giovedì 13 maggio 2021

ganglio 46


 Sono preoccupata. Anzi, preoccupatissima. Sono giorni che non mi sputi. Non sei mai statǝ puntuale, è vero. Però l’intervallo tra una sputata e l’altra non è mai stato così lungo. Da quando porto quest’assurdo conto del tempo? Non saprei. Credo che sia un’abitudine invalsa inconsciamente e che ora si è definitivamente radicalizzata. Al terzo giorno il pensiero si fa acuto e batte come un martello, cioè conserva ancora una certa cadenza. Al quarto perde ogni appiglio di ragionevolezza e diventa acufene ininterrotto che sferza il cervello. Perché, gioia mia, non mi sputi? Perché trattieni in bocca tanto a lungo il liquido vischioso?

Perché lo rimandi giù, addirittura? Eppure, ti idrato di continuo. Bicchieri di acqua su bicchieri di acqua. E l’aranciata e la bibita gassata. Perfino le minestrine, per te, le faccio lasche lasche. Sputami, tesoro mio. Sputami tutto il tuo amore. Dice che lo sputo è un dono. L’ho letto sul computer. Me lo ha pure confermato un’amica che ha chiesto ad una sua amica assidua lettrice di riviste psicobanalitiche. Lo ripetono tutti in coro che è un segno di affetto. E’ regalare ad altri un pezzo di noi. Non mi ami, allora? Perché mi punisci negandomi il tuo dono? Non mi sono fatta amare. Ne sono stata incapace. Sarà che ti ho pulito troppo solertemente gli sbavi di piccinǝ? Perché ti ho costrettǝ perennemente ad indossare il bavaglio? Se vuoi compriamo una sputacchiera. Colorata, magari rossa. Con una imboccatura larga, così che non fallisci il tiro. No. No. Scusa. Perdona la mia mania del controllo. Magari ne preferisci una con il collo stretto: ti stuzzica di più? Forse ti ispira maggiorante esercitare la mira? Ecco, si, bravǝ. Facciamone un gioco. Un tiro alle freccette, tipo. E quando ti sarei bene allenata, allora punterai su di me.
Ci pensavo ieri, alla mia disperazione dei giorni in cui non mi sputavi. Quanto tempo è passato. Chissà poi com’è che il dramma si è smaterializzato dal nostro orizzonte esistenziale. Quando? Chissà da cosa sarò stata distratta e ho mollato la presa. Chissà da cosa sarai statǝ, magari, distoltǝ tu e hai allentato l’embargo della saliva. Quando ci incontriamo, talvolta, mi viene da chiederti se sputi, ora, e con quale frequenza.
Su chi, soprattutto, ora che me ne sono andata. Di quante cazzate, nella mia vita, ne ho fatto questioni personali, scassando le scatole a chi mi stava intorno. E’ avere l’impressine di portarsi sulle spalle un centro che ci rende obiettivi altrui, nel bene e nel male, che frega. Il leggere costantemente le interazioni con gli altri in termini di negazione o dono. E’ l’essere perennemente in attesa di una gratificazione, quella carezza che non arriverà mai da chi la desideri e che ti costringe, alla tua età, in una rocambolesca manovra ginnica sperando nell’ennesimo applauso negato

ganglio 45

Metà ganglio, metà recensione: metaganglio-metarecensione de
" L’unica persona nera della stanza"
Un tempo ero molto ignorante. Incolta. Ero una somma di impreparazioni su moltissime materie curricolari di vita. La mia ignoranza era incolpevole, data l’età. In buona fede, eppure perniciosa per le sue possibili implicazioni quando fossi cresciuta. Ignoravo, per estrazione socioculturale familiare, molte cose del mondo, molte dell’ortodossia del vivere civile. Ignoravo la lingua italiana essendo stata allevata in vernacolo, le sfumature più sofisticate della buona educazione, le regole dei convenevoli altoborghesi. Ignoravo, ad esempio, pure il razzismo come eventualità vicina, e meno che mai sospettavo di poter essere io stessa razzista. Il Sud Africa era lontano, così l’Apartheid che l’affliggeva. L’unico contributo alla causa dei neri richiestomi era di scrivere, di tanto in tanto, uno zelante temino scolastico. Un tempo, dunque, sono stata molto più ignorante di quanto lo sia ora e sono stata molto più razzista di adesso. La primissima bracciata verso la risalita dal pozzo è stata l’acquisizione della consapevolezza che dopo una certa età l’ignoranza non può più, se non colpevolmente, ignorare sé stessa. Mi sono messa a studiare per colmare i vuoti e i buchi che facevano di me, in trasparenza, un colabrodo.
Ho imparato che tutto è costruzione, anche il sé. Che fondamenta, pilastri e finimenti di ogni costruzione restano sempre lo studio e la conoscenza. Che la qualità, la durata e bellezza delle fondamenta, dei pilasti e dei finimenti sono il prodotto della qualità dello studio e della quantità della conoscenza. Ho imparato altresì che, periodicamente, bisogna sottoporre a verifica il bagaglio accumulato.
Per semplicità – sperando di non banalizzare troppo- immagino i mei razzismo e antirazzismo come le due ante, ben separate, del mio guardaroba al cambio di stagione.
E’ il momento di appurare cosa ho stipato in un lato e cosa nell’altro ed eventualmente disfarmi di ciò che è fuori moda o non mi calza più bene. Si imporrà, al termine dell’operazione, l’esigenza di nuovi acquisti al passo con i tempi. Se, in preparazione ad una sessione di shopping, è utile sbirciare le riviste di settore per aggiornarsi sulle ultime tendenze, figurarsi quanto siano necessarie nuove letture per allestire un pensiero anti-razzista corrispondente alle esigenze di inclusività e assimilazione verso le quali dobbiamo tendere. Una lettura imprescindibile è, per me, “Americanah” di Chimanada Ngotzi Adichie. Un secondo tassello importante per l’ammodernamento che mi sono imposta, è “L’unica persona nera della stanza” di Nadeesha Uyangoda, edizioni 66TH A2ND, del quale mi accingo a parlare in maniera del tutto irrituale.
Molto più di un racconto autobiografico, molto più di un saggio. L’unica persona nera della stanza non è solo un testo di formazione, è anche un test di verifica del nostro livello di razzismo strutturale e interiorizzato ( individuale e collettivo). Consiglio alle insegnanti di proporlo agli alunni. Consiglio agli amici di leggerlo. Analizzare il tema in una prospettiva contemporanea è urgente, così come comparare i traguardi o i punti di stallo sui quali si è stabilizzata la nostra cultura in materia a quelli consolidati altrove, in Europa e più in generale nel mondo. Ancora più pregnante il contributo, se viene da chi il nostro razzismo, quello italiano doc, lo sperimenta ogni giorno sulla propria pelle, a partire dalla negazione della cittadinanza che lo discrimina e marginalizza.
Considerare “ L’unica persona nera della stanza “ una cartina di tornasole del mio grado di razzismo strutturale, significa necessariamente scavare nel mio passato. Significa corrompere queste righe, nate come appunti per la recensione del libro, fino a renderle inutilizzabili a tale scopo e rinunciare, in ultima analisi, alla recensione stessa, per dilatarla-convertirla in una narrazione autobiografica. Significa, in altre parole, sputare fuori un altro ganglio, quello del mio incontro con il nero.
Allora ricomincio: sono stata ignorante, e razzista a causa di quella ignoranza. Sono ancora oggi residualmente razzista per la parte di residua ignoranza che mi affligge e che intendo obbligatoriamente colmare. Sono una razzista strutturale intersezionale. Da ciascuna delle mie identità: familiare, sociale, culturale, nazionale, di genere, desumo un pezzetto di quel razzismo inconscio, introiettato di default, da cui devo nettarmi. Cercherò di non commettere errori -terminologici o ideologici- di essere quanto più corretta e rispettosa possibile, ma so che scapperanno strafalcioni, offese inconsapevoli, indelicatezze urticanti, di cui chiedo anticipatamente venia. Sto per affondare le mani nella mia preistoria e non edulcorerò nulla. Portatemi pazienza: sono qui per imparare, partendo dai miei errori. Non scuso il mio razzismo strutturale, non mi faccio sconti, solo lo contestualizzo.
Eccomi ritornata la bimbetta al primo anno di elementari che incontra per la prima volta un nero.
Nonno è sarto. Una clientela variegata. Tra i più affezionati -è bravo, onesto e anche simpatico- ci sono tanti professionisti. Gente del Vomero, con i titoli di studio grossi e soldi. Qualcuno tra essi ha sperimentato la novità, diffusasi presto tra i pari come una moda, di assumere a servizio persone “importate” apposta da Capo Verde. Nonno annuncia che uno di questi pomeriggi la signora manderà in sartoria il suo capoverdiano a ritirare l’abito. Lui lo ha già incontrato a casa della signora, per l’appunto. Ne tesse le lodi: affabile, simpatico, “si vede che è una brava persona “-dice. Ne decanta anche l’aspetto: alto, bella presenza, veste “pulito pulito” - aggiunge. Ma, al di là della gentilezza d’animo e delle pregiate doti di artigiano, nonno resta un sarto semianalfabeta che dal suo vocabolario estrae l’unico termine in dotazione per definire quest’uomo: “tizzone”, pezzo di carbone. Dice proprio così: quello è di Capoverde, è ‘nu tizzone. Ragguaglia noi di casa, ci mette in guardia, probabilmente, per evitare che facciamo o diciamo cose sbagliate, dato che, tolto quel dettaglio, Francesco -così si chiama- "è tale e quale a noi". Il fascismo, per me bambina, era leggenda lontana nel tempo, un fatto di mille anni prima. Per i nonni, invece cosa recentissima, di ieri. Così le sue implicazioni, come l’essere obbligati ad ottemperare alle vigenti leggi razziali discriminando il prossimo in base anche al colore della pelle. Avranno avvertito distintamente sulle loro teste spirare lo zefiro di trepidazione nel compiere il gesto ovvio, naturale, di stringere la mano di un altro uomo diverso solo per il colore della pelle, gesto che solo qualche anno prima sarebbe stato disdicevole. Per fortuna, in casa nostra, ben più radicati di quel pessimo retaggio del ventennio di Musollino -come lo chiamava nonno- sopravvivevano, vivi e vitali, i precetti evangelici e l’uguaglianza tra gli esseri umani non era in discussione. L’affabilità con cui fu accolto Francesco ebbe più che altro il sapore autentico della cordialità tra persone della stessa condizione socioeconomica, perché, diciamo la verità, la ghettizzazione da noi si esauriva ancora e soprattuto nel vaglio della classe sociale di collocazione.
Rimaneva tanto lavoro da fare nel backstage, per così dire, al fine di affinare- anche nell'uso privato, domestico- la lingua del nonno. Ci arrivammo con il tempo e con lo zampino del destino, quando, per virtù di un’adozione internazionale, la famiglia acquisì un nuovo membro: un bambino venuto dal Brasile, anche egli, per un caso, battezzato Francesco. La gioia dei figli per un genitore è sempre gioia moltiplicata. La felicità dei nonni di fronte alla realizzazione del desiderio di maternità della figlia minore funzionò come un velo che si posò sui loro occhi, rendendoli daltonici al colore della pelle di quel piccolino. Magie dell’amore. Stupirsi dello stupore altrui. Indignarsi dell’ignoranza d'altri. Farsi il sangue amaro per le altrui indelicatezza e stupidità. Un abbecedario di aneddoti sul quale, a forza di bocconi al fiele e lottando contro le sue stesse lacune culturali, l’intera famiglia ha imparato il razzismo e ha costruito il suo claudicante, insufficiente, inadeguato antirazzismo. Sono stata ignorante e razzista. Per alcuni aspetti lo sono ancora. Per fortuna è un male reversibile. Per fortuna ho a portata di mano la cura. 
 

ganglio 44


 Ogni volta che compro un pacco di farina sorrido pensando a mia nonna. Era una donna semplice come il nome che portava: Anna.

Cresciuta durante i duri anni della seconda guerra, quando la vita offriva alle persone pochissime alternative e divenuta madre nel dopoguerra, tempo in cui valevano unicamente le necessità, lei tradusse entrambi, i bisogni e la mancanza di scelte , in certezze; non saprei dire se per un eccesso di ingenuità o di scaltrezza.

La nonna non conosceva sicuramente Amleto e se gliene avessero parlato avrebbe sorriso dell’interrogativo che egli si poneva, non comprendendone soprattutto la ragione. Piuttosto avrebbe risposto, con risolutezza, che tra essere o non essere si era obbligati unicamente e con tutta evidenza ad essere! Non ha mai avuto dubbi sulla condotta da tenere in ogni contingenza e questo valeva per i sentimenti da provare come per le azioni da compiere. Ad esempio, se il tempo era incerto, mia nonna assolutamente non lo era sulla necessità di uscire con l’ombrello. Di fronte ad un dolore bisognava piangere, così come in caso felicità si doveva gioire, senza sfumature o zone grigie.

Ho sempre immaginato che custodisse, nel grosso secretaire dove stipava le cose importanti, compresi gli abiti con i quali un giorno voleva essere sepolta, un libro ereditato dalle sue antenate, costituito da un lungo elenco dei dispiaceri e delle gioie. Mi pareva, infatti, che i moti dell’anima, in lei non fossero generati spontaneamente da un sentimento personale, quanto piuttosto dalle indicazioni contenute in questa sorta di fantomatica enciclopedia.
Nei momenti di grande pericolo per l’umanità o semplicemente per la nostra nazione, spento il televisore e dopo un breve consulto con la sua vicina e amica fedele, nonna correva a far scorta di generi di prima necessità. Se tornando da scuola trovavo la famiglia intenta alle grandi manovre, senza dubbio, mi preoccupavo e l’intensità della mia ansia dipendeva dalla serietà dei preparativi.
La guerra fredda imponeva che in casa vi fosse sempre una scorta fissa di pochi chili di farina, ma ogni volta che lo scoppio del conflitto atomico si profilava imminente a causa dell’aprirsi di una nuova crisi internazionale, seppur a migliaia di chilometri lontano da noi, i pochi chili divenivano decine. Non importava né cosa raccontassero i telegiornali o quali fossero gli umori che captavo origliando i discorsi dei grandi, né le parole che i miei genitori usavano per tranquillizzarmi. Mi fidavo solo di nonna. Temendo il peggio, ho perso il sonno unicamente durante la lunga fase della rivoluzione di Khomeini in Iran, culminata con l’episodio dell’assalto all'Ambasciata americana di Teheran nel novembre 1979. Ricordo che in sala da pranzo, accostata alla parete, in corrispondenza del tavolo posto al centro della stanza, c’era una credenza - il buffet, come lo chiamava lei-. Un giorno, nel periodo in cui alla televisione imperava il volto dell’Ayatollah, rincasando mi colpì che il mobile non si trovasse al solito posto, bensì chiudesse un angolo della stanza a mò d’ipotenusa, creando nel retro un capiente spazio vuoto. Corsi a sbirciare in quello stanzino realizzato in maniera rudimentale e vidi una cosa mai vista in precedenza: un saccone enorme contenente un quintale di farina. Oltre quella volta, negli anni accaddero altri fatti allarmanti: il rapimento dell’on. Moro, il terremoto del novembre 1980 e l’attacco missilistico libico contro Lampedusa , ma furono tutti episodi “da pochi pacchetti” e mai più rividi il “quintale”.
Ci sono parole, simboli e gesti che non travalicano i confini del proprio tempo, così é stato per l’inconfondibile comportamento di nonna, trascinato via dalla modernità. Ogni lingua si evolve costantemente, sacrificando alcune parole per crearne di altre, mi chiedo spesso quale sia il nuovo, muto vocabolo del mio lessico famigliare attraverso il quale, ora le mie figlie colgono i pericoli dei tempi. In attesa della risposta, mi rifugio nel ricordo di quei lontani giorni, che custodisco tra le immagini più preziose della mia fanciullezza, in cui la dispensa era un’oasi, e quell’oro bianco che la riempiva l’unico antidoto contro la mia ansia di vivere.
La nonna mi manca. Ho nostalgia del sorriso aperto e schietto che le adornava il viso, della luce dei suoi occhi, che mi guardavano con avidità perché ero la sua prima nipote e perché l’avevo resa bisnonna. Mi manca, soprattutto, la sua risolutezza di fronte alla vita e alla storia.
Spero che da questo primissimo e visibilmente goffo tentativo di scrittura, premesso al ganglio quarantaquattro, riesca a venir fuori l’essenza di mia nonna. La personalità della nonna era molto più composita, è chiaro, certamente non circoscritta all’aspetto che ho provato lì a riassumere.
Michela Murgia ha dedicato un romanzo all’Accabadora, l’ancestrale figura della cultura sarda che praticava, per una forma estrema di carità cristiana verso gli agonizzanti, una eutanasia ante litteram. Mia nonna sicuramente non è stata un’Accabadora, eppure non si è mai sottratta al contatto con la morte. Considerava un obbligo accompagnare verso l’aldilà i suoi cari e spesso si prestava anche per i moribondi altrui, quando “gli altrui” non ne avevano il coraggio. Conosceva a memoria tutte le fasi precedenti il trapasso, ne coglieva e decodificava le spie, custodiva i riti del caso e quando si adoperava intorno ai capezzali, metteva in pratica il suo sapere con la perizia da prima della classe. Quante volte ho origliato i suoi racconti. Gli appelli rivolti alle madri trapassate da decenni ma che per prime, puntualissime, si presentavano a popolare le farneticazioni di chi era sul punto di spegnersi. Le invocazioni ai parenti già sull’altra sponda, il rantolo che preludeva all’esalazione dell’ultimo respiro. “Sta tirando” -diceva lei- e io non capivo se il moribondo tirasse il filo della vita o della morte, riferendomi alle Moire. Nel mentre c’era il cerimoniale di fargli poggiare i piedi in terra, anche solo un accenno simbolico, perché potesse staccarsi dalla materia, e l’esortazione a liberarsi. Seguivano il rito della vestizione della salma, la veglia e le visite “di cortesia”.
Al suo capezzale, tuttavia, le cose andarono diversamente. Andata è andata, ma del come a me è rimasto questo ganglio, nel quale ambirei a sciogliere il nodo del turbamento per antonomasia, quello della prima interazione ravvicinata con la morte o meglio ancora con l’attesa di lei.
La nonna fu, innanzitutto, una delle prime -nella sua cerchia sociale- a grattarsi via di dosso la scorza di madre/padrona inselvatichita dalle precoci fatiche della vita, insensibile a null’altro che non fossero i bisogni materiali. Fu una delle prime a concepirsi, all’opposto, come uno scudo frapposto tra la brutalità dell’esistenza e i suoi figli. Ogni fatica fisica, lavoro domestico gravoso -sciorinare i panni, alzare pesi- se lo caricava lei sulle spalle. Ogni peso, trauma o angoscia che potesse affaticare lo spirito dei suoi ragazzi, lo parava lei. Sbrigativa, franca di cerimonie, maldestra, come nella migliore tradizione delle popolane, purché i figli non patissero, nel fuoco si buttava avanti lei. Fu, cioè, alla sua maniera intuitiva e sgrammaticata, un primissimo prototipo di madre moderna iperprotettiva e ne pagò, in un certo qual modo, lo scotto nell’ora estrema, accudita da quattro figli devoti, pronti a far ogni cosa pur di tenerla in vita, ma impreparati all’inevitabile epilogo. Amorevoli, solerti, intontiti dal dolore e totalmente sprovvisti dello spirito fattivo della Marta biblica, presidiarono a turno la stanza per settimane affinché non fosse mai sola, ma rifiutarono, fino a fatto compiuto, a causa di un totale ottundimento della razionalità e dei sentimenti, di assecondare i segnali che la natura inviava loro. Arroccati nella loro personale interpretazione dell’abnegazione filiare, intesa come imperativo a tentare l’intentabile, non ebbero la compassione di invocare per lei “lo Spirito Santo, affinchè “spensasse ‘e grazie soie”, come lei, invece, aveva avuto la prontezza di fare mille volte per gli altri.
Ricorderò l’agonia della nonna come l’impresa più ardua che fin qui mi è capitato di veder compiere ad un essere umano. Per lo sforzo impostole. Per la fatica fisica reclamatale da tutti i singoli, flebili riciati in cui si impegnò con estenuante zelo. Una guerriera che si sfiniva ad ogni respiro – sembra un paradosso- per continuare a vivere. Anziana, terminale di una neoplasia che aveva indossato con la stessa dignità ed eleganza con cui vestì per l’intera vita le sue gonne di vigogna marrone e i tween set amaranto, giacque per giorni e giorni e giorni con il volto e il sorriso – del quale andava fiera come della più preziosa collana di brillanti- annientati dall’incombenza di gestire il suo residuo spirito vitale.
Ho molti debiti con lei. Non solo per l’anellino a serpentello regalatomi al mio quinto onomastico o per “Cicciobello” arrivato qualche anno dopo nella stessa circostanza. Le ho sgraffignato, a sua insaputa, molti insegnamenti di vita. L’attitudine ad essere ottimisticamente caparbia nei momenti difficili, che sopravvive indomita all’usura delle intemperie esistenziali, credo sia il maggiore e più persistente dei precetti di cui le sono grata.
Diceva sempre che “per viennere ‘e nepute, quello che fai è tutto perduto”. Per dimostrarle forse la mia gratitudine e smentirle quell’orribile detto, che evidentemente lei usava solo per pungolare ma che a me bruciava, ho spodestato allora i suoi figli e mi sono fatta carico di sollecitarla ad andare oltre i confini. Traumatizzante il trapasso-lo confesso- quando è la prima volta che lo vedi così da vicino, quando sei tu a doverne gestire gli esiti fisiologici, quando non sarebbe toccato a te farlo. Eppure, nonna fu come sempre collaborativa nel farsi vestire con gli abiti che aveva preparato già decenni prima, custoditi sul fondo del cassetto. Non tralasciai, nonostante la difficoltà, neppure le calze bianche che tanto ci aveva raccomandato, ogni volta che era venuto fuori il discorso, di metterle. Le rimase un’unica ostinazione: tenere gli occhi spalancati sul mondo, sui suoi amatissimi figli nell’atto di vegliare per sempre su di loro. Nonna aveva un sorriso, ci ritorno ancora una volta, bellissimo. La malattia, alleatasi con l’agonia e con la morte riuscirono a portarglielo via. Se n’è andata, insomma, con una faccia che non era la sua. Nel suo caso vale l’esatto opposto della frase di rito: -“sembra che dorma!”
Temevo, di più, ero terrorizzata di dovermela ricordare nell’ultimo, estraneo ghigno per sempre. E invece lei, ubbidiente, ha provveduto, come le chiesi di fare nei minuti di conversazione che ci concedemmo -le parlavo incessantemente per farmi coraggio- mentre la ricomponevo. Posso concentrarmi -l’ho fatto per metterla alla prova-tentando di rivederla com'era in quel momento, ogni volta che voglio. Ricordo tutti i minimi dettagli eccetto l'estrema maschera di dolore, che, evidentemente, si è portata via lasciando il consueto sorriso.
Ho riletto il ganglio e in appendice annoto la mia delusione. Di tutti, è quello finito più lontano dall’obiettivo prefissatomi. La mia voce narrante, che volevo fosse più dolente, più amara, ha fallito la nuance di drammaticità che rincorrevo. Mi arrendo. Non lo ritocco e lo pubblico così, com’è nato. Del percorso di liberazione da certe zavorre, il cui peso maggiore è la tragicità, magari il primo passo è proprio edulcorarne i tratti angosciosi. O magari – e questa ipotesi mi affascina di più- è stata la nonna ad ispirarmi lo smorzamento dei toni. Come per un monito che mi indirizza anche fuori tempo massimo a trattenere di ciascuno solo il bello e custodirlo in un incarto di serenità.

ganglio 43


Quando mi siedo al pc per una nuova delle mie esternazioni, immancabilmente accade che mi incaponisca sul numero del ganglio. Un dettaglio ininfluente sul contenuto di ciò che sto per vomitare, assolutamente inutile. Una grandissima perdita di tempo, visto che non ne ho mai la minima idea, perdendone sistematicamente il conto. Anzi, peggio: più che altro quel conto non è che lo perdo, è che proprio sistematicamente non lo porto affatto. Non ci posso far nulla: ho una memoria che rivendica la sua natura schifosamente indolente in fatto di ricordi numerici. Non trattiene nessuna cifra. Non è che espelle il dato. No. Non lo immagazzina proprio. Una forma di difesa. Certo. Un'altra forma. Come la narcolessia che mi penalizza nei momenti nel bisogno. Come la tendenza a procrastinare, l’intalliamiento, che pratico per sfuggire “ai dunque” della mia vita, che quando ci arrivo, a quei dunque, invece di affrontarli, di mangiarmeli, di spezzarli, mi ci metto a ballare intorno, come ad un falò che non mi risolvo ad estinguere con una bella innaffiata di estintore. Quanto sarebbe più utile. In effetti la cosa che faccio con il ganglio, di mettermi a pensare al numero, che poi devo fare la capatina sulla pagina fb per reperirlo, mi pare anche questa un’applicazione della tecnica del temporeggiamento.
Ok. Bando alle danze (sarebbero ciance chiaramente, ma per palesi esigenze di coerenza con quanto detto innanzi, il falò, girarci intorno, resto sulla metafora ballante). Riafferro la matassa e comincio a districarne il bandolo. Prendo ancora un po’ di tempo e premetto: sono una codarda. Concedetemi una ultimissima rincorsa prima del salto. Sono, oltre che una pusillanime, una fottutissima rinunciataria. Questo ganglio è infatti proprio la materializzazione di una resa bella e buona.
Sto leggendo un romanzo. Bellissimo. Avrei voluto recensirlo ma abbandono l’idea perché tra i miei contatti di fb c’è l’autrice. Desisto ma ne voglio comunque parlare e lo faccio qua, ricorrendo al vecchio trucco che adopero con i quadri che mi hanno stancato ma che non oso dar via per ragioni affettive. Li metto bene in vista, piantati sulla parete principale. Le cose, infatti, più sono a portata d’occhio e più lo sguardo non le percepisce. Questo ganglio, dunque, è la carta da regalo in cui incarto insieme, in un solo pacco, e la rinuncia a commentarlo e l’entusiasmo per il libro e la mia codardia. Un po’ perché è quello che ha fatto l’autrice nella sua narrazione: nascondersi sapientemente sedendo -glitterata, “strassata” e ingioiellata di tutto punto- su un trono al centro di ogni riga per essere assorbita dalla scenografia e scomparire, finendo lei con l’osservare il lettore per antropologica curiosità, quasi facendosene beffe. Bravissima. Una scrittura flusso bulimico in cui dice e non tace, ma dice quando tace e tace quando dice. Amatissima o odiatissima nella vita reale -ne paga forse lo scotto nella parallela esistenza letteraria- non è una che viene percepita secondo mezze misure. Io la amo. L’ho letta nel romanzo che le ha regalato popolarità e là me ne sono innamorata. Un sentimento di ammirazione cresciuto poi vedendola dal vivo, nel candore recitativo dell’autentica sé stessa. Sovrabbondante nella sua maliziosa schiettezza. Geniale in questo ultimo romanzo. A chi è corso a leggerla per puro spirito voyeuristico – incuriosito dalle confessioni disseminate nel testo precedente- si presenta al meglio e tiene botta. Pienamente matura. Adulta. Abbatte la quarta parete e tira dentro il lettore esplicitamente con sfrontatezza, chiamandolo per nome. Acrobata provetta, fa magheggi con gli elementi biografici e quelli di finzione in un riuscitissimo gioco delle tre carte nel quale chi scommette su quale sia l’uno e quale l’altro è destinato a perdere. Emancipata dalla sindrome di prima della classe per quanto riguarda il linguaggio che, spintosi ben oltre quello canonico da compitino di fine corso, abbottonato, bon ton e con tutte le virgole al posto giusto, si spaparanza invece in un ritmo caotico, spericolato, strappato, che si lascia cavalcare anche per il gusto di essere sballottolati con malagrazia di qua e di là. L’applauso a fine rappresentazione – a fine lettura, pardon!- ci sta tutto, appunto perché la chiave del romanzo, del grande lavoro fatto, più che nella storia, che potrebbe perfino essere un mero pretesto se non fosse anche quella godibilissima, è proprio questo incredibile esercizio di stile liberatorio in cui si sublimano le altrettanto catartiche intime confessioni. Sono una vigliacca matricolata, lo avevo anticipato, ma sono certa che adesso anche voi che leggete ne siete convinti. Che senso ha rinunciare a una recensione così entusiastica se non perché me la faccio sotto per il timore di essere giudicata? E se la scrittrice concludesse che non ci ho capito una mazza? Che la mia lettura è tutta sbagliata e il mio commento una grande cantonata? La sindrome dell’impostore. Eh! Ci mancava anche lei a mordere il freno. Lei non è una forma di difesa, però. Piuttosto di affossamento. In questo momento affondo nelle sabbie mobili. Mi tocca pubblicare subito questo ganglio, prima che soccomba all’impulso di cestinarlo. 

ganglio 42

Questo è un ganglio davvero speciale. Scava in un capitolo del passato sul quale mamma aveva imposto a noi bambini un rigoroso silenzio. Dunque ha attecchito nell’inconscio come un tabù e del tabù ha la saldezza. Infatti sono qui ad intalliarmela in superflui giri di parole perché l’esternazione mi riesce molto disagevole. Temo -ancora- le bacchettate di mia madre. Temo il materializzarsi del suo perentorio urlo di rimprovero, esattamente come capitava tutte le volte in cui, nell’ingenuità infantile, stimata la dose di familiarità instaurata con l’interlocutore sufficiente per rilassarmi, uscivo allo scoperto, oppure essendomi figurata, dedotta da qualche indizio, la possibilità che egli condividesse la nostra medesima situazione, lasciavo trapelare il nostro segreto. Apriti cielo. La reprimenda non si faceva attendere ed era durissima. Nemmeno se avessi rivelato l’ammontare del nostro conto in banca o dello stipendio di papà, altre informazioni blindatissime.
I tempi sono cambiati. Quelle che una volta erano onte, le quali si posavano come cappe moleste sulla buona reputazione di una famiglia oscurandola, per fortuna oggi sono state ampiamente riabilitate. Ecco perché posso concedermi la confessione. Mio padre era comunista. Lo è, in realtà, con immutato fervore, tutt’ora. Ho coniugato al passato per esigenze di narrazione. Ho scelto l’imperfetto per cristallizzare il mio racconto -per contestualizzarlo, direbbero coloro che meglio padroneggiano la lingua-, in un arco storico preciso che renda meglio l’idea di cosa parli. Affinché abbia senso la mia accennata titubanza, sono, infatti, obbligata ad incunearlo per bene negli anni settanta-inizio ottanta, quando essere comunisti in certi contesti, soprattutto popolari, significava portare sulle spalle uno grosso stigma. Non so come fosse proclamarsi comunisti nei quartieri borghesi, tra la gente colta, tra gli intellettuali. Io ho sperimentato la condizione di “mosca rossa” -solo in tempi recenti ho appreso la denigratoria definizione di “zecca comunista”che si commenta da sé - in un quartiere di periferia, contadino e artigiano prima, operaio solo poi e grazie all’Italsider. L’ho sperimentata tra gente perennemente impaurita per la propria sorte e perciò condannata dalla propria miseria -non sto esprimendo giudizi morali ma solo valutazioni personali- al pagnottismo. Gente votata ad un camaleontismo che prevedeva solo due sfumature di colore, il bianco democristiano e il nero fascista: le tinte delle bandiere da sventolare se si chiedevano e si volevano ottenere favori in giro. Gente che ignorava l’esistenza delle idee progressiste, di appartenere al proletariato, di dover sviluppare una coscienza di classe e di poter avanzare, come corpo unico, legittime richieste. Ora come allora, chi campa alla giornata soggiace più che altro all’imperativo di badare solo ai casi propri. L’unione, lungi dal fare la forza, nell’immaginario comune compromette le possibilità e la competitività individuali. Al cospetto del datore di lavoro è preferibile presentarsi singolarmente e profondersi in mille salamelecchi, ringraziando per ciò che si è stati convinti di ricevere grazie all’encomiabile spirito di carità del padrone e non per spettanza del diritto.
Il comunista invece scioperava. Il comunista era contro il clientelismo. Il comunista pensava che si fosse tutti uguali e non dovessero esistere privilegi per i privilegiati. Il comunista disertava la messa. Il comunista voleva la riforma del diritto di famiglia. Il comunista votava per il divorzio e per l’aborto. Il comunista guardava con diffidenza all’America e intonava “ El Pueblo Unido Jamás Será Vencido” alle feste dell’Unità.
Avere un figlio convertito a quella fede era una iattura. Eppure c’era una iattura peggiore dell’avere un figlio – l’amore genitoriale sopporta sempre e sempre abbozza per amore- comunista: avere un genero di quella razza. Mio padre possedeva tutte le credenziali del buon pretendente: di buona famiglia, diplomato, impiegato. Un unico difetto deturpava il quadro. Un’ unica, piccola macchia rossa che il giovanotto invece di minimizzare, di nascondere, portava appuntata al petto a mo’ di medaglia. Un neo che enfatizzava, non perdendo occasione d’ intavolare, a destra e a manca, -direi soprattutto a manca- discussioni che subito divampavano in liti appassionate. Una situazione incendiaria nelle riunioni di famiglia, dove papà, in trincea, accerchiato da uno stuolo di parenti missini o democristiani, finiva per alzare la voce ormai paonazzo e con le vene al collo in evidenza. Una situazione ancor più delicata se le tribune politiche si disputavano nella sartoria di nonno, quando era concreta la preoccupazione di perdere i clienti per incompatibilità politica. Fu la nonna per prima a “fare la scuola” a mio fratello e a me di non parlare agli estranei del comunismo di papà. Mia madre, convertitasi anch’essa, non soppesò le conseguenze per noi bambini della nomea fino a quando non facemmo l’ingresso alle elementari. Sul quel limine -che la proiettava, ci proiettava fuori dalla bolla rossa delle loro amicizie- evidentemente si fece qualche domanda – se le maestre o i genitori degli altri alunni fossero fascisti?- e si diede qualche risposta. Per il timore che fossimo discriminati dalle insegnanti o ostracizzati dalla cerchia sociale ci indottrinò anche lei al silenzio.
C’è una ragione contingente che mi ha ispirato, proprio adesso, questo ganglio politico. Oggi, 21 gennaio 2021, ricorre il centenario del PCI. La “falce e martello” è stata, come si deduce dal mio racconto, molto di più del simbolo di una fede, di un orientamento politico. E’ stata un’immagine famigliare e ancora oggi per me identifica mio padre e la famiglia. Sono stata allevata alla luce di due codici etici: quello cattolico e quello comunista. Entrambi molto simili nella concezione della condotta individuale rispetto agli obblighi di solidarietà verso il prossimo. E’ un tratto, di cui vado molto fiera. Mi concedo finalmente la libertà in questa ricorrenza, riscattando gli anni omertosi, di proclamare apertamente l' orgoglio d’essere figlia di comunisti.
 

ganglio 41


 Oggi è una giornata nebbiosa e particolarmente fredda. L’ordine degli aggettivi non è casuale. Rispecchia il mio grado di avversione agli elementi: odio la nebbia più ancora del freddo, che pure mi è insopportabile. Ho messo il naso fuori di casa giusto il tempo per ritirare un pacco in consegna. In questa sezione di vita nordica posso permettermelo. Di rimanere rintanata, intendo. Non ho figli da portare e recuperare in giro. Per il cibo, con le scorte fra frigo e dispensa, calcolo un’autonomia di una settimana. Sono scesa in giardino, andando incontro al corriere, data la celerità della missione, senza cappotto e in pantofole. Un gelo intenso mi ha percossa. Mi ha penetrata da capo a piedi come una scarica. Il ghiaccio ha scricchiolato sotto i piedi. Il soffio d’aria espirato dalle narici si è quasi solidificato mentre si saldava alla nebbia.

I rumori, i profumi e le consistenze di questo tipo di inverno le conosco bene per averle praticate in altre delle mie vite. Ne ho sperimentati molti di nord. Erano anni nei quali mi agitavano altre energie, mi ispiravano altre prospettive e mi incalzavano altre necessità. Altro che rinchiudersi al caldo dell’appartamento. Impossibile sospendere la vita con i figli in età scolare e sociale. Pioggia, neve, vento e nebbia che ci fossero, là fuori.
“ Avevo appena cominciato; eppure non sarebbe durata a lungo: sapevo che ad una scadenza prestabilita sarei tornato alla solita vita, più interessante agli occhi degli altri per via del soggiorno all’estero, probabilmente più magro, per il resto immutato. A Madrid non dovevo crearmi una vita oltre la più semplice routine quotidiana; non dovevo preoccuparmi di costruirmi un ambiente, qualunque cosa volesse dire. Avevo a disposizione il giorno infinito, i mesi infiniti, eppure la data di ritorno poneva il limite a questa sensazione di illimitatezza, le impediva di diventare minacciosa.”
Recentemente mi sono imbattuta in questo frammento. E’ tratto da “ Un uomo di passaggio” di Ben Lerner. Rilette, ineccepibile, il mio spirito durante questo che ho definito “l’ esilio ferrarese”. Nella città dei Finzi Contini, oltre alle figlie ormai per loro conto, oltre ai mobili “buoni”, alle suppellettili, ai quadri, ai tappeti e a ogni altra cosa a cui sono sentimentalmente legata, rimasta nella casa che ci aspetta a Napoli, mi pare di non aver neppure traslocato tutta me stessa.
Quando intrapresi, per le esigenze di lavoro di mio marito, l’esistenza raminga di cui quello attuale è l’ultimo atto, redassi una lista di “mai”. Un novero di azioni, di abitudini, di routine a cui giurai non mi sarei piegata, di errori che mi prefissi di evitare, di situazioni in cui mi impegnai a non finire. “Non accetteremo mai un trasferimento in Germania” – puntavo solo sui paesi anglofoni per ovvi problemi linguistici- la prima voce della nota. Occorre proprio che sveli la meta con la quale inaugurammo la stagione delle emigrazioni estere? In Germania abbiamo addirittura, a distanza di quindici anni, bissato l’esperienza -la seconda volta fu come tornare a casa- .
Ridussi naturalmente la nota in mille pezzi e la sostituiti con una massima inespugnabile: “mai dire mai”, a tutt’oggi unico faro nei momenti delle decisioni difficili.
Il rispecchiamento nel brano del romanzo di Lerner ha riportato alla memoria un’altra delle promesse del famoso elenco: “ Non sospenderò mai la mia vita in nessuno dei trienni, in attesa che il periodo di assegnazione finisca”. E rieccolo qua, il “Mai dire mai”. Nell’anno del Signore 2020, mentre fuori imperversano il freddo polare e la pandemia, io sono in attesa, per la prima volta, di premere il tasto play della mia vita.

ganglio 40


 Wikipedia, “l’enciclopedia libera e collaborativa”, compie vent’anni. La notizia, ascoltata alla radio, spacchetta un nuovo capitolo delle mie divagazioni mentali. Vent’anni è un arco temporale lunghissimo. Sufficiente perché non si concepisca neppure una vita anteriore a tale rivoluzione. Che ne sanno i ragazzi di come si stava, come stavamo noi, prima della digitalizzazione, del copia-incolla, prima che tutto lo scibile umano divenisse prêt-à-porter? Posso mai prendere sul personale anche l’ anniversario di questa innovazione cruciale, della quale purtroppo usufruiscono, stando alle statistiche, solo il sei per cento delle donne a causa della striminzita disponibilità di momenti d’ozio, dell’impossibilità di accedervi correlata a condizioni di svantaggio socio economico, al loro impiego in attività che le escludono dal lavoro culturale? Posso mai, partendo da Wikipedia, ammorbarvi con le mie memorie? Volere è potere.

Dunque eccomi qua a rievocare l’era del pionierismo prewikipedico, quando, per svolgere le famigerate ricerche, dopo aver passato in rassegna l’arsenale in possesso di ciascuno dei componenti il gruppo designato dalla professoressa, dopo aver preso atto della ormai manifesta inadeguatezza dei “ quindici” rispetto alle mutate esigenze di complessità richiesta alle medie e dell’altrettanto palese obsolescenza dell’ Enciclopedia Universo De Agostini, completata collezionando pazientemente gli infiniti fascicoli settimanali con un’abnegazione che nemmeno i Santi, per assumere, negli anni settanta il ruolo di regina indiscussa delle male assortite librerie della classe operaia partenopea, si capitolava sulla ineluttabilità della spedizione alla biblioteca di quartiere.
Che ganglio è mai questo, decisamente anemico, piuttosto sbiadito, difettoso nei toni dell’intimità rispetto ai precedenti. Sto prendendo la questione apposta sul generico. Questa volta ho bisogno di un tragitto di avvicinamento più lungo per arrivare al cuore del ricordo che recupero da lontanissimo, al cui centro c’è proprio l’Enciclopedia Universo.
Ed eccomi qua. Ci sono. Non so ancora leggere e in casa non c’è ancora una libreria. L’arredamento delle sale da pranzo nelle case piccolo borghesi/operaie non contempla un mobile apposito per contenere i libri. Quello è per gli studi negli appartamenti dei professori e dei liberi professionisti. Mia madre, che costantemente va recuperando anfratti sgombri, nel tentativo di gestire le esigenze di spazio della famiglia in crescita, ha momentaneamente sistemato -meglio dire stipato- i dodici volumi, contando sul fatto che passeranno parecchi anni prima che noi bambini li adopereremo, nel guardaroba all’ingresso. Approfitto delle porte socchiuse e “rubo” uno dei libroni amaranto. Lo apro a caso, ben nascosta in un angolino. Minacciosi dinosauri dalle più disparate misure digrignano le fauci nella mia direzione. Non so per quanto rimango là, in silenzio, assorta nella contemplazione di quella meraviglia. Sicuramente fino all’arrivo di mamma, che mi strappa il libro con la fretta di ristabilire il suo inderogabile ordine. Da quel giorno faccio la posta all'armadio. Ogni volta che il prezioso tesoro torna accessibile io ne approfitto. Trafugo un volume e cerco spasmodicamente quella stessa pagina. Ignoro l’esistenza dell’ordine alfabetico che regna sui tomi, ignoro che in ciascuno di essi l’opulenza di nozioni costituite da biografie, fatti storici, luoghi, eventi, si moltiplica, si amplifica fino a risuonare di tutto “lo scibile umano” secondo un ordine rigoroso, scientifico. Continuerò ad essere all’oscuro circa l’esistenza di una chiave di accesso all’enciclopedico mondo incantato fino a quando la maestra non spiegherà le regole del vocabolario. Rincaserò, quel giorno, con una missione da compiere: prendere il volume giusto e ritrovare i miei benedetti dinosauri.
Affonderà le sue radici là, la mia passione per le enciclopedie? Tanto forte e radicata dall’aver desistito solo vent’anni fa, alla comparsa di Wikipedia appunto, dal proposito di regalarmi una Treccani? Ammesso che abbia desistito.

ganglio 39

Voi avete Procida nel cuore. Io tatuata nell'anima.
Il mio primario rifugio è dentro me stessa. Là vado ogni volta che annuso ostilità nel mondo. Mi metto in posizione fetale e aspetto che il maestrale passi.
Ho, poi, una seconda tana. Si tratta del primo ombrellone della prima fila dell'ala destra del
lido di Procida, giù alla Chiaiolella. Là vado invece ogni anno per il letargo di Luglio. Niente di
che. Se è lecito considerare poco un ombrellone vecchiotto, affrancato dal comfort garantito
delle spiagge modaiole, rivolto verso lo spuntone di Vivara e la zona “porto” della
dirimpettaia Ischia. Sotto quel cappello bianco e azzurro, inclinato ad arte in attesa del vento
che puntuale si leva a metà di ogni pomeriggio, rigorosamente nell'ordine, un lettino al
sole, una sdraio all'ombra, il libro del momento e la sottoscritta.
Là ho addomesticato i banchi di paura che mi annebbiavano la lucidità, nell'attesa di
trasferirci in Turchia, nel 2005 mentre le quattro carabattole traslocate via da casa , stipate in
un container, già solcavano il Mediterraneo verso la nuova meta. Là ne abbiamo atteso il
ritorno tre anni dopo, alle prese con la solita foschia che mi prendeva piede nella testa volata
già a Pordenone, successiva destinazione. E poi ancora là con questo ritmo di andate e ritorni,
con scadenza più o meno triennale negli anni a venire, fino ad oggi.
Nel letargo di luglio costringo il corpo, con ostinazione, all'ozio. Lascio invece la mente a briglia
sciolta. Lei devota, confidente, si lancia al galoppo. Si sfianca nel tentativo di trattenere le
parole scritte dei libri che le impongo, e incamerare le immagini di quanto più mare
è possibile per quando ce ne sarà mancanza. Tutto con il ritmo di gara alla conquista di
primati.
Il mio vicino é un professore. In pensione. Un artista. Pittore. Arriva, si sistema. Estrae dalla
borsa i fogli per acquerelli, quindi gli acquerelli, infine i pennelli . Concentra per qualche istante
lo sguardo su un punto dell'orizzonte, immerge la punta del pennello nell'ex contenitore di
pillole nobilitato – ormai ferro del mestiere- a recipiente per l'acqua, le fa compiere nel
quadratino di colore designato i giri che reputa utili a raggiungere il tono desiderato e affronta
il foglio, dove la mano mai incerta, ad ogni identica ripetizione della sequenza, genera sulla
carta, in forma compiuta, l'idea. Come se la vista del Professore avesse la
mirabolante capacità di germogliare frutti. Frutti che nascono già maturi.
Spesso Lui si concede una pausa dal dipingere. Io dal leggere e parliamo. Di arte, di libri, di
artisti e scrittori. Le sue parole sono intense lezioni.
Questa è la quotidianità del mio letargo.
M'è venuta, uno di questi giorni, l'idea di imitarlo. Sono scesa anch'io in spiaggia con i ben più
modesti ferri di quello che mi sarebbe piaciuto fosse il mio mestiere: una penna e il
quadernetto degli appunti, nero, rigorosamente di una nota marca “da scrittori”.
Mentre intorno bambini frignavano inseguiti da mamme inquiete come solo alla vista della
sabbia e del mare le mamme sanno essere , adolescenti palleggiavano con ostinazione dribblando pure i nostri piedi e le onde ci sfidavano ad indietreggiare, quando il professore si è
messo all'opera mi sono messa al lavoro anche io.
Ho puntato lo sguardo sull'orizzonte, poi su Vivara. Ancora all'orizzonte, ancora Vivara . Mentre
sul foglio del mio vicino si materializzava la spuma dei cavalloni nella sua composita varietà di
sfumature, la mia pagina rimaneva bianca. Eppure di quei bambini e delle loro mamme, dei
ragazzi e delle onde avevo colto abbastanza. Le prepotenze, i capricci, i litigi li avevo visti. Le
voci, i visi, le mosse di bimbetti di tre o quattro anni biondi, brunetti, cosparsi di crema e
comunque abbronzati, li avevo visti. Un fronte a tratti compatto a tratti in guerra, come nei
giochi di tutti bambini . Anche il fronte delle mamme avevo ascoltato. Parole pettegole,
appuntite, risatine compiacenti o sardoniche, rimproveri e lodi, le avevo ascoltate. Annotato ogni cosa, come si fa
quando bisogna tradurre tutto in parole.
Che il professore ed io guardassimo due paesaggi diversi? Che l' orizzonte a cui dovevo lavorare
io fosse un altro e per questo sul foglio le mie parole non attecchivano?
Si, decisamente. Mi ero persa altrove, in un altro orizzonte, io. Il mio sguardo era fermo su
un'altra Vivara.
A ore dodici, a riva due testoline emergono e si immergono dalle onde. Una liscia, l'altra riccia.
Ubbidienti non si allontanano pur sperimentando il mare. Chiudo gli occhi e quando li riapro le
vedo allontanarsi, senzs più nemmeno il bracciolo. Chiudo gli occhi e quando li riapro le due
sagome sono sempre lì, a ore dodici ma più a largo, giocano a pallone in una cerchia di
coetanei. Chiudo gli occhi ancora e ancora le rivedo, una liscia e una riccia, in quello stesso
specchio di mare, che nuotano e si allontanano come nuotano e si allontanano gli adulti. Gli
anni passano ad ogni battito di palpebre e io continuo a osservare la mia pesca miracolosa dal
solito rifugio. Chiudo gli occhi. Li riapro e la mia pesca miracolosa è altrove, lontana che si
cimenta con il mare della vita. E io posso, voglio, devo immaginarla nuotare a largo.
Chissà se quando si sveglia dal letargo l'animale ha percezione del tempo trascorso.
Si dice che il tempo passi in fretta quando ci si diverte.
Nel mio letargo sembra che le cose vadano in entrambi i modi. Che io non conservi l'idea del
tempo che là mi è sfuggito e che questo tempo -della cura dell'anima- sia realmente fuggito più
in fretta. Procida -lo dice ogni volta mia figlia quando dal vaporetto del ritorno “Terra Murata”
piano sparisce dalla vista- è il posto in cui all'arrivo sembra che non lo si sia mai lasciato e alla
partenza sembra che non ci sia mai stato approdo.
Sotto quel cappello bianco e azzurro, inclinato ad arte in attesa del vento che puntuale si leva a metà di ogni pomeriggio, rigorosamente nell'ordine, un lettino al sole, una sdraio
all'ombra, il libro del momento e la sottoscritta.
Dieci anni e più. E chissà che prima o poi su questo foglio prenda forma la mia tana. 
 

ganglio 38


 Da dove comincio? Dal trampolino, vertiginosa altezza dalla quale osservo il mare in cui sto per tuffarmi? Dall’istante in cui metabolizzo essere giunto, capitalizzato tutto il coraggio, l’improrogabile momento di buttarmi? Dagli attimi della caduta, durante i quali, come prescritto dal più canonico dei copioni, riavvolgo il nastro della mia intera vita e dico addio a ciò che è stato fino ad ora?

Comincio dalla cosa che, di quella vigilia, assolutamente non rifarei mai più: subire, senza opposizione alcuna, l’imposizione notturna dei bigodini inflittami dal parrucchiere. Soffro di una grave forma di letargia -con molta probabilità l’ho già scritto anche altrove- che si manifesta puntuale nei momenti di difficoltà. In faccia ai pericoli, alle preoccupazioni, ai problemi più seri io chiudo gli occhi e ... mi arrendo al richiamo di Morfeo. Sebbene involontariamente, dunque, io pratico, volendo dirla in forma poetica, il sonno come suprema arte della difesa. Ragione per cui ho l’assoluta certezza che, se non avessi avuto in testa quei cilindri giganteschi, in barba a tutti i miti e le prescrizioni previste dal manuale della sposa perfetta, avrei dormito otto ore filate e mi sarei svegliata, contrariamente a quanto mi accade di solito -non ho mai avuto necessità della sveglia, funzionando la mia biologica come una di quelle proverbialmente fabbricate in Svizzera- di controvoglia.
Questo l’unico neo che ancora, dopo ventinove anni, mi infastidisce. Plausibile. Su quel trampolino c’era la me ventiquattrenne e tutto ciò che si pianifica e si realizza a quell’età sfrutta la forza propulsiva della testardaggine, della fame di vita, della visionarietà. “Eravamo giovani, eravamo avventati, arroganti, stupidi, testardi. E avevamo ragione! Non rimpiango niente” ( Abbie Hoffman).
Come aggravante c’era e c’è ancora l’amore. Nessuna incertezza sul desiderio di saltare. Nessuna paura dell’altezza dalla quale mi lanciavo: i duecentocinquanta chilometri del trasferimento dall’ amatissima Napoli alla minuscola cittadina della provincia barese nella quale seguivo il mio futuro sposo. Avevo messo in conto e in qualche modo già elaborato il dispiacere per le tante separazioni. Lasciavo mia madre, la famiglia, gli amici. Le parole per descrivere ciò che già sapevo allora circa il sentimento del distacco me le ha regalate recentemente Niccolò Fabi: “La lontananza non è mai distanza”.
Undici gennaio. Una data insolita. Il matrimonio invernale solletica sospetti di gravidanze capitate per disattenzione. Oggi non fanno più scandalo, ma nel 1992 ancora fornivano residui spunti alle malelingue, per questo mia madre puntualizzava con fermezza ad ogni invito “ che mi sposavo d’inverno, si, ma non ero incinta!”. La scelta per noi, che avevamo altre frette, dettate dal desiderio di porre fine all'ormai insopportabile pendolarismo e allo speco di tempo da passare insieme constatata la fugacità del fato -era appena finita la “prima guerra del golfo” che ci aveva schivato per un soffio-, noi che ubbidivamo ad altre urgenze, suggerite dall’obiettivo di sottrarci a liste di attese per la chiesa, la sala ricevimenti, il fotografo e il fiorista lunghe anche anni, nonché dalla necessità di risparmiare il più possibile- mica da poco le prospettive aperte da un viaggio di nozze in bassa stagione- l’undici gennaio parve perfetto. Eccezionale perfino la coincidenza con il cinquantesimo anniversario dei miei nonni, una delle coppie più innamorate e inossidabili di sempre: sicuramente un irrinunciabile ottimo auspicio.
Quasi ad accondiscendere e premiare il mio spezzo del pericolo rappresentato dall’incognita del clima, si “schiarò” al mio fianco anche il bel tempo. Un sole primaverile, infatti, si impose stentoreo sulle nubi che alle prime luci dell’alba avevano minacciato i Camaldoli, oscurandoli con ombre preoccupanti. Ero stata risparmiata. Salva dalla mia scriteriata scelta di non indossare nessun coprispalla sopra l’abito di pizzo pensato da mia madre, di concerto con la nonna e zia e realizzato da una coppia di sarti dalle mani d’oro e dal talento incommensurabile.
Fui pronta in un baleno. Intransigente con il fotografo sui tempi, gli imposi una maratona pur di arrivare puntuale all’altare. Conoscendo il mio proposito e il mio temperamento, mio marito mandò un messaggero a fermarmi. Mi bloccò sulla soglia, implorandomi dal citofono di temporeggiare, visto che la chiesa, in prossimità dell’ora stabilita era semivuota, contando evidentemente gli invitati sul proverbiale ritardo della sposa.
Mi presentai così all’altare. Con i miei pochi anni, ma tutto sommato rivelatisi sufficienti alla prova del tempo. Con la trepidazione delle aspettative. Con le ansie chiuse nel cuore.
Il più bel giorno della vita di mia madre, alla quale, decidendo di deporre il mio caratteraccio, la mia propensione adolescenziale alla “bastiancontrarietà” - probabilmente sorprendendola assai per tanta insperata docilità- avevo affidato, non delegato, scelte importanti, compresa quella relativa al modello del vestito. Ancora oggi mamma è la prima a farmi gli auguri per l’anniversario, persa nella rievocazione del suo sogno principesco.
Come va la partenza non è importante. Mi interessava solo iniziarlo il viaggio. Siamo alla ventinovesima tappa. Il piglio e la disposizione d’animo sempre le stesse: calma e gesso e un giorno dopo l’altro, a comme vene! 

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...