Soccavo era, in quegli anni, un borgo di campagna all’ombra della collina dei Camaldoli, abitato da gente umile , saldamente ancorata alle proprie tradizioni contadine.
La rosa dei nomi di battesimo alla quale i miei compaesani solitamente attingevano, in armonia con la loro semplicità, si limitava all’elenco degli apostoli ed evangelisti, con un’indubbia preferenza per i Santi considerati più familiari e nostrani. Tommaso e Simone o Matteo e Marco, ad esempio, suonavano quasi esotici, poco adatti al proprio modesto contesto , nomi, cioè, appropriati più per ricchi o intellettuali.
I Soccavesi infatti prediligevano massimamente SS. Pietro e Paolo, cui era dedicata la parrocchia . Nel caso, tutt’altro che inconsueto, in cui i due Santi si fossero rivelati, in ragione della vena assai prolifica dei miei paesani, insufficienti alle esigenze ”nomenclatorie”famigliari,
Vigeva un’unica perentoria interdizione riservata a S. Giorgio, patrono di Pianura, quartiere limitrofo e rivale: il martire con il drago doveva rimanere confinato , strettamente, nel territorio di sua competenza.
Per le bambine, fonte esclusiva d’ispirazione era la Madre di Gesù; si cominciava, solitamente, con l’omaggio alle due statue femminili della chiesa, una Maria semplice e una Addolorata , per poi scandagliare tutto il vasto campionario delle Madonne. Quasi in ogni casa si potevano trovare, in questo esatto ordine di successione, Assuntina , Carmelina, Immacolatella. Non c’era margine d’errore, l’ultima delle “piccirelle” sarebbe stata infine sicuramente una “Nunziatina”.
Vi era poi un altro elemento determinante nella scelta dei nomi. Al di sopra di ogni gusto o preferenza personali, infatti, si ergeva la vera regina del mos maiorum, ovvero la legge della “supponta”, secondo la quale, ai nipoti maschi primogeniti andava il nome del nonno paterno e alle nipoti femmine quello delle nonne. La norma era derogabile unicamente per adempimento di un sacro voto, formulato ad impetrare una grazia: in tali casa la Madonna del Rosario non temeva rivali.
Il combinato disposto dei due fattori: pochi nomi semplici e l'’uso di tramandarli reiteratamente dal capostipite all’ultimo dei nipoti , trasformava l’onomastico, da fatto privato, ad unica celebrazione collettiva.
Nel giorno designato dal calendario, ogni clan di ciascuno ceppo aveva il “santo “in casa. Anzi, il numero dei santi era assolutamente sovrabbondante, data la gran quantità dei consanguinei omonimi: nonni, zii, cugini. Impossibile, per vicini o conoscenti, omettere il doveroso tributo degli auguri.
Cosa del tutto diversa era invece il compleanno: la consuetudine di spegnere la prima candelina c’era, ma dopo il primo anniversario non erano previste altre feste. La data di nascita restava un fatto privatissimo, di cui oltre al diretto interessato si ricordava la mamma, che aveva patito le doglie, e forse le comari che l’avevano assistita, e che del lieto evento custodivano gli aneddoti salienti.
Solo molto tempo dopo, agli inizi degli anni ottanta, quando il principio della sopponta cominciò a vacillare sotto gli attacchi violenti di nomi più “fini”e “distinti “, originando grosse e sanguinose secessioni famigliari, anche Soccavo e i suoi abitanti si lasciarono conquistare dalla moda “nordica” di festeggiare il genetliaco.
Per me, invece, le cose andarono diversamente. Questa sorta di emancipazione arrivò ben prima, attraverso sentieri bizzarri .
La circostanza che la mia data di nascita coincidesse con la festa dei Santi Pietro e Paolo, giorno di solenne celebrazione per l’intero quartiere, rese più semplice, quasi naturale, l’introduzione della festa per il mio compleanno.
Ero la prima, attesissima nipotina da parte di madre, godevo, quindi, la condizione privilegiata di una venerata reginetta. Tuttavia il Santo cui ero dedicata, inflazionato nella casata di mio padre -papà, infatti, era ultimo di cinque fratelli già tutti prima di lui diventati genitori- entrava in questo ramo della famiglia per la prima volta con me.
Benché la nonna materna non dimenticasse mai all’onomastico di festeggiarmi con regali favolosi, e Sant’Antonio godesse del massimo rispetto, non si potevano fingere verso di lui, né devozione ne’affezione autentiche: era decisamente “fuori razza” .
Viceversa, poiché la tavolata in onore dei santi patroni sarebbe stata in ogni caso imbandita, come da consuetudine, bastò unire l’utile al dilettevole:far spuntare, cioè, a fine pranzo il dolce con le candeline, per dare corso alla nuova tradizione del taglio della torta in mio onore.
Cos’altro, più di un compleanno , quando sei bambina, ti porta così vicino alla felicità?
Mi svegliavo con la consapevolezza che quel giorno sarebbe stato tutto mio, speciale, lungo e pieno. Avrei indossato il vestito nuovo, confezionato per me dalla mamma. Avrei acquistato la palla di segatura con l’elastico alle bancarelle arrivate per la festa di piazza, anzi, me ne sarebbe stata concessa anche una seconda, quando la prima si fisse rotta, senza necessità di far capricci. Avrei mangiato, a tavola, le pietanze che io avevo richiesto, mi sarei alzata sulla sedia e averi soffiato sulle candeline. Durante la processione dei Santi, mi sarebbe parso di sfilare anche io, in trionfo , come una piccola statuina.
Sono nata il 30 /x/ 19yz e nonostante sia ormai una donna matura, ogni volta che penso o mi trovo a pronunciare questa terna di numeri, mi pare sia la data più bella del mondo.
Se importante è ciò che cambia il corso di un destino, considero tali, unicamente, le date di nascita delle mie figlie. Ventix y novantaxx / Quattro z novantxy
versi, claudicanti nella metrica e imperfetti nelle rime , di una poesia che del tutto casualmente , la maternità ha composto per me.
La bellezza della mia data di nascita, è cosa diversa. Spogliata da implicazioni filosofiche, e svincolata da leggi estetiche, la bellezza che non deve corrispondere al buono e non ha necessità di accordarsi con canoni oggettivi, è semplicemente un suggerimento, un’esortazione al sorriso.
Ditemi se non è proprio così che devono essere le date più belle del mondo!