giovedì 13 maggio 2021

ganglio 42

Questo è un ganglio davvero speciale. Scava in un capitolo del passato sul quale mamma aveva imposto a noi bambini un rigoroso silenzio. Dunque ha attecchito nell’inconscio come un tabù e del tabù ha la saldezza. Infatti sono qui ad intalliarmela in superflui giri di parole perché l’esternazione mi riesce molto disagevole. Temo -ancora- le bacchettate di mia madre. Temo il materializzarsi del suo perentorio urlo di rimprovero, esattamente come capitava tutte le volte in cui, nell’ingenuità infantile, stimata la dose di familiarità instaurata con l’interlocutore sufficiente per rilassarmi, uscivo allo scoperto, oppure essendomi figurata, dedotta da qualche indizio, la possibilità che egli condividesse la nostra medesima situazione, lasciavo trapelare il nostro segreto. Apriti cielo. La reprimenda non si faceva attendere ed era durissima. Nemmeno se avessi rivelato l’ammontare del nostro conto in banca o dello stipendio di papà, altre informazioni blindatissime.
I tempi sono cambiati. Quelle che una volta erano onte, le quali si posavano come cappe moleste sulla buona reputazione di una famiglia oscurandola, per fortuna oggi sono state ampiamente riabilitate. Ecco perché posso concedermi la confessione. Mio padre era comunista. Lo è, in realtà, con immutato fervore, tutt’ora. Ho coniugato al passato per esigenze di narrazione. Ho scelto l’imperfetto per cristallizzare il mio racconto -per contestualizzarlo, direbbero coloro che meglio padroneggiano la lingua-, in un arco storico preciso che renda meglio l’idea di cosa parli. Affinché abbia senso la mia accennata titubanza, sono, infatti, obbligata ad incunearlo per bene negli anni settanta-inizio ottanta, quando essere comunisti in certi contesti, soprattutto popolari, significava portare sulle spalle uno grosso stigma. Non so come fosse proclamarsi comunisti nei quartieri borghesi, tra la gente colta, tra gli intellettuali. Io ho sperimentato la condizione di “mosca rossa” -solo in tempi recenti ho appreso la denigratoria definizione di “zecca comunista”che si commenta da sé - in un quartiere di periferia, contadino e artigiano prima, operaio solo poi e grazie all’Italsider. L’ho sperimentata tra gente perennemente impaurita per la propria sorte e perciò condannata dalla propria miseria -non sto esprimendo giudizi morali ma solo valutazioni personali- al pagnottismo. Gente votata ad un camaleontismo che prevedeva solo due sfumature di colore, il bianco democristiano e il nero fascista: le tinte delle bandiere da sventolare se si chiedevano e si volevano ottenere favori in giro. Gente che ignorava l’esistenza delle idee progressiste, di appartenere al proletariato, di dover sviluppare una coscienza di classe e di poter avanzare, come corpo unico, legittime richieste. Ora come allora, chi campa alla giornata soggiace più che altro all’imperativo di badare solo ai casi propri. L’unione, lungi dal fare la forza, nell’immaginario comune compromette le possibilità e la competitività individuali. Al cospetto del datore di lavoro è preferibile presentarsi singolarmente e profondersi in mille salamelecchi, ringraziando per ciò che si è stati convinti di ricevere grazie all’encomiabile spirito di carità del padrone e non per spettanza del diritto.
Il comunista invece scioperava. Il comunista era contro il clientelismo. Il comunista pensava che si fosse tutti uguali e non dovessero esistere privilegi per i privilegiati. Il comunista disertava la messa. Il comunista voleva la riforma del diritto di famiglia. Il comunista votava per il divorzio e per l’aborto. Il comunista guardava con diffidenza all’America e intonava “ El Pueblo Unido Jamás Será Vencido” alle feste dell’Unità.
Avere un figlio convertito a quella fede era una iattura. Eppure c’era una iattura peggiore dell’avere un figlio – l’amore genitoriale sopporta sempre e sempre abbozza per amore- comunista: avere un genero di quella razza. Mio padre possedeva tutte le credenziali del buon pretendente: di buona famiglia, diplomato, impiegato. Un unico difetto deturpava il quadro. Un’ unica, piccola macchia rossa che il giovanotto invece di minimizzare, di nascondere, portava appuntata al petto a mo’ di medaglia. Un neo che enfatizzava, non perdendo occasione d’ intavolare, a destra e a manca, -direi soprattutto a manca- discussioni che subito divampavano in liti appassionate. Una situazione incendiaria nelle riunioni di famiglia, dove papà, in trincea, accerchiato da uno stuolo di parenti missini o democristiani, finiva per alzare la voce ormai paonazzo e con le vene al collo in evidenza. Una situazione ancor più delicata se le tribune politiche si disputavano nella sartoria di nonno, quando era concreta la preoccupazione di perdere i clienti per incompatibilità politica. Fu la nonna per prima a “fare la scuola” a mio fratello e a me di non parlare agli estranei del comunismo di papà. Mia madre, convertitasi anch’essa, non soppesò le conseguenze per noi bambini della nomea fino a quando non facemmo l’ingresso alle elementari. Sul quel limine -che la proiettava, ci proiettava fuori dalla bolla rossa delle loro amicizie- evidentemente si fece qualche domanda – se le maestre o i genitori degli altri alunni fossero fascisti?- e si diede qualche risposta. Per il timore che fossimo discriminati dalle insegnanti o ostracizzati dalla cerchia sociale ci indottrinò anche lei al silenzio.
C’è una ragione contingente che mi ha ispirato, proprio adesso, questo ganglio politico. Oggi, 21 gennaio 2021, ricorre il centenario del PCI. La “falce e martello” è stata, come si deduce dal mio racconto, molto di più del simbolo di una fede, di un orientamento politico. E’ stata un’immagine famigliare e ancora oggi per me identifica mio padre e la famiglia. Sono stata allevata alla luce di due codici etici: quello cattolico e quello comunista. Entrambi molto simili nella concezione della condotta individuale rispetto agli obblighi di solidarietà verso il prossimo. E’ un tratto, di cui vado molto fiera. Mi concedo finalmente la libertà in questa ricorrenza, riscattando gli anni omertosi, di proclamare apertamente l' orgoglio d’essere figlia di comunisti.
 

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