sabato 21 maggio 2016

La madonna dei mandarini di Antonella Cilento

Sulle righe finali   de “La Madonna dei mandarini” di Antonella Cilento, edizioni NN, mi sono detta: questo libro sa di poco.
Poiché tuttavia resto estremamente polemica, anche con me stessa, mi sono predisposta immediatamente a confutare tale giudizio, dato che il racconto  mi è piaciuto.
Antonella Cilento è una prolifica scrittrice napoletana, classe 1970, che vanta importanti piazzamenti: si veda tra tutti, la finale dello Strega, nel 2014, con “Lisario o il piacere infinito delle donne”.
Di suo non avevo ancora letto niente. Come ho ripetuto più volte “un lettore seriale resta prima di tutto un collezionista la cui ambizione è di arricchire la propria raccolta”, dunque dovevo colmare la lacuna.
“La madonna dei mandarini “  conta 87 pagine. Quindi, ritornando alla riflessione iniziale, la prima obiezione che mi sono opposta – la riporto così come pensata- è stata: - “neh, ma tu che volevi da 87 pagine? -
“Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore” avrebbe detto il poeta. “E infatti non mi sto lamentando per quello. I libri non si valutano un tanto al chilo”. Mi sono risposta.
La storia –che non accennerò perché è ormai nota la mia idiosincrasia per le “recensioni-sinossi”, se la volete sapere nel dettaglio accattatevi il libro-  è godibilissima. Si articola in tre movimenti e un epilogo. Dall’ingresso in scena all’uscita dei personaggi dalla medesima, una piccola sinfonia in crescendo.
La scrittura è napoletanissima, se è lecito tentare una simile definizione. Tale in ragione della cadenza dialettale di sottofondo che a tratti si fa quasi parlato obbligandoti a leggere con la piacevolissima cadenza partenopea. Tale per le ambientazioni, tutte in luoghi riconoscibilissimi della città, ad eccezione della breve parentesi vacanziera  siciliana nel finale.  Ogni tanto, per chi come me, scorrazza in tanti libri e dunque nei disparati luoghi dove essi mi portano, una capatina “al natio borgo”, tra la propria gente, è una vera e propria passeggiata di salute.
Le storie  raccontate sono del pari ben strutturate, intrecciate in maniera scorrevolissima.
Il “sapore di poco” lo lasciano, oltre alle pietanze che disattendono le aspettative per qualità , altre che lo fanno per quantità, ma solo perché se ne vorrebbe ancora. Questo è. Qui di qualità non si discute,  avrei voluto  solo qualche movimento in più delle vite alle quali l'autrice mi ha fatto affezionare. Ma poi ho capito di essere ancora in torto. Antonella Cilento ci ha presentato esistenze comuni, di quelle che, dopo il passaggio dello scrittore, quando si spengono i riflettori della narrazione, ritornano presumibilmente alla propria normalità. Scriverne di più sarebbe stato voyeurismo, accanimento a perdere. E allora bene così. Mettiamo pure questa " Madonna dei Mandarini" sopra il nostro devoto altarino.

venerdì 20 maggio 2016

taccuino turco (3 cap.)

Le radici strappate dalla terra d’origine soffrono mentre cercano nuovi equilibri. Per giorni esitano in superficie, sondando da che parte provenga l’acqua, si irradi la luce o spiri il vento prima di risolversi a penetrare il suolo in profondità.
L’emigrazione è un’esperienza faticosa. I più fortunati godono dell’aiuto di angeli custodi, sotto la cui ala protettrice superano le complicate fasi iniziali. Ogni passo sarebbe ancor più duro e il nuovo sentiero più impervio se non ci fossero queste provvidenziali figure a tenerci per mano. Io sono tra quei privilegiati che, nell’avventura spinosa dell’espatrio, hanno conosciuto l’altruismo e la generosità.
Tutte le mattine c’era qualcosa di nuovo di cui occuparmi: faccende urgenti da sistemare, problemi da risolvere, cose da comprare, posti da raggiungere. Le tasche erano sempre piene di appunti e note, la testa sempre alla ricerca di una soluzione e di un’anima pia disposta all’aiuto. E ogni giorno il fato disseminava la mia strada di guide, traduttori e consiglieri, cosicché rincasavo stanca, ma sempre orgogliosa e soddisfatta di essere avanzata di un altro passo verso il traguardo della normalità.
Il mio mondo si popolava di nuovi compagni di viaggio. Volti sconosciuti irrompevano nella routine quotidiana per entrarne a far parte stabilmente. Ero confortata dall’idea che, aggirandomi per il quartiere, potessi scambiare un saluto e qualche parola, ad esempio, con le “levantine”, discendenti dei coloni italiani, strette con le famiglie in una piccola comunità molto affiatata, orgogliose protettrici delle tradizioni e della lingua degli avi, nonché custodi, in terra musulmana, della religione cattolica. Mi sentivo, in un certo senso, meno sola e più a casa ogni volta che le incontravo. Se del tutto insperatamente riadattai le ricette di famiglia alle nuove latitudini, permettendo ai miei cari di rifugiarsi, contro la nostalgia che a volte li coglieva, nei sapori consolatori della nostra cucina, fu esclusivamente merito loro. Non c’era ingrediente di cui non mi indicassero l’equivalente, con il loro italiano da un accento antico: dal basilico, fesleğen, alla ricotta, lor, dal mascarpone, kayma, al lievito di birra, maya, e di cui mi suggerissero poi con esattezza la bottega o il banco del mercato dove reperirlo.

Senza l’aiuto delle suore, tuttavia, non mi sarei ambientata facilmente nel quartiere. Grazie a loro scoprii, infatti, che nel dedalo di viuzze di cui avevo diffidato inizialmente si celava un vero e proprio tesoro di piccole botteghe. Se chiudo gli occhi riesco a rivederle tutte. Sarei in grado di recitarne a memoria l’esatto ordine di successione. C’era il ciabattino sempre sorridente, la sarta, Ayshè, con la quale col tempo riuscii a fare anche lunghe chiacchierate, il fioraio, a cui ci rivolgevamo per i bouquet con cui si usa rendere omaggio alle insegnanti nel giorno della loro festa nazionale. Ricordo il pescivendolo, un omaccione che mi avrà pure rifilato del pessimo pesce, ma sempre con estremo garbo e gentilezza, e infine l’affabile corniciaio, che esaudiva con ben celata rassegnazione ogni mia richiesta.

giovedì 19 maggio 2016

taccuino turco ( 2 cap.)

Quello che avevo visto non mi aveva lasciato indifferente. Mi imposi di gettare a quel punto nuove premesse per una pacifica convivenza. Ma come in ogni inizio di rapporto a due che si rispetti, nonostante la dichiarazione di volontà, altri fraintendimenti e scaramucce si frapposero tra noi, rendendo i primi tempi vivaci.
Non avevo la minima idea di come suonasse la lingua turca. Pertanto fui afflitta per giorni da quello stato di sordità e di mutismo che all’estero ci fa reagire anche alle più piccole difficoltà con stizza. Non poter ringraziare o accennare il più elementare saluto mi facevano sentire scostumata e irriconoscente verso le persone che cercavano di aiutarmi. Ero sconsolata, non riuscendo ad avanzare con chiarezza le mie richieste agli agenti immobiliari. Mi sentivo quasi d’essere un loro ostaggio mentre li seguivo, in cerca di una casa decente da prendere in affitto, nei più remoti angoli della città, mentre andavo su e giù per palazzi vecchi e malridotti, mentre visitavo appartamenti da incubo per i quali mi si chiedevano pigioni esorbitanti. Quanto grande è il senso d’impotenza che si prova a non poter insultare un giovanotto che, con faccia da schiaffi, ti chiede 1000 euro per un appartamento vintage anni sessanta, al sesto piano, senza ascensore, con cucina priva di finestra e con in bagno la famigerata “turca”, l’ho sperimentato allora.
Poi fu la volta della scuola per le figlie. A stento ho creduto ai miei occhi ritornando oggi nel posto dov’ è la scuola italiana: invece d’invecchiare sei addirittura ringiovanita. E’ straordinario il lavoro che hai fatto in questi tre anni per ammodernarti anche in quel piccolo angolo di città. Non è sopravvissuta traccia dei marciapiedi stretti e sconnessi dei miei tempi, i nuovi sono spaziosi e comodi. Anche i negozi, allora botteghe spartane, ora sono moderni e eleganti. Che brutta impressione mi facesti quando venni per la prima volta nel cuore della vecchia Alsancak per iscrivere mia figlia Vittoria alla scuola Italiana. Fui assalita da un crescendo di spiacevoli emozioni. Nell’arco di mezz’ora la lieve agitazione si trasformò in inquietudine, che a sua volta sublimò in vera e propria disperazione. Seguendo le indicazioni che mi ero procurata, svoltai dinanzi al Centro Italiano di cultura. Mi addentrai, così, nel vicoletto dove sorge l’edificio scolastico, lasciandomi alle spalle la popolatissima e rassicurante Kibris Caddesi, un’enorme strada da noi italiani ribattezzata “la pedonale” essendo interdetta al traffico dei veicoli. La 1454 Sokak – in Turchia le stradine secondarie sono indicate con una numerazione progressiva a differenza delle vie principali, alle quali invece sono riservate i nomi - esordiva con un diroccato, anzi decrepito bagno pubblico per soli uomini, gestito da due omaccioni che mi ispirarono sul momento una gran diffidenza ma che, tutte le volte che ce ne fu una qualche necessità, si dimostrarono verso di noi solerti e protettivi. A seguire c’era un polveroso negozio di rigattiere nel quale, a dispetto del giuramento di non mettervi mai piede fatto quel giorno, in seguito ho perfino comprato uno sgabello. Infine, sul fondo della viuzza si ergeva una palazzina malandata, abitata da un gruppetto di attempati transessuali molto discreti che, nei locali del piano terra affacciati sulla strada, proprio dirimpetto al portone della scuola, gestivano un modesto e riservato salone di parrucchiere.
Potendo decidere diversamente non avrei portato mia figlia di sette anni in un posto come quello, ma non c’erano altre scelte. Concentrata in questa riflessione, giunsi innanzi al cancello del “Özel İtalyan Ana ve İlk okulu” e suonai il campanello. Dalla soglia fece capolino, circondata dalle consorelle, la suora che dirigeva la scuola invitandomi a entrare. La considerazione che il muro perimetrale delimitante l’intero fabbricato, almeno a prima vista, sembrasse inespugnabile fu di conforto. Passando velocemente in rassegna il gruppetto di religiose, con sollievo, constatai poi che i loro sorrisi docili, più che di eteree creature mistiche come mi ero immaginata, tradivano un temperamento da energiche guerriere. Sarebbero state perfettamente in grado di difendere l’edificio e i suoi occupanti - pensai- nel caso in cui qualche malintenzionato fosse riuscito a scavalcare. L’immagine mi strappò addirittura un sorriso. Tuttavia la ventata di ottimismo spirò solo per una manciata di minuti, fino a quando non misi piede nella palazzina ottocentesca.

“Come il mulino odora di farina
e la chiesa d'incenso e cera fina,
sa di gesso la scuola.
E' il buon odor che lascia ogni parola
Scritta sulla lavagna
Come un fioretto in mezzo alla campagna.”
Per magia il tempo si era fermato ed io ero entrata nella scuola di cui parlavano i versi di questa vecchia poesia delle elementari. Nell’angolo della classe dove fui fatta accomodare, proprio là dove mi aspettavo che fosse, c’era l’enorme lavagna di legno, con una facciata a quadretti e l’altra, nascosta sul retro, a righe. Le facevano compagnia i banchetti a due posti, anch’essi in legno, con il piano a ribalta e tanto di buco per il calamaio. La palla color latte del lampadario, come mi ero immaginata, pendeva dal soffitto. Il pavimento –nemmeno a dirlo- era piastrellato con la classica graniglia nera incorniciata dalla greca scura. La cartina fisica dell’Italia, infine, occupava la parete alle spalle della cattedra. Mancava -pensai- solamente la fotografia del re. Anche il refettorio non riservò sorprese. Vi trovai, infatti, i tavolini tondi di formica verde, circondati dalle minuscole sedie dello stesso colore. Ero –con tutta evidenza- risucchiata tra le pagine del libro Cuore. Da un momento all’altro mi sarebbe venuto incontro il Maestro Perboni insieme al buon Garrone. Terminai la visita con un nodo alla gola e gli occhi di lacrime. Sperai che le parole di Suor Roberta, la direttrice, - “Le scuole appaiono tutte tristi, quando sono vuote, i bambini le rendono allegre e vive, vedrà, vedrà” -  si avverassero.



martedì 17 maggio 2016

la premonizione dell'automobilista


Ci sono posti al mondo dove guidare è un vero inferno.
Prendi la Germania ad esempio. Non puoi distrarti un attimo, non puoi concederti un minuto di relax ad un incrocio che paralizzi il traffico: dall'altro capo del quadrivio, infatti, restano tutti fermi impalati ad aspettare che svolti nel pedissequo rispetto delle precedenze. Ma buttatevi, vi prego. Fatevi pure avanti, che io non vi porto mica rancore.
E poi ci sono luoghi dove guidare è il paradiso. Dove, altro che regole, semafori, segnaletiche e codice stradale, tutto è rimesso al buon senso…di chi ce l’ha.
Scherzi a parte: scarrozzare ultimamente in macchina la più giovane delle mie figlie -lo ammetto- mi mette un po’ a disagio. Deve prendere il patentino e quindi venire a zonzo con me equivale ad un ripasso, talvolta ad un approfondimento, perfino ad un aggiornamento  di quello che le spiegano a scuola guida.
Fa domande, si informa, fa esempi, pone quesiti.
E io tra una bestemmia e l’altra, una malaparola e una gentile esortazione rivota agli altri automobilisti, provo a risponderle. Oggi, mentre cercavo di destreggiarmi tra il variegato campionario di piloti, non ce l’ho fatta e ho tagliato corto.
“ La verità, bella di mamma, è che essere al volante di un’automobile, in certi angoli del mondo, presuppone unicamente una dote: la preveggenza.
Bisogna avere naturalmente cento occhi, puntati avanti, indietro, al lato. Ma soprattutto c’è bisogno di un costante esercizio di fantasia. È necessario buttare occhiate ben oltre il punto dove il codice impone al guidatore di concentrare lo sguardo. È il pensiero dell’automobilista accanto che va presunto: non già l’attuale direzione verso cui punta la macchina, ma quella dove la dirigerà da qui ad un attimo. Si butterà in quel determinato tratto? Sorpasserà incautamente nell'altro? Accosterà, senza mettere la freccia, naturalmente, esattamente a ridosso dell'incrocio perché deve scendere a comprare il carciofo alla brace? Passerà con il rosso o ripartirà non appena il segnale pedonale sarà diventato arancione? Tu lo DEVI sapere, lo devi percepire prima.
Guidare in certi posti  è un approfondimento antropologico. Un esperimento sociologico. Un esercizio di psicologia, ma soprattutto un numero per provetti mentalisti.  E chest’è, bella ‘e mammà!”





venerdì 13 maggio 2016

Quando il rosso non è simbolo di passione

Su certi argomenti confesso una certa ostinata chiusura mentale.
 In fatto di simboli ammetto di essere “bacchettona”. Sono cosa seria e mi dispiace quando vengono sottratti alle loro destinazioni originarie per una pura faccenda di “moda” o peggio. 
 Mettiamo i tatuaggi, ad esempio. Un tempo strumenti espressivi di determinati gruppi etnici, passati poi ad alcune categorie sociali — i pirati, marinai e carcerati- ora sono ridotti spesso allo status di banali scarabocchi su corpi usati come comuni fogli su cui appuntare la qualunque.
 Stesso destino per la barba. Ha avuto nei secoli un grande valore rappresentativo, ancora oggi immutato in determinate culture. Alle nostre latitudini è ormai irreparabilmente svilita ad “accessorio” di tendenza.
 Lunga premessa per arrivare al punto.
 Una nota ditta di yogurt ha scelto, per pubblicizzare il suo prodotto, di far comodamente sedere la protagonista dell’ultimo spot su una poltrona bianca circondandola con molte paia di scarpe rosse ,“ passione” delle donne -pare- per antonomasia.
 Come direbbe qualcuno:” Houston, abbiamo un problema!”
 Le scarpe rosse sono state già opzionate come simbolo di altra causa.

Elina Chauvet
Era il 2009 quando l’artista messicana Elina Chauvet, con un progetto denominato “Zapatos Rojos”, volle rappresentare, proprio con paia di scarpe di quel colore, la mattanza delle donne, per mano di uomini ad esse legate da vincoli sentimentali, che si perpetrava impunita dal 1993 a Ciudad Juárez, città del nord del Messico.
A quel tipo di carneficina si è dato il nome di “femminicidio” e le scarpe rosse ne sono diventate un emblema internazionalmente riconosciuto.
 Trovare dei simboli cui affidare messaggi di un certo valore sociale è difficilissimo.
Mi lascia perciò l’amaro in bocca la scelta fatta nello spot.
Perché sovrapporsi, con un riferimento tanto esplicito, a una nobile causa per un grezzo fine commerciale? 
 Civettuole paia di scarpe rosse, in un contesto quasi paradisiaco, snaturano, sviliscono e svuotano di ogni valore un simbolo univocamente accettato, che voleva e vuole essere raffigurazione di vite spezzate e non iconografia di oggetti bramati per capriccio.
Mi chiedo se non ci fossero altre passioni a cui rimandare? 
Capisco la necessità di utilizzare entrambi i colori, bianco e rosso, per un richiamo diretto al prodotto yogurt e al sentimento passione. Ma bastava un minimo sforzo di fantasia -che non dubitiamo essere nelle corde di creativi blasonati- per uscire dall’impasse in modo più elegante. Sostituire le calzature con le borse, altro oggetto di desiderio al femminile, magari.
 Ci ho pensato a lungo–confesso quest’ultimo retropensiero- prima di scrivere queste righe, consapevole che in pubblicità vale la massima “bene o male, purché se ne parli”, e non volendo essere un veicolo involontario della réclame.

 Ci solo casi in cui vale la pena di correre il rischio. Quando, come nel nostro, il pericolo è banalizzare il male, semplificarlo, volgarizzarlo, quando cioè, sulla bilancia ci sono valori così evidentemente sproporzionati –mi sono detta- allora tacere è l’unico azzardo.

mercoledì 11 maggio 2016

Gomorra

Mentre siamo a metà del primo episodio, con il fiato sospeso davanti alla crudeltà di un “femminicidio” commesso a mani nude, mia figlia rompe il silenzio e chiede: - “ma secondo te, i camorristi lo guardano?” -
Parliamo di Gomorra, di cosa se no.
Ci rifletto qualche istante e poi rispondo di sì. Saranno incollati pure loro al televisore per “spottare” eventuali errori  e imprecisioni.
Mentre ci  elettrizziamo per certe scene -il filo della narrazione è rigoroso e univoco, e ti spinge dentro allo schermo-   commentando che l’unico neo  di questa storia è che da ora si ricomincerà tutti a parlare con l’accento perentorio e un po’ “fesso” alla Savastano padre, le timeline di fb e twitter si riempiono di commenti.
I più chiedono, con tono desolato, perché guardare tanta bruttezza, sottolineando  l’inopportunità dell’atto
Provo a rispondere mettendo in ordine le mie argomentazioni a sostegno della opinione opposta.
1)L’occhio è mobile e lo sguardo deve spaziare. Il paraocchi è un oggetto che   limita il cavallo, lo piega alla volontà altrui : all’uomo libero non si addice.
2)  Non so se "a rigor di canone" le serie televisive  rientrino  nella settima arte  a pieno titolo. Propenderei per il sì.  
Gomorra è una fiction. Un manufatto artistico/commerciale diretto ad una fetta di pubblico/mercato. Deve essere perciò valutata come si giudica un prodotto di quella categoria. Tenendo presente che il linguaggio ( scrittura, sceneggiatura, regia, fotografia, costumi, trucco e parucco)  deve essere sempre funzionale in modo congruente al fine ultimo dell' intrattenimento.
Gomorra rappresenta il brutto e dunque non fa bene guardarlo?
Ci sono fiction  italiane che ritraggono “il bello” così falsatamente, in maniera così fintamente ingenua,   edulcorata, direi addirittura strumentale, che finiscono per ammantarsi di una bellezza infinitamente più diseducativa della  presunta bruttezza inscenata da Gomorra. Penso, ad esempio, ad alcune puntate dell’ultima serie di “un medico in famiglia” –per dirne una-  che mi parvero addirittura mortificanti.
Che la nostra industria cinematografica si allinei, qualitativamente, agli standard raggiunti altrove è una conquista da salutare con entusiasmo.
3)Chi ha detto che il Kalos kai agatòs (bello =buono) debba calzare a tutte le espressioni artistiche?
L’arte è anche provocazione. C’è del brutto nel mondo e la rappresentazione del brutto ha uguale diritto di cittadinanza perché può avere anch'esso valore educativo.
A guardare Gomorra a me è venuto in mente “Guernica” di Picasso. Non mi direte che a prima vista evoca le medesime impressioni di “colazione sull’erba” di Monet. Eppure l’occhio deve indugiare anche sullo strazio rappresentato in Guernica. Ha bisogno anche di quella narrazione.
4) Quanto poi al discredito che Gomorra poterebbe alla città di Napoli e ai sui cittadini, il mio disaccordo è ancora maggiore.
Il compianto Pino cantava “siente fa' accussì/miette 'e creature 'o sole/pecchè hanna sapè' addò fà friddo/e addò fà cchiù calore”.
Credo che ciascun telespetattore, napoletano, italiano, europeo, abbia sufficiente buon senso da non arrivare a identificazioni totalizzanti.
Ho guardato per decenni “la signora in giallo” ma il sospetto che Cabot Cove sia un covo di assassini  irredenti -per dire- non mi ha mai sfiorato.

martedì 10 maggio 2016

Il cuore è idiota di Davy Rothbart

Ci sono molti libri “vecchi” a cui ripenso spesso, rammaricandomi che non abbiano avuto il successo meritato.
Il cuore è idiota” di Davy Rothbart, pubblicato nel 2014 da Baldini & Castoldi, tradotto da Susanna Bourlot è uno di questi.
Rothbart (11 Aprile  1971), in una maniera che non esito a definire irresistibile, ci racconta un bel pezzo della sua vita fatto di repentini innamoramenti, alzate di ingegno, scelte volubili.
Ogni capitolo del libro (in tutto sono 14) è un gustoso affresco di situazioni trascinanti. La possibilità di godere di una lettura così piacevole sarebbe di per sè puntello già sufficiente a sostegno della mia appassionata esortazione a recuperarlo.
Tuttavia c’è anche una altra ragione  più specifica che motiva il mio consiglio, la quale si riconnette strettamente alla discussione - circa le possibilità e le opportunità di pubblicazione riservate ai “ dilettanti in cerca di esordi dignitosi”- che affronto spesso con gli amici partecipi con me della passione insana per la scrittura.
Poco tempo  fa, proponendo ai miei contatti di Fb  un' interessante intervista a Vanni Santoni di Matteo B. Bianchi  dal titolo “ESORDIRE NEGLI ANNI ’10, apparsa  qui http://matteobblog.blogspot.it/2016/05/esordire-negli-anni-10-intervista-vanni.html
mi sono concessa il seguente sfogo :
La scelta di auto-pubblicarsi, così come di affidarsi a piccole case editrici indipendenti è lecita e legittima. Ma un buon libro non è fatto solo dalla storia che racconta o da una buona intuizione. Dietro c'è un lavoro di editing che è fondamentale per tirare fuori dal nostro diamante un vero e proprio brillante. Non fidiamoci di chi non ci corregge la grammatica, la sintassi, di chi ci lascia in balia di noi stessi non toccando nulla, dando alle stampe la nostra creatura così come gliela abbiamo sottoposta. Molto spesso nei testi che scriviamo ci sono evidenti incongruenze, i racconti mancano di coerenza, contengono ripetizioni dovute ad un uso poco attento delle parole, la sequenza dei fatti potrebbe, infine, essere modificata allo scopo di valorizzarli meglio.
Ricordiamoci che "il peggior nemico" di uno scrittore dilettante è l'amico. Neppure sotto tortura ci darà il dispiacere di criticare i nostri racconti. Perciò non è a loro che dovremmo sottoporli, ne' ad un editore che si comporti come tale. Procuriamoci un editor  e, se non ce lo possiamo permettere,   anche l'occhio acuto di un "lettore B” sarà un buon inizio. Altro consiglio: non leggiamo da noi i nostri pezzi al pubblico di conoscenti, lasciamo che ciascuno legga per sé. "Ferro mio diletto toglimi ogni difetto". Si dice infatti che una buona stiratura possa coprire i piccoli errori del sarto. Una lettura espressiva può mimetizzare molte imprecisioni e strafalcioni sfuggite a colui che scrive. L'invito alla lettura del pezzo linkato era per sottolineare che la tunue non si è sognata neppure lontanamente di pubblicare il "manoscritto"di Funetta così come le era stato recapitato. Ha colto il fumus e ha guidato l'autore a farne ciò che è ora sotto ai nostri occhi: un bel romanzo, scritto bene.
Tutti noi meritiamo un aiuto, perché tutti possiamo sbagliare. Nessuno ha il dono dell'infallibilità, per quanto non manchi di talento.”
A un certo punto della storia la penna di Rothbart cade proprio sul “mio argomento sensibile”.  Racconta di quando la sua casella di posta elettronica comincia ad essere bersagliata dalle mail di un’agenzia letteraria che recluta partecipanti, naturalmente dietro il pagamento di una tassa di iscrizione, ad un concorso letterario teso a scovare “il grande romanzo americano”.
“Era chiaro che qualcuno stesse sparando a destra e a manca migliaia di mail, strombazzando l’invito a partecipare (…) per poi rimettersi comodo ad aspettare che gli assegni affluissero copiosi. Era una idea astuta, per certi versi, forse, addirittura geniale, ma nel corso della anni ho sempre fatto una distinzione tra i trafficoni e gli artisti della truffa.(…)I trafficoni ti danno quel che vuoi a un prezzo che sei disposto a pagare; il “traffico” sta nel convincerti che vuoi quel che ti offrono. I truffatori invece abusano della tua fiducia e ti mettono nei guai. (…) Lo consideravo un insulto aggiuntivo- nessuno merita di essere raggirato, ma ci vuole un particolare tipo di crudeltà per truffare dolci, onesti, fiduciosi scrittori, soprattutto quelli che avevano lavorato abbastanza sodo da portare a termine un libro e che adesso stavano lottando per farlo uscire e farlo leggere dal pubblico.”
Il capitolo a cui  Rothart affida tale riflessione si intitola “ novantanove bottiglie di pipì sul muro” e inizia così:
“ La prima volta che feci pipì in una bottiglia fu la primavera del 2006, durante un concerto folk”(…)  Non capita tutti i giorni di mettere insieme un arsenale di novantanove bottiglie di pipì, e anche se non sapevo cosa potessi farne di quel tipo insolito di scorte, il mio istinto mi diceva che in qualche modo avrei trovato un utilizzo consono, magari per uno scherzo o un perfido tiro mancino.”
Mi fermo qui, non volendo spoilerarvi nulla.  Ripensate alla mia riflessione. Connettetela a quella di Rothbart.
Se volete sapere come va a finire la cosa, non vi resta che leggere il libro!

giovedì 5 maggio 2016

Dal "Taccuino Turco" viaggio a Troia




L'aria era mite e il cielo terso. Mi parve assolutamente normale. Non avevo preso neppure in considerazione  la possibilità di brutto tempo, e non per via della stagione in cui si era. Piuttosto perché, nella mia immaginazione, le vicende di Ilio si erano svolte sempre sotto un cielo azzurro e in un clima mite. Come se la città fosse stata ammantata di un eterna primavera, come se quel luogo fosse stato immune dalla mutevolezza delle stagioni. Eppure così non fu. Eppure, i Dardanelli su cui era appostata, erano un’area ventosa e turbolenta. Fu grazie alle impetuose raffiche che costringevano le navi a lunghi periodi di sosta nel suo porto che Troia rinacque più volte dopo ogni conquista e distruzione, tornando a prosperare. 
Rispetto alla gita a Efeso, il paesaggio circostante anziché enfatizzare la mia esaltazione lavorò a smorzarla. Non una indicazione stradale, non un insegna annunciavano l’approssimarsi al luogo sacro, come invece avrei preteso. Stavamo guidando verso Troia, non un posto qualsiasi, perbacco!  Sotto le ruote della nostra automobile scorrevano le stesse zolle su cui un tempo cavalcarono Priamo e Ettore e Achille. Il paesaggio su cui si posavano i nostri occhi si era rispecchiato negli sguardi di Andromaca e Elena e Cassandra.
Truva, questo è l’attuale nome turco della località, è un insediamento agricolo abitato da un centinaio di persone. Era un sacrilegio per me che i contadini profanassero i campi con il loro lavoro e le loro colture. Un imperdonabile atto di irriverenza, una bestemmia che avvolgeva in una brutale normalità ciò che era straordinario. Alla fine di una strada sterrata, che sembrava non condurre in nessun luogo, quasi a sorpresa apparve il cartello - che solo per un eccesso di benevolenza definirei essenziale- indicante l’ingresso del sito. Una costruzione rurale, che fungeva al contempo da locanda, negozio di souvenir e museo, si frapponeva tra noi e gli scavi, esattamente dove Heinrich Schliemann aveva, al tempo, piantato le tende della spedizione. Fu tappa obbligata ma felice. La coppia che l’aveva in gestione era in perfetta sintonia con la selvatichezza dei luoghi. Lei addetta ai fornelli. Lui guida turistica per accidente di nascita. Germogliato in quel luogo, vi si era radicato con la stessa caparbietà di una delle erbe selvatiche del paesaggio. Ma diversamente dagli altri locali, rimasti indifferenti a quella che non è storia turca, incuriosito dai manipoli di turisti che arrivavano, aveva cominciato a guardare alla sua terra con gli occhi di un romantico appassionato. Di quel posto conosceva tutti i segreti e a furia di parlare con i forestieri padroneggiava un discreto inglese e alla bisogna anche uno stringato ma comprensibile italiano. Dietro un modestissimo compenso si offrì di farci da cicerone. Naturalmente accettammo.
Ancora oggi mi mancano le parole per descrivere la felicità che provai ad esser lì, dove un tempo vissero gli eroi omerici. Dove Ettore strinse nell’ultimo abbraccio sua moglie e Priamo rivolse l’accorata preghiera ad Achille.
Scriveva Schliemann: “Confesso che potei a stento dominare la mia commozione, quando vidi dinanzi a me l'immensa pianura di Troia, la cui immagine era già apparsa ai sogni della mia prima fanciullezza”.

 Confesso: non provai neppure a dominare la commozione, io. Mi arresi accondiscendente al pianto.  

mercoledì 4 maggio 2016

Dalle rovine di Luciano Funetta

Mi sono precipitata in libreria perché “Dalle rovine” di Luciano Funetta, edito da tunuè, nella dozzina di candidati allo Strega, doveva essere mio.
Ne parlano tutti. Da brava San Tommaso, in questi casi di brusii persistenti ed insistenti, io devo toccare con mano. Diffidente lo ero.
Quando leggi di  un “romanzo visionario”, “poco convenzionale”, “fuori dagli schemi”, “coraggioso”, la curiosità è tanta ma anche il sospetto che si esageri non scarseggia.
Taglio corto e dico subito che Funetta “ha ingarrato” un gran bel libro. Se  gli aggettivi di cui sopra significano, tradotti in soldoni, che il romanzo può aspirare ad un posto stabile nella “letteratura” alta e ha tutte le carte per non essere un fuoco di paglia, allora concordiamo con gli “aggettivatori seriali”.
La scrittura mai dilettantesca –siamo di fronte ad un esordiente ma non a un principiante- è perfetta. Non solo perchè non ci sono errori sintattici, grammaticali o di consecutio –di questi tempi mi capita sotto gli occhi di tutto-  ma nel senso che è giusta, calibrata, perfettamente calzante alla trama: lucida come si conviene ad un racconto onirico.
La storia non è ne’ scabrosa ne’ depravata.  E’ vero: il protagonista, Rivera, usa dei serpenti per masturbarsi e si avvicina all’ambiente dei film porno o –come si dirà meglio a pag.28- “cinema delle solitudini”, ma il nucleo centrale del racconto non è né il sesso ne’ la depravazione fine a se stessa.
Mi addentro in un territorio fantascientifico e avanzo l’ ipotesi che di fondo, sottotraccia, Funetta abbia  affrontato scientemente e coscientemente una riflessione sull’arte, in particolare sulla scrittura. Tutto ciò che i protagonisti dicono sul cinema è perfettamente calzante anche alla letteratura.  “Bisogna cambiare registro” disse tra sé Alexandre, dal nulla. “Tornare alle origini, a quando l’arte e la fame erano la stessa cosa. Dobbiamo essere uomini che dipingono scene di caccia in una grotta, affamati che cacciano e disegnano nello stesso momento e con i medesimi strumenti”. E’ questo che Funetta ha in mente: tornare alle origini. I suoi personaggi sono, nella istintività ragionata dei loro pensieri, null'altro che uomini della grotta che dipingono scene di vita.
Il dubbio resta circa la “fedeltà” del pubblico. Indagare se e fin dove il lettore è disposto a seguire l’artista nel suo percorso verso nuove forme e nuovi confini sembra essere il nodo, non solo per lo scrittore, ma anche per la casa Editrice Tunùe diretta da Vanni Santoni. A pag. 60 si legge:” Abbiamo messo un estratto dello Specchio on line (…) per mettere un po’ di curiosità ai nostri affezionati estimatori”.
“I tuoi estimatori. La tua congrega di fedeli” disse Alexandre. “ Cosa vuoi che capiscano? Stavolta hai trovato una materia che non puoi controllare. Non saranno in molti a seguirti”. “A me piace credere che invece lo faranno” disse Birmania.
Birmania ha avuto ragione. Gli estimatori, noi lettori ci siamo, numerosi ed entusiasti.

Vi è mai capitato, mentre visitate una città per la prima volta, di fermarvi davanti ad un particolare scorcio che vi rimanda ad un altro angolo del mondo incredibilmente somigliante?
A me spesso. Mi succede anche leggendo.  Nel mezzo di una pagina, di un’azione, di una descrizione, in un romanzo ce ne ritrovo altro.
Mi è successo anche mentre ero immersa in “Dalle Rovine”
Il bello di essere nello spazio piccolo ma confortevole di casa propria –parva sed apta mihi- è godere di certe libertà. Quella di tentare l’accostamento -che suonerà ai più sacrilego- tra Ernesto Sàbato –mostro sacro della letteratura sudamericana- e Funetta, esordiente nostrano, è tra queste.
Nel libro del pugliese, naturalizzato romano, fa capolino l’Argentina: lì mi è partito “l’embolo” di mettere in relazione “Dalle rovine” con “ El escritor y sus fantasmas” di quel gigante che è Sàbato o meglio ancora con “Il rapporto sui ciechi” inserito in “ Sopra eroi e tombe” – nella mia top 100 dei libri della vita-.  Mi ha solleticato l’idea che Funetta si sia tenuto in scia della grande tradizione onirica della letteratura sudamericana. Non saprei riassumerla meglio- questa intuizione- se non affidandola a citazioni testuali dagli scritti di Sabato.

I grandi problemi della condizione umana non sono adatti alla coerenza, ma sono accessibili unicamente a quella espressione mitoproteinica, contradditoria e paradossale, affine alla nostra esistenza”. Per Sabato la letteratura pura è finita. "E’ arrivato il momento di abbandonare le questioni estetiche per affrontare i problemi dell’uomo e del suo destino."
Nella prefazione a “Sopra eroi e tombe” Ernesto Franco, a proposito dei protagonisti del romanzo scrive: - “Ogni personaggio racconta o ascolta la sua parte di storia e la storia di tutti passa di mani in mano come un gesto infinito dove ogni persona cerca la propria verità in quella dell’altro. In questi personaggi della solitudine c’è come una comunione terrena”. Analisi perfettamente calzante anche ai tipi partoriti dalla penna di Funetta.
Sempre in maniera ardita azzardo che Funetta, nella contrapposizione tra   romanzo realista e psicologico o quello fantastico, scelga appunto  la terza via alla Sàbato: “irrompere nel fantastico, non come artificio ludico o preziosità letteraria” –cito sempre dalla prefazione di Franco- “ma come metafora ossessiva della condizione umana”.
Sàbato dice che la sua vera patria sta “ in quella regione intermedia e terrena, quella regione duale e lacerata da dove sorgono i fantasmi della finzione romanzesca. Gli uomini scrivono finzioni perché sono fatti di carne, sono imperfetti. Un Dio non scrive romanzi” .
A me pare che  anche Funetta e il suo “Dalle rovine”  appartengano al medesimo luogo.

Non è un pranzo di gala

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