Oggi mi hanno proposto un affare, e io l’ho colto al volo, senza preoccuparmi se fosse buono. L’ho afferrato senza indugio, conscia che – come s’ evinceva dal sorriso furbastro, retro_espressione della facciata posticciamente ingenua dell’imbonitore- agli occhi di chi me lo rifilava incarnavo il proverbiale pollo da gabbare.
Non ne volevo parlare, giuro!
Ma rimuginare non serve a niente, se non si può esternare, soprattutto quando il topic è di quelli per voi ad alta sensibilità e sui quali ci prendete abbastanza.
Il fatto è questo: tornando dalla presentazione de “ Il corpo del reato” di Carlo Bonini ( inchiesta giornalistica sul caso Cucchi) ed. Feltrinelli, mi reco all’appuntamento con mia figlia davanti ad una nota libreria di catena, dove vengo intercettata da un giovanotto che mi propone l’acquisto del suo libro.
“Lei legge?” - esordisce
Nel momento in cui decido di rispondere –superfluo aggiungere affermativamente?- ho già ingoiato coscientemente l’amo che mi si è parato davanti, spropositatamente grande rispetto alla risicata e non freschissima esca con cui si pretende di occultarlo.
Potevo essere cattiva e snobbarlo. Invece, volenterosa, decido che cinque euro ce li posso “rifondere”. Lui sente l’ebbrezza della piccola vittoria portata a segno e gongola ancor di più quando gli dico che non solo leggo ma scrivo anche di libri. E’ sveglio, il ragazzo. Intraprendenza ne ha da vendere e mi chiede subito una recensione, sottolineando che il libro mi piacerà.
C’è un prezzo per tutto. Decido che il sedicente “scrittore” mi dovrà un corrispettivo per i miei euro. Congrui mi sembrano: un serrato interrogatorio e una essenziale ramanzina.
Gli chiedo del suo percorso di studi, di cosa legga, se ha avuto un editor o quanto meno un lettore b, quanto abbia pagato per realizzare il suo sogno.
Nell’ordine viene fuori che è studente di scienze motorie, che non legge essendo occupato nello studio ( e ad imbrattare pagine bianche, evidentemente), che glielo ha letto, il libro, una non meglio individuabile professoressa di italiano.
Ne deduco che non stiamo maneggiando quella fattispecie che va sotto il titolo “ realizzazione di un sogno” quando piuttosto la fase conclusiva di un progetto istintivo ( che tuttavia denota forte interiorizzazione dei principi del più genuino yuppismo anni ’80) oscillante tra la soddisfazione di un capriccio estemporaneo :” mi è venuta in mente questa storia, che è veramente bella ( si sbilancia senza un briciolo di umiltà)” e un ruspante piano per raggranellare qualche soldo commercializzando il manufatto. (L’obiettivo affinché questa rudimentale società commerciale chiuda in attivo il suo bilancio è minimo. Per recuperare i cinquanta euro delle spese di produzione basta, infatti, che venda 10 libri. Dubitate voi che la città scarseggi di altri nove fessi, oltre la sottoscritta?)
Mi sovviene la celebre frase di Abbie Hoffman “Eravamo giovani, eravamo avventati, arroganti, stupidi, testardi. E avevamo ragione!”
Cinque su sei, niente male. Giovane è giovane. Avventato pure. L’arroganza non manca e non gli difettano stupidità e testardaggine. Ma in quanto ad avere dalla sua la ragione, ah! Quanto ne corre.
Ci passano “le novantanove bottiglie di pipì” a cui sempre penso quando si parla di self publishing (vanity press, in inglese) dell’omonimo capitolo tratto dal libro ““Il cuore è idiota” di Davy Rothbart, dove l’autore narra di come, per rivincita su un impostore, reo d’avergli raggirato il padre illudendolo con promesse di successi sicuri, gli invia giorno dopo giorno, appunto, un arsenale di novantanove bottiglie di urina. Non ho a portata di mano simili munizioni e sopperisco infarcendo di consigli e rimproveri il pistolotto che destino al mio scrivano : leggere molto (gli faccio dei nomi), cominciare a gettare un occhio serio sul mondo letterario e quello editoriale, trovarsi un editor che lo corregga, lo guidi, che sinceramente e con competenza giudichi il suo lavoro. Che abbandoni la via del self publishing almeno in quella forma così pressappochista e minimale a cui si è avvicinato. Cinquanta euro, per questa volta, passino. E’ stato persino fortunato, dato che per il futuro potrebbe finire in bocca a squali più famelici.
Apro una pagina a caso del libro e l’occhio mi cade su un periodo che si conclude in un tripudio di punti esclamativi. Gli faccio notare che l’enfasi di una frase non è data dal numero di punti d’esclamazione, che ne basta sempre e solo uno!!!! Fa una faccia strana e mi chiede di ripetere il concetto. Mi rendo conto che me lo sono perso alla parola “enfasi”. Ci scappa qualche rimprovero.
L’ultima cosa la dico tra i denti, quasi a me stessa:” Chissà, magari avessi mai letto un Harmony, già avresti capito un po’ più cose sul mestiere di scrivere”.
Sono sempre stata una che fa i compiti. Anche questa volta, leggerò le 129 pagine del libro. Nulla a che fare con la curiosità. Neppure con l’ansia di stroncare. Lo leggerò piuttosto – per un sadico contrappasso- con lo stesso spirito con cui guardo certe performance canore ai provini di x factor.
Per cercare di individuare responsabili e responsabilità di una deriva pressappochista nociva e altamente contagiosa.
Chi non ha spiegato al giovanotto che c’è una differenza tra “scrivente” e “scrittore”? Che il talento non è prevalentemente roba di pancia ma è questione di studio, disciplina, confronto? Che è una colpa grave ignorare l’esistenza dei vari livelli di scrittura, dei tanti generi letterari, delle tecniche di narrazione?
Chi non si è assunto la responsabilità di cassare il capriccio velleitario di un ventunenne?
Scoraggiare, infrangere sogni, tarpare ali. Brutte espressioni, “lavori difficili” per gente dura, ma di cuore. Infatti, in storie come questa di illusioni malignamente alimentate, non sempre i cattivi sono quelli che così ci appaiono a prima vista. Più crudele di chi smorza gli entusiasmi e ridimenziona i talenti è colui che manda, per tornaconto, ignavia, mancanza di professionalità, il debuttante allo sbaraglio.
“Scriverà del mio libro?”
No. Non scriverò nulla. Se però un giorno riuscirai a diventare scrittore, colmando tutte le lacune che ti porti dietro, ricorda che questo esordio peserà sulla tua carriera come la prima e unica foto di nudo nel curriculum dell' attrice.
domenica 20 maggio 2018
Intraprendenza giovanile
venerdì 4 maggio 2018
" Bruciare tutto" di Walter Siti
Scrivere di “Bruciare tutto”, di Walter Siti, edizioni Rizzoli, è difficile.
Pur prescindendo dal giudizio espresso da Michela Marzano nell’articolo “La pedofilia come salvezza: il romanzo inaccettabile di Walter” http://www.repubblica.it/cultura/2017/04/13/news/pedofilia_walter_siti-162874167/ e dalle polemiche scaturitene, è comunque
complicato cimentarsi in valutazioni sulle quali non pesi la soggezione verso l’ autore.
E’ insolente improvvisarsi difensori di Siti, cui non fanno difetto ne’ penna, ne’ ponderazione per far da sé. Temerario, al limite del peccato di hỳbris, nominarsi portavoce o esegeta di un maestro a cui è riuscito di saldare la parola al concetto, con un risultato di reciproco rispecchiamento così perfetto da rendere improbabili i fraintendimenti. Pressoché comico buttare là un: — “io penso che…” “sono convinta che”, a proposito di un intellettuale a cui va riconosciuta la primogenitura su un linguaggio modernista, consustanziale al contemporaneo di cui narra, nel quale si rivelano pienamente l’estro e l’abilità creative con gli esiti di chiarezza di cui si diceva innanzi. A voler interpretare Walter Siti, insomma, ci si espone al pleonasmo. A decifrarne la volontà e l’intento si rischia solo di stravolgere e/o falsificare quei contenuti affidati a una lingua meritoria di risalire dall’individuale dei dialoghi da cui germoglia, all’universale della realtà storica e sociale di cui diviene cristallizzazione, modello obbligatorio per gli scrittori che parlino del medesimo presente.
Un tale azzardo resta possibile e conviene solo in rete, dove le incommensurabili distanze cibernetiche ci mettono al riparo dall’eventualità che l’autore si imbatta nei nostri ghiribizzi sul tema.
Mi sono fatta l’idea, ordunque, che “ Bruciare tutto” sia un ulteriore capitolo –speriamo non conclusivo- del grande romanzo sull’ odierno che Siti va scrivendo libro dopo libro. “Resistere non serve a niente”, ci ammoniva l’autore nell’anno in cui conquistò lo Strega. Il passo successivo fu pianificare una “Exit strategy”. Risolutivo è sicuramente “Bruciare tutto”.
Questo ultimo libro sta -mio modestissimo parere- all’intera produzione di Siti come l’omelia del protagonista Don Leo, pronunciata nel “ Fidei donum” nono e ultimo capitolo, sta all’intero romanzo: con mero intento provocatorio. Il prete sceglie di essere a tal punto disturbante nel suo sermone d’addio, il “suo testamento”, da mettere letteralmente in fuga i presenti. Sceglie di sintetizzare tutti i dubbi accumulati nella sua vita e nella sua opera pastorale in un excursus che culmina nell’esortazione a rivedere “il nostro stile di vita”, l’idea che “la vita umana è la cosa più importante e che la religione (…) un fatto privato (…), entrambe affermazioni non vere, essendo centrale solo la volontà di Dio”. Sceglie di profetizzare la necessità di “ un progetto di rivolta” perché “non esiste Dio senza rivolta” -dal momento che -“ l’umanità sopravvive, cioè vive sopra se stessa, soltanto se mette in conto il pericolo della propria estinzione…”
La pedofilia, il tabù dei tabù, piuttosto che elemento dominante, esclusivo, della narrazione ( pochi i riferimenti espliciti, esigue, anche nel numero, le pagine dedicate) mi pare, cioè, solo il pretesto, l’espediente più indisponente che Siti abbia trovato sottomano, ma tuttavia contiguo ai suoi soggetti tradizionali, per imporre un ripensamento dei temi solenni e centrali al cattolicesimo, smembrato da strumentali e devianti interpretazioni.
L’uomo, che nei precedenti romanzi ( “passeggiate archeologiche nelle vite devastate”- saccheggiamo la frase al Siti attuale) si perdeva nel nichilismo della droga, dello svilimento del sesso, della finanza creativa, deve recuperare se stesso sciogliendo –o più propriamente- riannodando il cappio scorsoio della religione, riprendendo il dialogo con e l’obbedienza a Dio.
Cosa ne è della “grazia”, del peccato, del diavolo, a cui ci si riferisce sempre più sporadicamente come fonte del male. Il credente cristiano è come l’avventore che, in uno splendido lapsus tra distrazione e ignoranza, chiede del “Prosciutto di Prada”. E’ un essere che ha confuso i piani della giustizia, della morale e della religione, eliminato i confini tra il dovere e il piacere, perdendo la bussola e restando menomato sia come essere individuale che sociale. “La religione — dice Don Leo- non si fa: si patisce semmai, si asseconda e si gode, eventualmente si applica”.
Non intendo tornare sulle considerazioni della Marzano. Ne’ indagare il tema vastissimo dei luoghi in cui un autore debba attingere “il materiale” di scrittura. Pronunciarmi sulla liceità del cogliere solo dall’alto o della opposta possibilità di estrarre dal basso. Dico solo che Walter Siti si conferma una voce imprescindibile per ripensare al contemporaneo. L’unico capace di scrivere una “ Guernica” davanti alla quale ci inchiodino le opere, le parole, le omissioni di cui siamo colpevoli, rimasti orfani- per parricidio- di Dio.
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