole di scrittura creativa e della letteratura in generale. Quello che ne è venuto fuori non è naturalmente un romanzo, bensì un lungo –siamo sopra le 500 pagine, che si sappia- reportage/ memoriale di viaggio piacevolissimo e soprattutto utile a chi –come la sottoscritta- in attesa di leggere “Il canone americano” di Harold Bloom, vuole mettere un po’ di ordine tra gli autori d’oltreoceano. Aneddoti, retroscena, analisi e giudizi interessantissimi. Un libro che vale tutti i soldi e il tempo che ci spenderete.

In chiusura di questa piccola rassegna, last but not least, Marilynne Robinson con Casa, tradotto da Eva Kampmann, edito da Einaudi.
Trattasi del secondo libro di una triologia nella quale la Robinsonn affida Gilead, piccolissima cittadina americana, e alcuni episodi a cui essa fa da scenario, alla narrazione di tre personaggi differenti ma legati tra loro. Ho scelto di cominciarne la lettura dal romanzo “di mezzo”, dove a raccontare il ritorno a casa è la figlia ultimogenita di un pastore, per un   personale capriccio.
Anche qui, come per il libro di D’Antona, mi sbilancio con un consiglio vivissimo di lettura.
In America la Robinsonn, insegnante di scrittura creativa in una delle più prestigiose scuole del paese, ha già riscosso tutti i tributi e le lodi che merita. Persino il presidente Obama si è ritagliato il privilegio di intervistarla data l’incondizionata ammirazione che le porta (e del giudizio di Barack lettore noi ci fidiamo fin da quando consigliò la Homes). Anche in Italia comincia a circolare il suo nome e qualche premio è già pure arrivato.
Il libro è molto bello. La scrittura pacata, mai forzata è fluida e calda. Quanto al contenuto, benché siano lontani intenti didascalici, può insegnare molto sui ritorni dei figliol prodighi, sulla paternità, sulla famiglia, sull’accettazione.
Per ora è tutto, passo è chiudo.

domenica 5 giugno 2016

Taccuino turco (4 Parte)

Se in Inghilterra i marchi più prestigiosi ed i negozi più raffinati si fregiano dell’approvazione della regina, a me bastava che negozianti e artigiani a cui mi rivolgevo possedessero le referenze delle consorelle. A rendermi circospetta non era tanto la preoccupazione di imbattermi in disonesti -ovunque nel mondo i malfattori restano, per fortuna, solo una piccola percentuale-  quanto l’ansia di finire nelle mani di persone prepotenti.
I tuoi figli, Smirne, come molti popoli che hanno storie antiche e travagliate alle spalle, sono dotati di un grande acume. Sopravvissuti in ragione di tale virtù a dolori e   sofferenze     hanno sviluppato quella nobilissima predisposizione dell’animo alla comprensione e alla solidarietà che i latini chiamavano piétas. Hanno   un carattere   perspicace, aperto e tollerante. Tutti tendono ad occuparsi dei grattacapi altrui, per senso del dovere o per semplice curiosità. Grazie alla loro sagacia non hanno bisogno di molto tempo o parole per arrivare alla soluzione dei problemi. Tuttavia è possibile che in alcuni prevalga sull’indole buona una vera e propria strafottenza -anch’essa probabile retaggio antico-  che dà origine a pretestuosi malintesi. Il segreto per capire quando ci si sta infilando in uno di questi vicoli ciechi mi fu suggerito da mia figlia, la quale mi mise in guardia dagli individui che ripetono continuamente “tamam”. Simile al napoletanissimo “va bbuon’” anche nel modo insolente in cui viene pronunciato, più che una genuina rassicurazione questo termine viene a significare: “parla pure quanto vuoi che tanto io faccio come voglio”. Con gli appartenenti al partito del Tamam non c’è alcuna possibilità d’intesa. Bisogna affidarsi piuttosto a   coloro che replicano con “anladım”, “ho capito”: questo verbo, solo questo garantisce che il lavoro sia eseguito secondo le istruzioni date.  Per sfuggire a spiacevoli incontri con gli appartenenti alla prima categoria -che pure ebbi occasione di sperimentare- restavo saldamente ancorata alle indicazioni delle suore: avevano selezionato una lista di persone che –come si era constatato in più occasioni e aveva sottolineato Vittoria, mia figlia-  sapevano ammettere con umiltà di “non aver capito “affatto.

A noi famiglie di militari, uccelli migratori per professione, come ad altri che sono costretti a spostarsi continuamente per lavoro, succede di vivere inizialmente grazie al passaparola. Ereditiamo dai predecessori le informazioni di cui abbiamo necessità e le utilizziamo fin quando non diventiamo tanto confidenti da sperimentare percorsi alternativi. Finiamo, con il tempo, per tessere una tela nuova, perfettamente aderente alle esigenze e ai gusti individuali, in cui vanno ad intrecciarsi la trama delle nuove scoperte personali con l’ordito dei vecchi consigli altrui. Se ci si confronta con altri che hanno vissuto nei medesimi luoghi ma in altri periodi spesso i racconti non coincidono. Allora, per giustificare le apparenti incongruenze della narrazione, gli episodi di queste personalissime saghe sono intervallati, quasi fosse una giaculatoria necessaria, dall’esclamazione “ai miei tempi”. Fin qui si è raccontato, per l’appunto, ciò che accadeva ai miei tempi.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...