Le radici strappate dalla terra
d’origine soffrono mentre cercano nuovi equilibri. Per giorni esitano in
superficie, sondando da che parte provenga l’acqua, si irradi la luce o spiri
il vento prima di risolversi a penetrare il suolo in profondità.
L’emigrazione è un’esperienza faticosa. I più fortunati godono dell’aiuto di angeli custodi, sotto la cui ala protettrice superano le complicate fasi iniziali. Ogni passo sarebbe ancor più duro e il nuovo sentiero più impervio se non ci fossero queste provvidenziali figure a tenerci per mano. Io sono tra quei privilegiati che, nell’avventura spinosa dell’espatrio, hanno conosciuto l’altruismo e la generosità.
L’emigrazione è un’esperienza faticosa. I più fortunati godono dell’aiuto di angeli custodi, sotto la cui ala protettrice superano le complicate fasi iniziali. Ogni passo sarebbe ancor più duro e il nuovo sentiero più impervio se non ci fossero queste provvidenziali figure a tenerci per mano. Io sono tra quei privilegiati che, nell’avventura spinosa dell’espatrio, hanno conosciuto l’altruismo e la generosità.
Tutte le mattine c’era qualcosa di
nuovo di cui occuparmi: faccende urgenti da sistemare, problemi da risolvere,
cose da comprare, posti da raggiungere. Le tasche erano sempre piene di appunti
e note, la testa sempre alla ricerca di una soluzione e di un’anima pia
disposta all’aiuto. E ogni giorno il fato disseminava la mia strada di guide,
traduttori e consiglieri, cosicché rincasavo stanca, ma sempre orgogliosa e
soddisfatta di essere avanzata di un altro passo verso il traguardo della
normalità.
Il mio mondo si popolava di nuovi
compagni di viaggio. Volti sconosciuti irrompevano nella routine quotidiana per
entrarne a far parte stabilmente. Ero confortata dall’idea che, aggirandomi per
il quartiere, potessi scambiare un saluto e qualche parola, ad esempio, con le “levantine”, discendenti dei coloni
italiani, strette con le famiglie in una piccola comunità molto affiatata,
orgogliose protettrici delle tradizioni e della lingua degli avi, nonché
custodi, in terra musulmana, della religione cattolica. Mi sentivo, in un certo
senso, meno sola e più a casa ogni volta che le incontravo. Se del tutto
insperatamente riadattai le ricette di famiglia alle nuove latitudini,
permettendo ai miei cari di rifugiarsi, contro la nostalgia che a volte li
coglieva, nei sapori consolatori della nostra cucina, fu esclusivamente merito
loro. Non c’era ingrediente di cui non mi indicassero l’equivalente, con il
loro italiano da un accento antico: dal basilico, fesleğen, alla ricotta,
lor, dal mascarpone, kayma, al lievito di birra, maya, e
di cui mi suggerissero poi con esattezza la bottega o il banco del mercato dove reperirlo.
Senza l’aiuto delle suore, tuttavia,
non mi sarei ambientata facilmente nel quartiere. Grazie a loro scoprii,
infatti, che nel dedalo di viuzze di cui avevo diffidato inizialmente si celava
un vero e proprio tesoro di piccole botteghe. Se chiudo gli occhi riesco a
rivederle tutte. Sarei in grado di recitarne a memoria l’esatto ordine di successione.
C’era il ciabattino sempre sorridente, la sarta, Ayshè, con la quale col tempo
riuscii a fare anche lunghe chiacchierate, il fioraio, a cui ci rivolgevamo per
i bouquet con cui si usa rendere omaggio alle insegnanti nel giorno della loro festa
nazionale. Ricordo il pescivendolo, un omaccione che mi avrà pure rifilato del
pessimo pesce, ma sempre con estremo garbo e gentilezza, e infine l’affabile
corniciaio, che esaudiva con ben celata rassegnazione ogni mia richiesta.