sabato 27 febbraio 2016

Fringe ( 4 parte " esitazioni")

Perché cavolo non aveva imparato a guidare appena compiuti i diciotto anni, nell' ultima estate che aveva trascorso in famiglia, prima del trasferimento in Inghilterra?
Muoversi a piedi per la città, anche se ne conosci ogni angolo come le tue tasche, non è la stessa cosa che girarci in auto.
Lo avesse fatto, ora non avrebbe difficoltà a destreggiarsi oltre i confini del suo quartiere.
Il fatto è che non le piaceva proprio la macchina e quella improvvisa recriminazione- se ne rendeva conto perfettamente- per quanto dettata dalla circostanza, rimaneva fuori luogo e in ogni caso non realmente sentita. Era patentata ormai da dieci anni. Ne aveva macinati di chilometri nelle sconfinate campagne inglesi intorno al campus dove aveva conseguito il Bachelor, eppure sedersi al posto di guida era sempre una resa all'impossibilità di fare altrimenti.
Per quanto si profilasse come una scarpinata il tragitto verso una qualsiasi destinazione, era sempre più allettante della prospettiva di rimanere imbottigliati nel traffico o girare a vuoto cercando parcheggio o fare lo slalom tra automobilisti e motociclisti distratti e pericolosamente intraprendenti. 

Inserì la chiave nel cruscotto e guardando nello specchietto retrovisore per cominciare la manovra incrociò il suo viso.

Fu straniante rivedersi al naturale, con i capelli spettinati e senza un filo trucco. Il caschetto, con l'henné ormai stinto a svelare il suo anonimo castano naturale, aveva bisogno di essere ripreso. Gli occhi, senza la matita nera e il mascara con cui ne disegnava i contorni ingrandendoli così da aggiungere profondità allo sguardo, le davano effettivamente l'aria vagamente orientale che la gente le rimarcava spesso. Almeno l'espressione di paura attenuava gli zigomi paffuti. Il sorriso solitamente aveva l'effetto contrario di metterli in luce, trasformando l'ovale del volto nel faccione che lei detestava ma ai più invece piaceva, per via dell' aria affidabile e simpatica che -dicevano- le conferiva. 


La maschera da invasata  incollatasi sul viso avrebbe fatto sorridere John, che l'avrebbe certamente rimproverata, con i suoi modi bonari, per quelle stupide divagazioni. Ah, John, quanto le mancava.
Le mancava, e non era una banalità, tutto di lui.
Dai suoi occhi indescrivibilmente verdi alla andatura dinoccolata. Il fisico atletico, i modi energici, la voce profonda e la risata schietta.
Era stato per lei, durante gli anni dell'università, bussola e timone. Le aveva insegnato a navigare a vista, tenendo sempre sotto controllo la direzione ma assecondando i venti.
Di tutte le scelte del cavolo prese negli ultimi tempi, a partire da quella di rientrare in Italia, lasciarlo era stata la più rimpianta.
Fosse stato lì, con lei in quel momento, le avrebbe dato fiducia, come sempre, appoggiando quel colpo di testa così contro natura per lei, spronandola a lasciarsi alle spalle le insicurezze che l'accompagnavano da sempre e incitandola a tentare. Ingranò la marcia e partì.


giovedì 25 febbraio 2016

Fringe ( terza parte: la partenza)


 Sarebbe andata sotto la Fringe per osservarla da vicino. Optò quindi per calzature comode e soprattutto solide: gli anfibi erano perfetti. Non li utilizzava da un bel po' e ripescarli dal fondo della scarpiera non fu affare da poco. Si infilò di nuovo in cucina per ingurgitare il caffè. Non poteva attendere che si freddasse. Ne fece un'unica sorsata che le lasciò naturalmente la lingua ustionata, come ai tempi del liceo quando era sempre in ritardo e con la bocca bruciata al punto da non riuscire ad assaporare il cibo. Prese una bottiglia d'acqua, racimolò qualcosa da mangiare, un pacco di biscotti, dei cracker, le due mele rimaste nella cesta e tutto il cespo di banane, si spostò infine nell'ingresso per completare la vestizione. Giubbino impermeabile pesante e guanti, nel caso in cui avesse dovuto proteggersi le mani. Sostituì la borsa con un più pratico zaino e riempì il portafogli con tutto il contanti che aveva in casa. Con un piede già sul pianerottolo, le chiavi dell'auto strette in mano, ebbe un ripensamento e ritornò sui suoi passi a recuperare qualcosa che fungesse da arma o quantomeno da oggetto contundente. Rinunciò subito al proposito di prendere un coltello, magari di quelli grossi da cucina: maneggiarlo o semplicemente portarselo dietro avrebbe richiesto uno sforzo d'attenzione che in quella situazione non poteva certo permettersi. Oltrepassò la cucina e si diresse verso il mobile degli attrezzi sul balcone: una pinza, un martello e un cacciavite erano la scelta più opportuna. Li afferrò tutti e tre buttandoli nel sacchetto che si rimise in spalla. Quasi in apnea chiuse la porta di casa dietro di sé, scese le scale evitando di proposito l'ascensore e si precipitò verso l’auto nel cui sedile infine sprofondò. Fu solo nell'istante prima di mettere in moto che ricominciò veramente a pensare. Fino a quel momento era stata tutto istinto e meccanica. La sequenza di gesti compiuti erano il frutto di una strategia messa a punto per casi di necessità e catastrofi naturali ripassata mentalmente mille volte. Ora che doveva improvvisare, che non aveva uno schema pianificato a cui attenersi, era ad un punto morto. Le possibilità erano due: o prendere la tangenziale facendosi guidare verso la zona vesuviana dalla segnaletica o percorrere tutta via Marina puntando direttamente il Vesuvio e procedendo a vista di paese in paese.    


mercoledì 24 febbraio 2016

Fringe ( seconda parte: getting ready)

Fringe: orlo, bordo, margine. Mentre si dirigeva verso il bagno cercò di tradurre la parola in italiano, ma nessuno dei vocaboli che le erano balzati alla mente coglievano l’essenza del fenomeno in atto su Napoli. Quello alle spalle del Vesuvio, in alto a sinistra, ad occhio e croce proprio sul mare, era un enorme buco, un  vero e proprio squarcio nel cielo oltre il quale si intravedeva lo sprazzo di un paesaggio ignoto.
La mente lavorava febbrilmente riordinando i pensieri: scartate le ipotesi apocalittiche del tutto inverosimili tentava di recuperare dal fondo della memoria rudimenti di geografia astronomica appresi al liceo. Le speranze erano flebili. Aveva odiato la materia con tutte le sue forze. Niente di più probabile, dunque, che passati gli esami avesse cancellato l’intero file delle nozioni ad essa relativi. Non solo il cervello era nel caos. In verità anche le viscere erano in subbuglio. L’ansia, l’eccitazione nonché la paura in certe situazioni -si sa- sollecitano i moti intestinali. La carica di adrenalina si riverberava naturalmente pure sulle mani: l’impercettibile tremolio   la impacciava nei gesti pur di routine che andava compiendo, rallentandoli.
Aprì il rubinetto per darsi una lavata a faccia e denti e tirò una bestemmia. Aveva scordato le bizze della caldaia che erano cominciate la sera prima. Razionalmente sapeva che l’acqua calda in quel frangente era l’ultimo dei suoi problemi ma l’istinto o forse lo smarrimento del momento ebbero la meglio, così in perfetto sincrono lanciò un'altra imprecazione mentre sferrava un calcio alla cesta dei panni sporchi.    
Qualsiasi cosa stesse succedendo lei doveva vestirsi e in fretta,  ma senza rinunciare al caffè del mattino, a maggior ragione se  rischiava di essere l’ultimo della sua vita.  Fece un salto in cucina, preparò la moka e la lasciò sul fuoco mentre ritornava in camera da letto ad infilarsi qualcosa. Con gli occhi puntati sulla infuocata crepa del cielo indossò due maglie tra le più calde che possedeva e mise sotto i jeans anche i collant: quando era spaventata – chissà perché- pativa brividi di freddo.  Nell’incertezza su come si sarebbero messe le cose nelle ore successive, pensò bene di tenere sotto controllo almeno il basico.
L’ispirazione le giunse sul punto di scegliere le scarpe. 

martedì 23 febbraio 2016

Fringe ( 1° parte il risveglio)

La sveglia non aveva fatto in tempo a suonare che con il consueto gesto, ormai del tutto automatico, lei l'anticipò e la spense. Ancora ad occhi chiusi si mise a sedere sulla sponda del letto e cercò con i piedi la consistenza nota delle pantofole. Il minimo dettaglio sbagliato nel rituale del risveglio comprometteva la giornata. Dettaglio sbagliato era, ad esempio, posare il piede sul marmo freddo lisciando la ciabatta.
Cercando di non fare rumore tirò su la serranda puntando gli occhi verso il Vesuvio in cerca dell'alba. Non tutte le aurore sono uguali. Le migliori sono quelle che preludono o seguono alla pioggia, ormai l'aveva imparato. I giorni sereni nascono nell'anonimato di cieli comparsi già luminosi al punto giusto, come le foto che, non volendo sprecarci del tempo, rimetti all' autocorrezione del Photoshop.
Eccolo il vulcano dominatore. Urca che spettacolo: lo scenario era apocalittico. Lo spazio intorno sembrava andasse a fuoco.
Prese la macchinetta fotografica che aveva sempre pronta sul comodino e cominciò a scattare.
Fu solo guardando, attraverso l'obiettivo, che si rese conto di cosa realmente avesse davanti: quella era una fringe...

lunedì 22 febbraio 2016

"Sfida tra mamme"

Non conosco l’universo maschile, e ignoro le leggi che ne regolano il funzionamento. Al contrario ho una precisa idea dei moti rotatori, rivoluzionari e oscillatori che interessano il pianeta donna. Sarò dura, forse addirittura spietata, quindi vale la pena cominciare subito, sparandola grossa: per una donna non c’è nemica peggiore di un individuo del suo stesso sesso. Noi donne siamo spavalde, bugiarde, presuntuose. Sparliamo, pontifichiamo, giudichiamo e soprattutto giochiamo sempre al rialzo. In ogni cosa che facciamo traiamo impulso da un unico imperativo: “Se non puoi essere come loro, allora sii superiore”. Una donna in carriera, ad esempio, riesce a schiacciare, sminuire e mortificarne un’altra che ha scelto di essere casalinga sicuramente meglio di quanto faccia un uomo. Ma tralasciamo l’argomento delle scelte esistenziali e concentriamoci sui temi della gravidanza e della maternità. Gli uomini per secoli ci hanno venduto la famosa teoria “dell’invidia del pene” e noi abbiamo rilanciato con un’invidia altrettanto volgare: “quella per la maternità”. Se continueremo così, di colpo in colpo, di dritto in rovescio, il mito dell’uguaglianza tra i sessi si perderà per sempre in un campo di ortiche. Personalmente questa storia “dell’invidia del pene” non l’ho mai condivisa. Grazie a Dio l’appartenenza al genere femminile non mi ha mai limitato. Grazie a Dio, prima di me, almeno in questa parte del pianeta, altre donne hanno lavorato durissimamente perché io avessi gli stessi diritti degli uomini. Mentirei se dicessi che, a livello sociale, la parità sia una conquista definitiva e perfetta. Ugualmente non sarei sincera negando di aver combattuto qualche piccola battaglia anche in famiglia per abbattere le resistenze di mio padre riguardo vecchie consuetudini. Piccoli dettagli, tutto sommato, rispetto ai principi di uguaglianza che, anche per papà, erano indiscutibili: il mio diritto allo studio e all’indipendenza o la possibilità che il cacciavite e i suoi attrezzi li ereditassi io, piuttosto che mio fratello. Mi piacciono la mia femminilità, la mia emotività, la mia fisicità …. cosa me ne sarei fatta di un batacchio, pendente tra le gambe, non arrivo proprio a capirlo. Sono scettica, comunque, anche rispetto al luogo comune opposto dalle signore secondo le quali l’uomo invidia la nostra possibilità di generare una nuova vita .
Quale uomo vorrebbe mai una pancia grossa come un cocomero, o le doglie o subire il parto? Riflettiamo, per un attimo, su cosa desideri una donna quando decide di dare ascolto al famoso orologio biologico: vuole una gravidanza o un figlio? La gravidanza è una condizione transitoria, un’esperienza lunga nove mesi, personale, bella quanto si voglia ma finalizzata alla genitorialità. Nell’ipotesi più comune di un uomo e una donna - escludendo, cioè, i casi, pure numerosi di genitori singles o di coppie omosessuali- la gestazione è il cammino di due individui che per le ragioni più disparate decidono di creare una nuova persona figlio di entrambi; un percorso che si comincia e si prosegue in tandem anche nel futuro. Un bambino non è unicamente figlio della madre poichè lei lo ha tenuto nel grembo e lo ha allattato. Non è da lei amato in misura maggiore o esclusiva perché lei lo ha partorito con dolore. La capacità di amare e di accogliere, l’abilità di donare e di condividere, l’inclinazione a concedersi e a sacrificarsi senza recriminare sono doti individuali, innate o apprese, ma non sono la cifra esclusiva della maternità. Oggi i nostri padri e mariti sono cresciuti. Sono divenuti dei “mammi”perfetti; sanno prendersi cura materialmente dei figli e hanno imparato a manifestare senza reticenze la propria sensibilità, la disponibilità e l’amore. Sono andati ben oltre i nove mesi della gravidanza. Ma allora perché noi donne continuiamo a esibire la gravidanza con tutti i suoi corollari (es. allattamento)? Perché ci ostiniamo, ancora, a parlare dell’istinto materno come dell’unica bussola per orientarsi nel mare magno della genitorialità? Per farci invidiare dalle altre donne. Quanto più siamo emancipate, istruite, indipendenti, tanto più ostentiamo. Non usiamo più la definizione di stato interessante ma sottintendiamo costantemente quanto notevole sia la nostra condizione.
Abbiamo, illo tempore, sfacciatamente deriso e canzonato le nostre amiche che, rinunciando alla carriera, hanno voluto subito sperimentare la maternità, e ora che, “primipare attempate,” tocca a noi siamo insopportabilmente impegnate a decantare le meraviglie della gravidanza: ma non è la classica scoperta dell’ acqua calda?
I nostri racconti sono sempre iperbolici, anzi, quando cominciamo i confronti allora si perdono le misure e neppure le iperboli reggono. La nostra gravidanza avrà sempre un “più “ rispetto a quella di ogni altra donna. Non importa se il comparativo sia di maggioranza o di minoranza, fondamentale è misurarsi: ai nove mesi fantastici delle amiche opporremo i nostri assolutamente superlativi, al loro trimestre di nausee mattutine risponderemo con un quadrimestre di malessere continuo. Se noi ci vanteremo di un parto lungo e laborioso la nostra interlocutrice sarà orgogliosamente imbarazzata dalla velocità con cui ha dato alla luce il suo bebè .
Ma è in materia di allattamento che diamo il meglio di noi stesse.
Consiglio, a chi ha sentito la pressione sanguigna subire un’impennata, di abbandonare adesso la lettura. Le righe seguenti risuoneranno come un affronto inaccettabile e correrete il rischio di un infarto.
Certamente è consigliabile nutrire i neonati al seno almeno per i primi 3 mesi di vita, ma ho visto amiche e conoscenti impazzire completamente, riguardo a questo tema.
C’è un vero e proprio esercito di madri che tralascia, con tranquillità, molte cose fondamentali per un corretto sviluppo psico-fisico del bambino e continua, invece a rimanere concentrata unicamente, sulla necessità di un lungo allattamento.
C’è chi allatta per 6, per 12, per 24, per 36 mesi ed oltre. Ho visto tette venire fuori nei posti pubblici più impensati per soddisfare il famelico appetito di bambini alti un metro e mezzo che con i loro dentini nuovi riuscirebbero a spolpare un osso ma ai quali si offre ancora il seno materno e che, poppata dopo poppata, si annodano morbosamente alla cara mammina.
Non importa chi sia l’inconscio destinatario di questa esibizione. Posso ipotizzare un campionario variegatissimo di soggetti dei quali si vogliono suscitare le invidie: il padre del bambino, per sottolineare un legame di possesso che egli non potrà mai conquistare, o le amiche, disperate perdenti di questa gara. Sono questioni personali, e ( come ho già detto) non mi interessano.
So, però, ed è questo che mi appassiona e mi indigna, cui non prodest.
Non giova a molte altre donne, che finiscono, loro malgrado, in questa rete narcisistica di autocelebrazione, restandone ferite e mortificate.
Penso alle donne che non potranno essere madri. Alle mamme adottive. A chi allatterà, fino a sfiorire, ben oltre le proprie capacità fisiche, temendo altrimenti di non essere all’altezza e a quante si dispereranno, in silenzio, sentendosi meno mamme, mentre riempiono un biberon.
La discrezione e il pudore, non sempre sono elementi di un puritanesimo anacronistico o indici di una mancata emancipazione, a volte possono essere gesti di rispetto e di amore verso le nostre sorelle.
Mi piacerebbe che tutte riflettessimo su questo e che i gesti d’affetto si moltiplicassero.
Ecco cosa mi piacerebbe!

Supervuoman!


"Giuro ogni volta che sarà l'ultima e poi ci ricasco sempre.



Adesso però sono agli sgoccioli, nun me ne firo proprio più.


Io vulesse sapè chi me lo fa fare a me, alla mia età, di vivere con questa ostinazione.

Svegliati ogni mattina all'alba, con il caldo torrido o con il gelo.

Recupera al buio gli abiti appallottolati sulla sedia -sennò chi lo sente a mio marito, se accendo la luce- e portali di soppiatto in cucina.

Butta giù quel caffè bollentissimo, che ti ustiona puntualmente la lingua.

E poi truccati di tutto punto, ogni santo giorno! Il fondotinta, la matita nera intorno agli occhi, il mascara, l'ombretto, il phard e per finire il rossetto, rosso ovviamente, manco dovessi andare ogni volta alla prima del S. Carlo.

Pure quelle benedettissime quattro pezze che mi devo mettere addosso. E che miseria, come se gli anni non fossero passati nel frattempo. Quando la sarta me le cucì, ero taglia 40. Quaranta, capite?. Roba che per farmele entrare ora, sotto mi devo infilare una guêpière stretta come la morte, che a volte non ce la faccio manco a respirare. Figuratevi un po' se così combinata posso mai volare, ché quella mutandina piccolina piccolina  mi entra pure ogni tanto tra le chiappe e sul più bello, con gesto furtivo e finta noncuranza, me le devo riaggiustare.

E le scarpe? Parliamo pure di quelle. Pozz' fa una buona fine quello a cui è passato per la mente, dopo avermi costretto ad imbellettarmi e ad agghindarmi così, di attribuirmi un paio di scarpe con il tacco 11.

E poi dice che mi hanno chiamato Supervuòman.

Sfido io: quello il nome è nato per sfottò.

Non è fare quello che faccio io, il fatto straordinario. L'eccezionalità sta nel farlo bardata così come una ....come una....volevo dire prostituta, ma a ragionarci bene, nemmeno le prostitute si vestono così!

Ma adesso basta. Adesso mi sono sfasteriata veramente. Oggi stesso vado dal parrucchiere e mi faccio un bel taglio corto corto. Poi mi compro un paio di pantaloni della mia misura,ovvero una comoda 50 e "muoia sansonecontuttiifiglisnelli", per finire m'accatto anche un paio di scarpe comode di quelle che si comprano le vecchie in farmacia.

Ah, dimenticavo, da oggi voglio essere chiamata pure con il mio vero nome: Concetta, e per gli amici, ma solo per gli amici, al limite Chetty.

E se qualcuno non volesse essere più salvato, -come disse quello- problemi loro!

sabato 20 febbraio 2016

John Fante

Ho cominciato al leggere “serialmente” a sette anni con “La piccola Dorrit” e “I ragazzi della via Pall”, entrambi acclusi alle scatole di caramelle che i parenti mi regalarono durante la convalescenza dall’operazione alle tonsille. Da allora non ho più smesso. Dopo i due libri citati e fatta eccezione per pochi “best sellers” imprescindibili, ho letto per volontà degli insegnanti, fino alla fine del liceo, prevalentemente autori italiani.
Sono grata- intendiamoci- al Prof. di Italiano per tutto il “Pirandello” a cui ci ha obbligato, come per Verga, Fenoglio o Cassola, e anche il Calvino del “Sentiero dei nidi di ragno”, lontanissimo da quello che avrei amato dopo.
I tempi e la scuola erano diversi, allora. Credo che non fosse consono per un insegnante di Lingua e letteratura italiana tentare sconfinamenti in altre letterature, al di fuori di quelli strettamente necessari a contestualizzare gli autori nostrani. 
Gli scrittori americani perciò li ho scoperti tardi, da sola, grazie a John Fante, al quale resterò eternamente debitrice.

“Quelli che vale la pena di amare veramente sono quelli che ti rendono estraneo a te stesso. Quelli che riescono a estirparti dal tuo habitat e dal tuo viaggio, e ti trapiantano in un altro ecosistema, riuscendo a tenerti in vita in quella giungla che non conosci e dove certamente moriresti se non fosse che loro sono lì e ti insegnano i passi i gesti e le parole: e tu, contro ogni previsione, sei in grado di ripeterli.”
Ai tempi circolavano William Faulkner e Ernest Hemingway sui quali pure mi ero cimentata senza che tuttavia scattasse la scintilla. Poi arrivò nella mia vita “Chiedi alla polvere” e amore fu. Fu Fante ad estirparmi dall’ habitat di romanzi perfetti, di storie ordinate e plausibili in cui mi ero rifugiata e a trapiantarmi in un altro ecosistema.
E’ stata la prima voce scritta di un emigrato italiano di seconda generazione, per dirne una. 

Non pullulava di italiani, Madden Street. A parte la nostra famiglia, c’era soltanto Fred Bestoli, il quale, più che un italiano, era contrabbandiere. Un tempo era stato amico di famiglia, ma ormai era un fuorilegge e mia madre non voleva vederselo attorno Anche la nonna aveva avuto simpatie per Fred Bestioli prima che si mettesse a vendere alcolici. Era originario degli Abbruzzi come lei, e avevano conoscenze comuni, di gente e di posti. Ora però lo odiava perché continuava a farsi arrestare senza fregarsene della reputazione degli altri italiani.
Quando papà se ne veniva a casa con Fred, la nonna lo salutava in italiano. Gli diceva: «Buonasera, stronzodicane». Oppure «Guarda un po’ che caspita è potuto saltar fuori dalla pancia di una donna».
 Fred Bestoli era un italiano malinconico e taciturno, ma mia nonna riusciva sempre a ridestare in lui una considerevole aggressività. Perciò le rispondeva: «Baciatemi il culo, vecchia» e papà, da parte sua, gli dava man forte.
 «Ben detto, Federico. Di’ a quella vecchia zoccola di farsi i cacchi suoi».
 Infuriata, la nonna si rivoltava contro papà e gli diceva che sarebbe stato meglio se, invece di lui, dal suo grembo fosse uscito un porco. Papà replicava che, dal momento che quella era sua madre, era lui il primo a sorprendersi non essere nato porco. Questo linguaggio osceno e violento non voleva dire niente di speciale. Semplicemente, era così che parlavano.” (Quella donnaccia, traduzione di Francesco Durante (pag.71))
Ma vanta almeno altri due primati.
Parlare apertamente delle necessità economiche di sopravvivenza delle scrittore. 
Così nella lettera alla madre del 26 gennaio 1933:Cara mamma:

Credo mi tocchi un'altra bordata di giorni duri. Sono di nuovo al verde, e questa volta sono messo proprio male. Comunque non sono preoccupato. Attraversare questi giorni senza un soldo e' roba vecchia per me. Ci sono talmente abituato che non mi sgomento più. Giorno dopo giorno mi sento sempre più o meno uguale. In qualche maniera riesco a procurarmi da mangiare a sazietà, un letto caldo, un posto per scrivere, e moltissimo tempo per sognare.Che altro si può volere? Speranze. Si, un uomo deve avere delle speranze. Beh, chi, in questo mondo di scrittori, non scambierebbe il suo posto con il mio. Io sono in una condizione invidiabile, me ne rendo conto e ho intenzione di approfittarne.
                                      
                                                                                                               Il mio amore a tutti,  
                                                                                                                               Johnnie.”
E soprattutto è il primo che racconta cosa ha nella testa uno scrittore:
" Poi mi ritrovai tra i cavalloni e fui di nuovo assordato dal fragore. Avevo la sensazione che fosse ormai troppo tardi. Non riuscivo più a nuotare, le braccia mi pesavano per la stanchezza e la gamba destra mi doleva terribilmente. Dovevo riuscire a tutti i costi a tenere la testa fuori dall’acqua, ma mi sentivo risucchiare sotto le onde che mi ritraevano. E così questa era la fine, la fine di Camilla e di Arturo Bandini; eppure, anche in quel momento, era come se stessi scrivendo, come se stessi registrando tutto sulla carta. Davanti agli occhi avevo il foglio dattiloscritto, mentre fluttuavo, sbattuto dalle onde, senza riuscire a raggiungere la costa, sicuro che non ne sarei uscito vivo. Improvvisamente i miei piedi toccarono il fondo, ma ero troppo debole per approfittarne e troppo occupato a cercare di schiarirmi le idee per ricomporre mentalmente la scena, evitando gli eccessi descrittivi. L’ondata successiva mi travolse, gettandomi dove l’acqua era alta solo trenta centimetri, chiedendomi se sarei riuscito a immortalare l’episodio in una poesia. (...) (Chiedi alla polvere).

Consiglio a tutti un incontro con Fante. Anche quello delle lettere, uscite per Einaudi Stile Libero nel 2014, sulla cui copertina, nella prima edizione, per un grossolano errore c’era la foto del poeta e saggista inglese Stephen Spender. 
Se non sono riuscita a convincervi io , vi lascio direttamente nelle sue mani, con l’incipit di “Chiedi alla polvere”:
Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d'albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell'albergo. O pagavo o me ne andavo: così diceva il biglietto che la padrona mi aveva infilato sotto la porta. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto.”

venerdì 19 febbraio 2016

Chiuso per feedback



Oggi il blog resterà chiuso.
Dopo gli assidui aggiornamenti delle settimane corse ho bisogno di una pausa di riflessione.
Non so cosa avessi in mente quando ho deciso di mettermi in gioco "uscendo" dal cassetto le mie cose e buttandole in rete. 
Molti dei miei amici di Fb mi hanno letto e mi hanno dimostrato il loro affetto.: li ringrazio per questo.
Dice che la vita media di un blog è di tre mesi, passati i quali si spengono euforia e impegno e si smantella tutto.
Non ho ancora deciso sul futuro.
Per adesso dirotto sulla " Alternativa episodica del poeta", come Grace Paley

"Stavo per scrivere una poesia
invece ho fatto una torta ci è voluto
più o meno lo stesso tempo
chiaro la torta era una stesura
definitiva una poesia avrebbe avuto
un po' di strada da fare giorni e settimane e
parecchi fogli stropicciati

la torta aveva già una sua piccola
platea ciarlante che ruzzolava tra
camioncini e un'autopompa sul
pavimento della cucina

questa torta piacerà a tutti (...)"

giovedì 18 febbraio 2016

Foto-inganno

La foto che vedete sopra è l'ultima copertina del  settimanale polacco "wSieci( La rete).
Ritrae l'Europa -la giovane donna che indossa la bandiera azzurra ne è, con tutta evidenza, una rappresentazione- violata dall'assalto di uomini troppo scuri e villosi per essere cittadini comunitari.
Le fascette pubblicitarie  alle edicole  anticipano  che la rivista approfondirà temi su cui  gli altri media e Bruxelles sono colpevolmente  reticenti.
L'autrice del pezzo di copertina, 
Aleksandra Rybinska, sostiene che le questioni immigratorie siano "
il risultato di uno scontro di civiltà inevitabile  tra l'Islam e il Cristianesimo"  e che, "mentre i musulmani stanno promuovendo attivamente questa guerra, gli europei contribuiscono alla propria rovina ignorando gli impatti negativi del multiculturalismo". Cita a tal proposito Arnold Toynbee, secondo il quale  le “Civilizzazioni muoiono per suicidio piuttosto che vittime di un assassinio”.
wSieci non è nuova a copertine irriverenti e polemiche. C'erano già state recentemente quella con la Merkel nei panni di Madre Teresa e della stessa Primo Ministro Polacco Ewa Kopacz con un carico di bombe e in burqa .
L'equazione cui rimanda l'immagine è proditoriamente fuorviante da più punti di vista. Braccia scure, presunto islamico: viene il dubbio che potrebbe riferirsi anche  ad Obama. Scherzi a parte, ridurre il tema dell'immigrazione solo ed esclusivamente ad un problema di assalti a sfondo sessuale è riduttivo. Ma è, oltre che semplicistico, anche più pericoloso per la sicurezza delle donne. Rispetto a questo aspetto , infatti, conviene sottolineare che esaurire il tema degli stupri nell' unica ottica di delitti commessi da profughi o da immigrati per  ragioni "religiose/culturali" nuoce a noi tutte. C'è il rischio concreto di originare "un falso positivo", di indurre cioè la donna ad abbassare le difese - che dovrebbero invece sempre rimanere all'erta- quando è in presenza di un uomo bianco e cristiano, escludendo che possa  anch'egli essere  una minaccia.
Che certi giornali cavalchino l'onda xenofoba e populista è già di per sè una pratica deprecabile. Ma che la leggerezza possa fare anche  i danni  cui abbiamo fatto cenno è inaccettabile.


 



mercoledì 17 febbraio 2016

E neve sia

Prima neve.
Quando la tua prima neve viene giù copiosa e abiti su una statale lontano dal paese ed è il primo di Gennaio e viene a mancare l’energia elettrica, quindi i   termosifoni e poi anche l’acqua, e resti bloccata all'interno del comprensorio in cui vivi perché   il cancello elettronico si è inceppato, ti affacci in dispensa e poi nel frigo per fare un inventario delle provviste e calcolare i giorni di autonomia che ti restano prima di rischiare la morte per fame. Nel mentre la terra fuori si fa bianca e il cielo   sempre più scuro. Ma hai poco più di vent'anni, sei sposata da meno di uno e stai con la persona che ami esattamente dove vorresti e ti ripeti che “fa ‘culo quanto freddo sia e per quanto ancora le previsioni diano brutto”. E’ la prima volta che la vedi, la neve, e non puoi non gioire, anche se ti rammarichi di aver comprato poche arance, perché temi che ne rimarrai senza, e tu adori le arance.
Seconda neve.
Eccoli di nuovo i fiocchi. Questa è la seconda volta ma è ancora una prima. Il cielo scarica dabbasso fitto fitto la manna bianca e tu controlli le arance sebbene sei certa che saranno sufficienti perché non ti lasci più cogliere in fallo. Hai quasi trent'anni, sei madre da quasi tre e stai con le persone che ami. Attendete che il giardino di questa nuova casa, che è tanto più a nord della vecchia, ad un settentrione vero, sempre gelido e ghiacciato, si colori tutto di bianco. Attendete che faccia giorno per lasciar le impronte dei piedi in giardino e poi bagnare i guanti e congelare le mani nell'impresa del primo pupazzo che non si scorda mai, anche se è ridicolmente sproporzionato e non sta in equilibrio e se è maledettamente difficile da fare e invece ti era sempre sembrato un gioco da bambini.
Terza neve.
La terza volta la  neve cade sulla vita di tutti i giorni, che non si ferma e deve andare avanti e si lascia guardare con apprensione. Hai più di trent'anni. Sei in un altro nord, più a sud dell’altro ma perennemente biancastro di nebbia e calaverna. Pensi che avrai da portare una figlia a scuola e l’altra dovrai tenerla al collo, l’indomani, con le strade   impraticabili alle auto e il passeggino che sui viali innevati non torna utile. Pensi che passerai al supermercato per rifornire la dispensa e il frigo, mai pieni a sufficienza quando fuori è bianco, e non tralascerai la scorta di arance, perché non c’è nevicata nella tua vita senza chili di arance. La nuova casa non ha giardino: è in un palazzo.
E’ la tua terza neve ma a suo modo anche la terza può essere una prima. Ogni volta che smette di cadere e le nuvole e il tempo scuro passano e compare il sole, il candore è un emozione forte e tu -fa’ ‘nculo che diventerà tutto una lastra di ghiaccio e ci scivolerai sopra e prenderai una culata che   i denti ti rintroneranno nel cervello e le figlie e il marito che ti tirano su si sbragheranno dalle risate-  ne devi gioire. Hai le arance e sei con le persone che ami. E la terza nevicata porta nuovi buoni amici: i vicini del piano di sopra, appena arrivati. Voi mamme, riportando le figlie da scuola, convenite -nell'androne dove per la prima volta vi siete incrociate- che sarebbe proprio un peccato restare in casa con uno spettacolo così fuori e vi accordate di pranzare in fretta e rincontrarvi in cortile. E il pupazzo, questa volta, sarà meno sbilenco, più grande e sorridente, fatto con 12 mani bagnate e congelate.
Quarta neve.
Dalla nuova casa vedi uno spiraglio di un mare che mai avresti immaginato di conoscere nella vita: qui lo chiamano Ege Deniz.
Sei  al sud. Non il tuo d’ origine, ma uno molto simile. Quando la quarta neve arriva, la sorpresa e la felicità sono grandi. Piccoli, impercettibili fiocchi. Non dura che per brevi sprazzi intermittenti. Non attacca al suolo, questa neve del sud, ma la tua incredulità e lo stupore sono gli stessi, e tu non ti stanchi di osservarla   con il naso incollato ai vetri mentre mangi spicchi di arance. 
Quinta neve.
La quinta neve  dovrebbe essere “carta conosciuta”. E’ di nuovo una neve settentrionale, persistente, quotidiana, a tratti cattiva. Eppure capisci al primo fiocco di non conoscerla affatto. Quando sei davanti alla neve alpina, la regina assoluta, non ci sono regole.  Arriva con una ventata di gelo polare che ghiaccia le tubature e tu rimani, ancora una volta, per giorni senza acqua e  a tratti senza corrente elettrica.

Ti hanno lasciata sola nella nuova casa: ci sono la scuola e il lavoro, che anche in questo nord non si arrendono mai. La vita fatica tra mille e uno disagi. La rampa del garage si è fatta   lastra di ghiaccio che tu spicconi rabbiosa a colpi di ramazza, i piedi pesanti e maldestri negli odiosi doposci, con la sensazione di essere un’astronauta e forse lo sei perché quello fatto di bianco continua a rimanere per te un pianeta alieno. E conti le ore in attesa che tutti rincasino. Ti ricordi che è sabato e anche se fuori rimane la tormenta, per te si fa bonaccia. Domani le previsioni portano sole. Hai già più di quarant’anni e sarai con le persone che ami. Le arance sono in dispensa e infilerai finalmente i guanti giusti. E allora, “fa ‘nculo tutto”. Al diavolo quanto sia stato difficile ieri o oggi: domani sarà ancora una prima neve.

martedì 16 febbraio 2016

Book Challenge all'italiana

Cosa sarà mai questa “Book Challenge” di cui si vocifera ultimamente ? E’ un “gioco” sui libri. Una sfida, importata dall’America, con cui i ragazzi - a dir la verità- si trastullano già da tempo sulle bacheche FB. 
 Consiste nel leggere, entro un determinato periodo, un certo numero di libri di generi diversi secondo le precise indicazioni contenute in una lista: si va dal libro vincitore di un premio nazionale, a uno pubblicato da una casa editrice indipendente, a quello per young adults, e via dicendo. In genere non si vince niente, se non la soddisfazione di battere sul tempo, nello spuntare i titoli dell’elenco, gli altri partecipanti.
E’ venuto in mente al titolare della Libreria Volante di Lecco di prendere in prestito l’idea e di coinvolgere altri librai indipendenti. Si è istituzionalizzato così il concorso a livello nazionale, stabilendo un montepremi in libri per il lettore che per primo riuscirà a riempire la tessera fedeltà (da ritirare presso una qualunque delle librerie aderenti in ogni parte d’Italia), comprovando l' acquisto di ben 50 testi.
La Book Challenge, nella versione casareccia che ho conosciuto grazie alle mie figlie, mi piace e molto. Il confronto, il “traffico” dei titoli, la determinazione a trovare il libro della categoria ancora mancante e la richiesta di suggerimenti, concretizzano un fermento e uno scambio culturale autentici, testimoniati  anche dai partecipati  commenti in calce alle bacheche.
Detesto le tessere dei supermercati e le raccolte a punti.
Detesto l’attesa e l’impegno da profondere per riscattare due piatti che rimarranno spaiati eternamente. Mi fanno storcere il naso anche le lotterie dove “l’unico vincitore sarà sempre lo Stato”, nonostante ci si convinca di comprare, a basso prezzo, un sogno.
La book challenge, nella versione dei librai indipendenti, mi si colloca in bilico tra la raccolta punti e la lotteria e per questo –chiedo scusa- non riesco a digerirla.
E’ l’elemento imprescindibile dell’acquisto nelle librerie consociate che mi induce alla diffidenza. Gli organizzatori sottolineano il fine divulgativo dell’iniziativa, la volontà di promuovere la lettura, incentivando l’attenzione verso generi letterari a torto trascurati. Personalmente  non riesco a levarmi di mente che si adombri su tutta l’operazione il pericolo di una sua mercificazione. Sarebbe stato forse più onesto -dunque più accettabile- dire che si vogliono spingere le vendite per rilanciare le attività indipendenti.
L'alterativa è di farcela noi lettori la sfida, alla maniera genuina dei ragazzi, senza dovere per forza comprare i libri, prestandoceli, recuperandoli dalle librerie o dalle biblioteche, anche comprandoli sulle bancarelle dell’usato. L’importante, nella lettura, non è vincere. Proprio ai librai lo si deve ricordare?



domenica 14 febbraio 2016

Cronache dall'emigrazione

Chi di voi si ricorda di quando, a bordo delle fiammanti "proletarissime” utilitarie, le famiglie italiane tentavano i primi viaggi di piacere attraverso il bel paese?
Rammenterete pure le allegre strombazzate che si scambiavano gli automobilisti con la targa della stessa città incrociandosi in autostrada. Tanto più si era lontani da casa tanto più lunga e festosa era la suonata di clacson. Un segno di riconoscimento, una manifestazione di reciproca appartenenza, un momento di agnizione potente, da commedia all'italiana.
Molti anni dopo, quando ci eravamo tutti -da nord a sud- sprovincializzati e di fenomeni del genere sulle autostrade se n' era persa la memoria, mio marito e io prendemmo a viaggiare -non propriamente per piacere- fuori dall'Italia.
Cominciammo allora a collezionare una serie di incontri  negli angoli più disparati della terra che avevano, in un certo qual modo, il medesimo sapore delle antiche strombazzate.
Si trattava di anziani emigranti napoletani, partiti decenni avanti, mai più tornati in patria, i quali non appena si accorgevano dal nostro accento che eravamo compaesani, attaccavano bottone.
Di solito esordivano con: - “Ma voi siete Italiani?” –
Una domanda retorica, chiaramente. Inequivocabile il tono che cominciava interrogativo per poi convertirsi, a metà della frase, in una esclamazione.
Così fu ad esempio per l’attempato signore che ci si avvicinò, era il 1987, in un bar di San Francisco. Capimmo subito  quali fossero le sue intenzioni. Ormai esperti, ci bastavano pochi movimenti al tavolo vicino per riconoscervi la tattica di approccio.
Scoperta la coincidenza duplice, che non solo fossimo napoletani, ma che venivamo dal quartiere prossimo al suo, -noi soccavesi, lui di Fuorigrotta- il signore si lanciò in un lungo elenco di nomi, pregandoci di portare a tutti i suoi più cari saluti. Promettemmo, naturalmente mentendo, che avremmo assolto all’impegno preso.
L’incontro  straordinario, tuttavia, si realizzò anni dopo, durante un turno di emigrazione in Inghilterra.
Eravamo alloggiati in un Bed and breakfast gestito da una canuta arzilla vecchietta, devota alla regina madre e grande appassionata di cricket: Miss Telma.
Poiché possedevamo una sola macchina, al mattino io accompagnavo mio marito al lavoro e poi, in attesa che si facesse l’ora di riprenderlo, me ne andavo scorrazzando per le campagne inglesi. Dopo aver scelto un paese, un villaggio, una cittadina nelle vicinanze, mi mettevo in viaggio.
In genere rincasavo da Miss Telma a metà pomeriggio. Un saluto, due chiacchiere nel mio allora stentatissimo inglese, una tazza di tè ed ero pronta per uscire a recuperare il consorte.
Quel giorno mi spinsi un po’ oltre i confini consueti, fino a Peterborough, la più importante città del circondario. Al ritorno, anziché prendere l’autostrada optai per la strada statale. Mi piaceva molto guidare attraverso il verde paesaggio e i villaggi inglesi. Era rilassante.
Tornata a casa, mi ritirai in camera per una breve rinfrescata. Non feci neppure in tempo ad infilarmi in bagno che fui interrotta dalla voce di Miss Telma al di là della porta. Un signore, poco dopo il mio rientro, pare, si fosse presentato all'uscio chiedendo di me e ora era in salotto, di sotto, che mi aspettava.
Mentre scendevo i pochi i gradini, mi lambiccai il cervello chiedendomi chi mai potesse essere costui. Vederlo di persona, dinanzi a me, non fu di minimo aiuto per svelare il mistero. Di media altezza, baffi neri, mezza età, per quanto mi sforzassi a scavare nella memoria, ero certa di non conoscerlo. Difronte all'evidente mia confusione, sorridendo si affrettò a fare le presentazioni e a spiegare la ragione della sua presenza. Si chiamava Peppe, erano un emigrante napoletano trapiantato da decenni a Peterborough. Guidava il furgoncino dei gelati; avete presente quei camioncini che vanno di villaggio in villaggio, con la musica a tutto volume, a vendere gelati ai bambini? Proprio uno di quelli. Il buon Peppe, gelataio itinerante, dichiarò che non gli era parso vero, quel pomeriggio, incrociare una macchina targata NA sul il suo percorso. Preso dall'entusiasmo e spinto dalla struggente nostalgia ad avere notizie della sua città natale, aveva deciso  di lasciare i bambini a secco e s’era messo a seguirmi. Roba da matti. E non mi riferisco a Peppe.
Avevo guidato per mezzo Regno Unito con un camioncino strombazzante alle calcagna senza accorgermi di nulla.

sabato 13 febbraio 2016

Porci con l'aureola

Quella volta lì che mi successe questa cosa mi tornarono in mente le raccomandazioni che mamma mi faceva da bambina e che io subivo rancorosa con fastidio. Non perché mi mettessero a disagio –mi ero guadagnata, precocissima, la qualifica di senza pudore- piuttosto perché mi costringevano a pensare male di lei. Tutta quella diffidenza verso il genere maschile mi sembrava eccessiva e non le si addiceva. Mamma è sempre disponibile verso il prossimo e ci ha catechizzato alla bontà come valore assoluto. L’immagine di persona caritatevole che avevo di lei strideva, dunque, con l’altra di malpensante che veniva fuori in quei frangenti. 
Non potevo  certo immaginare  che  avrei riempito a mia volta  la testa  delle mie figlie di avvertimenti simili.  Gli inglesi, lo avrei imparato anni dopo, le chiamano “le regole del no” e le insegnano fin dall'asilo. 
“Non restare sola con un adulto a meno che non ci sia una autorizzazione a tal proposto della mamma”. 
“Non nascondere alla mamma -non bisogna vergognarsene- se qualcuno tenta di toccarti”.  
“Non abbassare mai la guardia, neppure nel caso in cui si tratti di parenti stretti e amici di famiglia.”
All'epoca del fatto non ero ancora maggiorenne, più precisamente stazionavo nell’età in cui le istruzioni d’uso della vita vuoi scriverle tu, piuttosto che subire quelle altrui. Sarà stato per quello che fui ad un passo così dall'abbassare la famosa guardia.
Non ricordo le circostanze che mi indussero ad accompagnare mamma al santuario; da tempo la messa non rientrava nelle mie abitudini. Probabilmente il mio ragazzo era fuori per lavoro, le amiche tutte impegnate altrove e pur di non rimanere a casa sola, mi parve una buona idea farle, una volta tanto, compagnia. Ho, invece, chiara memoria delle ragioni che mi spinsero ad inginocchiarmi presso il confessionale. 
Altro mistero, lo strano  rapporto di mia madre con il sacramento della penitenza, che mi si chiarì quel giorno. Cattolica praticante ci spingeva ad andare alle celebrazioni, ci spronava a prendere la comunione, ma ne’ avevo visto lei farlo ne’ aveva mai preteso che noi ci appartassimo con un prete per chiedere perdono di peccati.
Io, invece, in quel periodo mi sentivo terribilmente in colpa. C’entravano i miei anni, naturalmente. E’ facile intuire in che tipo di inosservanza della legge divina, causa giovinezza, stessi incorrendo. Eravamo, il mio ragazzo ed io, al primissimo capitolo delle “esplorazioni d’amore”: oltre la soglia del bacio ma ancora decisamente lontani dalla fatidica “deflorazione”. Pensavo di aver ridotto al silenzio la mia pudica coscienza, ma evidentemente qualche residuo retaggio di una educazione moderatamente bigotta ancora produceva effetti. 
Vidi il confessionale vuoto, l’attempato prete dall'aria bonaria in attesa e mi ci avventurai.
Paziente, il vecchio mi chiese l’elenco dei peccati. Non aspettavo altro che vuotare il sacco per scaricarmi dal peso delle furtive e acerbe palpeggiate. Dei due esseri umani in quella cabina di legno la più innocente ero io. Con un gesto paterno mi prese le mani giunte che erano sospese a mezz’aria e, abbassatele con delicatezza perché non ne scorgessi le intenzioni, fece per accompagnarle verso il suo basso ventre. Non lasciai che le indirizzasse al fallo.  La lampadina mi si accese rapida nel cervello facendo luce sulle vecchie raccomandazioni della mamma. Mi alzai veloce e fuggii via. Aveva ragione mia madre a diffidare. Porco Giuda, ma anche il prete. Di vecchi zozzi pullula il mondo, perché dovrebbe fare eccezione la casa di Dio.

venerdì 12 febbraio 2016

THE END OF THE TOUR

Alla fine ci sono riuscita. Ho vinto uno dei miei ultimi tabù in materia di cose da fare da soli: l’andata al cinema. Ci voleva un’esca appetitosa per indurmi all’estremo gesto e il film che usciva ieri, “The end of the tour” di James Ponsoldt, dedicato a David Foster Wallace, cavolo se lo è.
Lo dico subito, a mo’ di premessa, per fugare ogni possibilità di fraintendimento. Sono andata al cinema con l’animo di una “directioner”: tutta emozione e poca assennatezza.  Il cervello l’ho lasciato apposta a casa, portandomi dietro solo “la pancia”, mettendo in conto di versare anche qualche lacrima. David F. Wallace è uno di quegli autori che –diciamolo francamente- o sono respingenti o sono totalizzanti: o lo si ama o lo si odia, non esistendo per lui la possibilità di una tiepida accoglienza.
Se uno affronta l’esorbitante numero di pagine dei suoi capolavori, portando a termine l’impresa, non può che entrare nel circolo degli estimatori.
Ho dato per scontato che sappiate di chi parlo. Per chi non lo conoscesse, David F. Wallace è l’autore di “La scopa del sistema” uscito nel ’87 e di “Infinite Jest” del ’97, “Il re pallido” purtroppo incompiuto, perché David il 12 settembre del 2011 si tolse la vita, oltre che di numerose raccolte di racconti e alcuni saggi.
Se foste interessati ad un titolo con cui iniziare l’approccio suggerisco  “Una cosa divertente che non farò mai più”, edito da Minimum fax, esilarante e al tempo stesso acutissimo saggio.
Tornando a me, ragazzi miei, è stata una immane faticata.
Il film è tratto dal libro “Come diventare se stessi” (anche questo Minimum Fax) scritto da David LipskySi tratta, grosso modo, del riassunto di una convivenza "forzata"  di 5 giorni tra Lipsky, (interpretato nella pellicola da Jesse Eisenberg) allora giornalista della rivista Rolling Stones e Wallace -cui presta il volto Jason Segel, il Marshall di  How I Met Your Mother, per intenderci-  allo scopo di realizzare un’intervista. 
Si apre con Lipsky che apprende al telefono della morte di Wallace e, recuperata dall’armadio la cassetta di quella vecchia registrazione, riascolta il nastro.
Avevo temuto il peggio, leggendo delle opposizioni al film dei famigliari di Wallace e dubitando che il volto di Segel potesse prestarsi efficacemente all’impresa.
Invece mi pare che tutto funzioni alla perfezione. Non c’è malanimo o cattiveria nella ricostruzione del personaggio. Al contrario, mi è sembrato un omaggio molto equilibrato, che a tratti tradisce anche un certo genuino affetto. 
Essere lì, per un’ora e passa a faccia a faccia con i due David, tentando di appuntare a memoria ogni loro parola, senza perdersi niente, è stata dura.
 Il Newsweeke recensendo il libro aveva scritto:” È    strano pensare che un libro su  Wallace possa essere utile sia ai profani che ai fan più   accaniti “. Ripeto la stessa cosa a proposito del film.  Che non lo conosciate o che siate tra quelli che lo amano, andate  al cinema, che non ve ne pentirete.



giovedì 11 febbraio 2016

PERCHE' SANREMO E' SANREMO

Adoro i riti. Un piacere che –confesso- ho scoperto recentemente. Da qualche anno –per dire- apprezzo anche la messa. C’è qualcosa che mi rassicura nelle liturgie. Sarà l’assimilazione. Mi fanno sentire come quel “colore che si espande e si adagia negli altri colori” e poco importa se in fondo sono “più solo se lo guardi”. 
Sanremo, da quando  c’è la possibilità di viverlo  collettivamente attraverso il virtuale, è entrato a far parte dei rituali a cui non riesco a rinunciare. Mi sistemo sulla poltrona con la mia brava tastiera sotto mano, metto da parte scetticismi e sovrastrutture, e piano piano assaporo le portate. 
Cambiano i conduttori, le vallette, gli ospiti, le comparse e i cantanti, ma il canovaccio nella sostanza è sempre rispettato. Chi stona, chi tradisce le aspettative, chi si impone per il look, chi stupisce impressionando nel bene, e chi lo fa nel male.
Sanremo è il mio annuale bagno nel popolare, categoria con la quale ho in genere un pessimo rapporto.  In famiglia mi si rimprovera spesso il mio essere “bastian contraria”. Pare che più una cosa si diffonda, più diventi conosciuta e più io mi ci disaffezioni. Meglio bastian contraria che snob, tutto sommato. Perché non lo faccio per snobismo quanto piuttosto per diffidenza verso gli effetti della fama. Esiodo –la prendo forse troppo alla lontana- ammoniva: -” evita la terribile fama dei mortali, perché la fama è cosa cattiva, è leggera e si solleva facilmente, ma poi è penosa da sopportare, è difficile da deporre. La fama non muore mai completamente, quando molte genti la divulgano, anche la fama è una dea” – e tutte le manifestazioni di idolatria mi spaventano.
Lungo preambolo per arrivare alla indiscussa star della serata: Ezio Bosso, sulla quale oggi saranno versati, compreso questi, fiumi di inchiostro. 
Sono tra i milioni di telespettatori che si sono goduti, scioccati e attoniti la sua esecuzione.
Premetto che non lo conoscevo come musicista classico. Confesso che a suo tempo avevo apprezzato il gruppo degli Statuto ma non al punto da approfondirne il nome dei componenti, sicché Bosso, alla fine, me lo ero perso per strada. Sono andata –quasi inutile dirlo- a “youtubbare” e l’ho ritrovato ospite nell’ultima puntata di “Ghiaccio bollente”, il programma musicale di Carlo Massarini, che l’azienda, purtroppo, ha recentemente cancellato. Il Maestro aveva dato prova, anche il quel caso, oltre che delle doti di musicista, della sua potente statura umana.
Non so quale sia la percezione che Bosso abbia di se stesso: è un comunicativo e a lui, lo ha sottolineato chiaramente, interessa il contatto con la gente, la dimensione duale della musica, che passa attraverso l’esecuzione e l’ascolto.  Io ho visto un uomo focalizzato sulle essenze, di grande intelligenza e dalla dirompente empatia. Si racconta senza difficoltà buttando fuori quanto ha maturato nel cuore e nella mente. Basterebbe a descriverlo un’espressione più banale ma altrettanto eloquente: “bella persona”. 
Eppure, nonostante la mia passione dichiarata per le cerimonie popolari e l’apprezzamento per il talento di Bosso –che mi rammarico, data la mia incompetenza, di non potere apprezzare pienamente-    resto scettica rispetto alla sua partecipazione al festival. Mi lascia dubbiosa la rappresentazione che se ne è voluta fare. Quando senti al radiogiornale definire la sua performance “commovente”, sospetti che si siano voluti solleticare i nervi più esposti e ti sembra ancora più lecito diffidare. 
Ezio Bosso è un musicista che ha già avuto  alti riconoscimenti. I pochi minuti di celebrità sanremesi sono veramente poca cosa. Speriamo solo che non preludano ad una forma ancora più svilente di notorietà: mi riferisco alla modernissima soglia della viralità.



mercoledì 10 febbraio 2016

Non ci sono le mezze infanzie di una volta.

Ah, l’infanzia. Un periodo non facile per nessuno. Figurarsi per chi, come la sottoscritta, venendo da un quartiere periferico della più grande città del sud, si è trovata  giovanissima e in terra straniera  a dipanare l’intricata matassa di quella altrui.
Capitoli di aneddoti degni di una piccola Odissea: e si, perché si è trattato, in fondo, di un lungo periplo, sebbene metaforico, intorno ai precetti vigenti a tal riguardo nella penisola  natia. Naturalmente protagoniste le mie due creature che hanno, loro malgrado, patito la mia inesperienza. Perché, vedete, non è una passeggiata allevare i figli, per chi è lontana dal nucleo matriarcale avito, mediando tra la cultura della terra di origine e quella dell’altro paese che ti accoglie. Me ne sono dovuta inventare molte, in sempiterna diretta telefonica  con mia madre, terrorizzata che da un momento all’altro le ammazzassi le nipoti.
La prima volta che ho portato la maggiore dal pediatra, ad esempio, il britannico esemplare  più che dal caso clinico rimase incuriosito dalla “maglia della salute” in cui  avevo infagottato la piccina. E dire che io mi sentivo tranquilla di non fare figure da cafona. Avevo infatti a lungo ragionato sulla lunghezza più opportuna delle maniche del capo. Considerata la quantità di neve fuori a pensarla come nonna sarei stata obbligata a quelle lunghe. Mia madre avrebbe scelto le mezze, l’inglese non ci avrebbe pensato affatto. Io che –dopo numerosi giri di shopping in tutto il circondario- avevo reperito due canottierine in cotone, ero stata forzata ad una smanicata opzione . Il medico esterrefatto sfilando l’indumento mi rivolse testuali parole: - “capisco, questa è la maglia che la mamma italiana fa mettere al figlio quando lei ha freddo”; a me più che sarcastica sentenza mi suonarono come una bocciatura senza appello.
Il meglio l'ho dato però con l’alimentazione.
Come in tutte le storie di Matrioske che si rispettino io fui svezzata e poi  nutrita secondo le ferree leggi alimentari della nonna. La lontananza e la grande differenza di usanze locali hanno, invece, privato me di una necessaria guida e mia madre del ruolo di supervisore tanto ambito.
C’è da premettere che quando io ero bambina molti erano i cibi, in famiglia, interdetti ai piccini.  Prendendo in parola la raccomandazione del medico alla gradualità, lo svezzamento a casa mia  fu affare lungo. L’insalata, ad esempio, mi fu inserita –credo- non prima dei 10 anni. Non ho assaggiato le zucchine che dopo i 15, e non sto a dire dei fagiolini, ai quali ho avuto accesso solo dopo la patente. Scherzi a parte, su tutto il mondo vegetale si estendeva la grande ombra verde dei “riscinzielli”, leggendari mal di pancia che a detta degli anziani erano mortali.
Impavida,  giovane e sola, in terra germanica, ho vinto l'atavica resistenza contro omogeneizzati alla carota  conferenti alle  bimbe  una leggera sfumatura di arancione. Ho superato il taboo di dare loro da mangiare vasetti alla cipolla, avendo ben in mente che alla  prima Genovese io ero stata ammessa solo dopo la  comunione.
Ho tremato quando le figliole, imitando i coetanei, hanno preteso la prima insalata, e poi i peperoni -per giunta crudi- e i broccoli e le melenzane. Ho rischiato l’infarto al primo ristorante indiano. Mi aspettavo l'arrivo dei servizi sociali ad addebitarmi la colpa grave di  aver  fatto mangiare loro, prima dei 30 anni, pollo al curry .
Il dramma più grosso -lo confesso- è stato infrangere il dogma del primo piatto. Le ho sorvegliate per giorni, in attesa che mi deperissero a morte sotto gli occhi, perché, adeguatesi  ormai all’ inconcepibile costume mitteleuropeo, non si nutrivano più quotidianamente di  pastasciutta.
E si, amici, me la sono vista brutta!


martedì 9 febbraio 2016

Don’t think pink, it's not right.


Ricordate quanto fosse simbolica  e al tempo stesso mortificante l’evoluzione del colore nei grembiuli scolastici delle bambine? L’esordio spettava al classico quadretto rosa- tinta tipicamente femminile- gli anni di mezzo si coloravano di candido bianco – ancora fortemente allusivo-  l’epilogo segnava il passo al nero, evocativo della condizione a venire.
Sarà per la costernazione a dover indossare, nel fiore della giovinezza, il colore deputato al lutto che io ho  sviluppato una avversione per i tentativi “di tinteggiare”  con nuance precise ciò che appartiene all’universo femminile.
Se fossi una torella più che alla cappa rossa reagirei al drappo rosa. Mi piace pensare alle quote rosa come ad una medicina molto amara che va presa, data la mole di controindicazioni annesse, sotto attento controllo medico e solo in situazioni di necessità.
Non a caso perciò l’ultima trovata che mi ha fatto infuriare è il “Taxi rosa” del Comune di Napoli.
"Il progetto “-nato dagli sforzi sinergici della “delega alle pari opportunità” e dell’assessorato alla mobilità- “rappresenta un servizio preferenziale notturno per le donne, volto a garantire alle donne libertà e sicurezza nel movimento. " Prevede che “alle donne saranno distribuiti, in via sperimentale, voucher del valore di 5 euro (per un massimo di 5 a testa) per le corse che saranno effettuate dalle ore 19.00 alle ore 6.00 del mattino.
Non metto in discussione la buona volontà di chi ha avuto la “pensata”. Sento piuttosto la necessità di biasimarne le implicazioni discriminatorie che, attenzione, non sono unicamente verso il genere femminile.                                                               
Costruire dei campi di segregazione –naturalmente in questo caso in tinta rosa- seppure a scopo di tutela, non è mai una giusta soluzione. 
Le aggressioni e le violenze carnali non nascono da radici culturali e non devono essere maneggiate come tali. Si tratta di crimini efferati che competono al codice penale nella più ampia accezione di delitti contro la persona. Soggetto passivo, cioè vittima, può esserne chiunque prescindendo dalla sua identità o orientamento sessuale.
Se la prevenzione e repressione, dunque, non sono "questioni di genere", bensì problemi di ordine pubblico, sarebbe opportuno che la collaborazione scattasse  più propriamente tra il Comune e gli organi preposti alla  sicurezza collettiva.
Le criticità legate alle uscite serali, volendo fare un discorso  più generale, riguardano oltre i reati a sfondo sessuale e quelli comuni quali rapine, altresì le inefficienze del servizio di trasporto pubblico. Per decongestionare il traffico, scongiurare incidenti automobilistici legati all’uso di droghe ed alcool, ma anche più semplicemente per favorire i giovani che non hanno disponibilità economiche, basterebbe puntare anche su quello . 
Non pensiamo sempre rosa, che a volte è un male.

lunedì 8 febbraio 2016

Mistero svelato

Le 13,45. In perfetto orario sulla tabella di marcia. L’atterraggio –ha controllato su internet prima di partire da casa- è previsto a meno 10.
Farebbe carte false pur di non utilizzare il parcheggio dell’aeroporto. Tre euro e mezzo all’ora e frazioni. Roba da matti. L’ultima volta ha dovuto pagare l’intero importo anche se è stata una questione di attimi. Così ora si è inventata di partire da casa in ritardo rispetto a quanto le imporrebbe la sua ansia anticipatoria. Nel dilemma se risparmiarsi disagi psicologici o salvare qualche soldino non c’è storia: vincerà sempre la vile pecunia. Adesso c'è il pedaggio della tangenziale e infine l’ultimo tratto di strada. Al casello sceglie la fila più lunga così da ammortizzare la manciata di minuti che serviranno a lui per scendere dall’aereo, prelevare il bagaglio e portarsi nel consueto luogo d’incontro, vale a dire il marciapiede sulla sinistra dopo lo spazio riservato ai taxi; è lì che ormai si dà appuntamento tutta la città per il recupero “al volo”. Imbocca il rettilineo del viale “Ruffo di Calabria” lentamente, perché la telefonata tarda ad arrivare. Si appoggia al tratto di “sosta vietata” dove  parcheggiano tutti, confidando che la buona sorte non  faccia arrivare i vigili urbani. L’ultima volta che la fila di auto è stata costretta a spostarsi ne è venuto fuori un carosello intorno alla rotonda a metà tra una scena demenziale e un numero da circo.
Non ha ancora azionato le 4 frecce e messo a folle che sente nella tasca la vibrazione del cellulare. Rimette in moto e innesta la marcia, esce dal buco tre le due auto dove si era parcheggiata ma il telefono continua a squillare, segno che lui ha qualcosa da comunicare. Vuole avvisarla di non muoversi ancora; ne ha almeno per un altro paio di minuti. Lei si prepara a rientrare nello spazio appena lasciato, ma non fa in tempo ad azionare la retromarcia che  velocissima un’altra macchina ci si infila. Dalla nuova postazione in doppia fila cui è stata forzata, attraverso lo specchietto retrovisore, butta l’occhio incazzata al cretino  che le ha rubato il parcheggio. Con la stessa agilità con cui si è fregato il posto il deficiente esce dall'auto. Sulla quarantina, alto, bruno. Jeans e un giubbotto marrone. Mentre lo studia, incerta se urlargli contro il suo rancore, lui, aperta la porta di dietro, si immerge con la testa nella macchina a rovistare. Oddio, ma quella è una pistola! Sul fianco sinistro di lui, canna infilata nella cintura dei pantaloni, c’è un’enorme rivoltella; in realtà non sa se è enorme, non ne ha mai vista una da vicino prima d’ora. Lui, l’uomo, non se ne cura minimamente eppure sa che è ben visibile. Non indossa la maglietta della salute e il vento freddo sulla pelle gli dà la consapevolezza che camicia troppo corta e giubbino lascino quella parte del corpo e quindi l’arma a vista. Un uomo con la pistola. Lì. Davanti a lei in pieno giorno.
Esclusa ogni lagnanza circa il furto di posto subito, deve tenere a bada l' impulso di fargli notare che ha l’aggeggio di fuori. Le era venuto d’istinto di abbassare il finestrino e urlargli: - “senta, scusi, le si vede la pistola!”. Si, poi magari lui, come ringraziamento, le spara un colpo alla testa.
Ma che roba. Sarà un buono o un cattivo? Un camorrista o un poliziotto? Sarà venuto ad incontrare un contatto o a gambizzare un avversario? Una pistola. Vera. Nera. La immagina fredda poi ci riflette meglio. Deve essere così all'inizio, poi la temperatura corporea la riscalda. “E’ comunque pesante, quindi per quanto tu sia abituato a portarla –pensa- ne avverti costantemente la presenza”. Impossibile dimenticarsene. Il tizio armeggia tranquillamente  là dietro ma ne sente il peso : chissà se anche per lui rimane come una bruciatura che in sottofondo è dolorante. Agli occhi di lei è così, una bruciatura da cui è impossibile  distogliere lo sguardo. Sarà il magnetismo del male. E' la prima volta che vede un uomo con la pistola e non può fare a meno di guardare. Vorrebbe andare via, ma è elettrizzata.  Se lo ripete pure, continuamente, a mo’ di ritornello: “un uomo con la pistola”, come se lo potesse scordare.  Con l’energia dimostrata in tutte le sue precedenti azioni, che sembra parte della sua fisicità, ma con calma, lui continua a scavare sul sedile posteriore dell’auto. E se fosse solo un trucco per perdere tempo mentre aspetta che la vittima sia a tiro per sparare? I poliziotti ne indossano una – oddio, indossare, mica è una maglia che si indossa, come diamine si dice, ah, sì, portare, ma pure i killer della camorra tengono sempre “o’ fierr appriess”. Cavolo: le si è ingrippato il cervello. Solitamente non   manca di fantasia eppure ora non riesce a fare altro che avvitarsi a loop intorno a quei tre pensieri: pistola, polizia, camorra. Dovrebbe chiamare il 113? – “pronto? Volevo dire che davanti a me c’è uno con un arma. Ma infondo ha un’aria perbene. Pare tanto tranquillo.” -
Cosa si fa in questi casi?
E’ l’ultimo pensiero prima che arrivi lo squillo ad avvertirla che ora può muoversi. Parte, ma ancora è turbata. E si arrabbia con se stessa, perché quella immagine è nella sua testa e lei a volte non riesce a frenare le parole. Non è quella la prima cosa che intende dire al marito. Non lo vede da quasi un mese, vuole e deve fargli un degno “bentornato”, ma si conosce e sa che il rischio c’è: aprirà la bocca e invece delle parole già pensate, verranno fuori le altre istintive, concitate.
Lo vede da lontano, agita la mano. Accosta e lui sale. Un bacio ad occhi chiusi veloce e poi lo dice: - “C’è un uomo con la pistola dove stavo prima parcheggiata”. – “Bentornato!” – Ribatte lui e sorride. Lei naturalmente non molla e lo convince a ripassare là davanti per vedere se sia ripartito. Suo marito la conosce, sa di non avere speranza. Ora l’uomo si è raddrizzato. Stretto al petto ha un fascio di plichi e soprattutto, stretta nella mano con cui li sorregge, una paletta circolare, bianca e rossa, con la scritta “Ministero dell’interno. Polizia di Stato”. Ok, lei è finalmente  tranquilla. Tutto a posto. Possono ripartire a mistero svelato.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...