mercoledì 12 maggio 2021
ganglio 16
Sedici nella smorfia napoletana corrisponde notoriamente al culo. Tale parte anatomica, altrettanto risaputo, per traslato indica un colpo di fortuna. E io ho avuto effettivamente culo ad imbattermi precocemente nel primo e imperituro amore, quello per i versi, accanto ai quali ritorno a "sedere" ( gioco ancora con la parola) ogni volta che cerco ristoro al mal di vivere.La mia passione comincia dal "pianto antico" che mio padre mi insegnò quando andavo ancora all'asilo. Lo declamavo non capendolo fino infondo ma vivendolo fino infondo, sentendo la desolazione, la mite tristezza del poeta, destinata a tenergli compagnia per sempre.
Pianto antico
L'albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
Da' bei vermigli fiori
Nel muto orto solingo
Rinverdì tutto or ora,
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l'inutil vita
Estremo unico fior,
Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Né il sol piú ti rallegra
Né ti risveglia amor.
Giosuè Carducci
Eccola, ecco il germe che mi ha instillato la malattia, cronicizzatasi sui banchi di scuola. Là, dopo le filastrocche natalizie e pasquali che il calendario liturgico imponeva di insegnare alle maestre, finalmente l'amatissima Signora Gaeta alle elementari cominciò a fare sul serio, e ci assegnò, da mandare a memoria, una delle più belle poesie di Leopardi.
Quanta fatica sopra le amate carte, e quanta parte di me spesi to learn by heart (imparare con il cuore, si, così si dice in inglese: un'espressione che giustamente tira in ballo non il cervello bensì l'unico organo che sovrintende realmente alle cose riguardanti l'anima, dacché immagazzinare e custodire dentro di sé qualsiasi nozione è cosa che arricchisce lo spirito) i versi de " il sabato del villaggio" che, allora, la mia scrittura di quarta elementari tracimò in una decina di pagine.
Il mio amore per la poesia passa anche di qua. In questa stazione l'incontro con Leopardi, che durante tante notti dell'adolescenza in cui ragionavo su ciò che accadeva, mi ha aiutato a tradurre in parole l'ostilità del mondo, l'amore non corrisposto, i sogni legati a quel vago avvenir che in mente avevo.
XXV - IL SABATO DEL VILLAGGIO
La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
Giù da' colli e da' tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l'altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s'affretta, e s'adopra
Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l'ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
E' come un giorno d'allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
Nel terzo giorno Dio creò la terra e il mare, estensioni da percorrere, da cui allontanarsi per poi ritornare, pezzi che ci appartengono e che ci portiamo attaccati addosso.
Nel terzo punto del ganglio di oggi, del percorso nella memoria attraverso la poesia c'è questo:
«Cantami, o Diva, del pelide Achille
l'ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose travolse alme d'eroi,
e di cani e d'augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l'alto consiglio s'adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de' prodi Atride e il divo Achille.»
È il proemio dell'Iliade nella traduzione di Vincenzo Monti. Si tratta della mia terra e del mio mare o meglio, si tratta del cancello di accesso ai pezzi di terra e di mare sul pianeta poesia che considero il mio approdo naturale. Da qui sono partita , con il fagotto di Carducci e Leopardi in spalla, per quel viaggio esplorativo verso quei nuovi orizzonti che considero le lezioni di epica delle scuole medie e ad essi torno, perennemente torno.
L 'epica, terra percorsa da leggendari eroi ed eroine, che ho amato di un amore più forte dell'odio per quel librone rosso di 900 pagine, testo scolastico valevole per i tre anni, che dovevo per forza infilare io nello zaino se volevo seguire in classe, dato che la compagna di banco che mi era stata assegnata -a cui pure ho imparato a volere bene nonostante la strafottenza e la sregolatezza- mancava puntualmente di portare quando era il suo turno.
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