giovedì 13 maggio 2021

ganglio 44


 Ogni volta che compro un pacco di farina sorrido pensando a mia nonna. Era una donna semplice come il nome che portava: Anna.

Cresciuta durante i duri anni della seconda guerra, quando la vita offriva alle persone pochissime alternative e divenuta madre nel dopoguerra, tempo in cui valevano unicamente le necessità, lei tradusse entrambi, i bisogni e la mancanza di scelte , in certezze; non saprei dire se per un eccesso di ingenuità o di scaltrezza.

La nonna non conosceva sicuramente Amleto e se gliene avessero parlato avrebbe sorriso dell’interrogativo che egli si poneva, non comprendendone soprattutto la ragione. Piuttosto avrebbe risposto, con risolutezza, che tra essere o non essere si era obbligati unicamente e con tutta evidenza ad essere! Non ha mai avuto dubbi sulla condotta da tenere in ogni contingenza e questo valeva per i sentimenti da provare come per le azioni da compiere. Ad esempio, se il tempo era incerto, mia nonna assolutamente non lo era sulla necessità di uscire con l’ombrello. Di fronte ad un dolore bisognava piangere, così come in caso felicità si doveva gioire, senza sfumature o zone grigie.

Ho sempre immaginato che custodisse, nel grosso secretaire dove stipava le cose importanti, compresi gli abiti con i quali un giorno voleva essere sepolta, un libro ereditato dalle sue antenate, costituito da un lungo elenco dei dispiaceri e delle gioie. Mi pareva, infatti, che i moti dell’anima, in lei non fossero generati spontaneamente da un sentimento personale, quanto piuttosto dalle indicazioni contenute in questa sorta di fantomatica enciclopedia.
Nei momenti di grande pericolo per l’umanità o semplicemente per la nostra nazione, spento il televisore e dopo un breve consulto con la sua vicina e amica fedele, nonna correva a far scorta di generi di prima necessità. Se tornando da scuola trovavo la famiglia intenta alle grandi manovre, senza dubbio, mi preoccupavo e l’intensità della mia ansia dipendeva dalla serietà dei preparativi.
La guerra fredda imponeva che in casa vi fosse sempre una scorta fissa di pochi chili di farina, ma ogni volta che lo scoppio del conflitto atomico si profilava imminente a causa dell’aprirsi di una nuova crisi internazionale, seppur a migliaia di chilometri lontano da noi, i pochi chili divenivano decine. Non importava né cosa raccontassero i telegiornali o quali fossero gli umori che captavo origliando i discorsi dei grandi, né le parole che i miei genitori usavano per tranquillizzarmi. Mi fidavo solo di nonna. Temendo il peggio, ho perso il sonno unicamente durante la lunga fase della rivoluzione di Khomeini in Iran, culminata con l’episodio dell’assalto all'Ambasciata americana di Teheran nel novembre 1979. Ricordo che in sala da pranzo, accostata alla parete, in corrispondenza del tavolo posto al centro della stanza, c’era una credenza - il buffet, come lo chiamava lei-. Un giorno, nel periodo in cui alla televisione imperava il volto dell’Ayatollah, rincasando mi colpì che il mobile non si trovasse al solito posto, bensì chiudesse un angolo della stanza a mò d’ipotenusa, creando nel retro un capiente spazio vuoto. Corsi a sbirciare in quello stanzino realizzato in maniera rudimentale e vidi una cosa mai vista in precedenza: un saccone enorme contenente un quintale di farina. Oltre quella volta, negli anni accaddero altri fatti allarmanti: il rapimento dell’on. Moro, il terremoto del novembre 1980 e l’attacco missilistico libico contro Lampedusa , ma furono tutti episodi “da pochi pacchetti” e mai più rividi il “quintale”.
Ci sono parole, simboli e gesti che non travalicano i confini del proprio tempo, così é stato per l’inconfondibile comportamento di nonna, trascinato via dalla modernità. Ogni lingua si evolve costantemente, sacrificando alcune parole per crearne di altre, mi chiedo spesso quale sia il nuovo, muto vocabolo del mio lessico famigliare attraverso il quale, ora le mie figlie colgono i pericoli dei tempi. In attesa della risposta, mi rifugio nel ricordo di quei lontani giorni, che custodisco tra le immagini più preziose della mia fanciullezza, in cui la dispensa era un’oasi, e quell’oro bianco che la riempiva l’unico antidoto contro la mia ansia di vivere.
La nonna mi manca. Ho nostalgia del sorriso aperto e schietto che le adornava il viso, della luce dei suoi occhi, che mi guardavano con avidità perché ero la sua prima nipote e perché l’avevo resa bisnonna. Mi manca, soprattutto, la sua risolutezza di fronte alla vita e alla storia.
Spero che da questo primissimo e visibilmente goffo tentativo di scrittura, premesso al ganglio quarantaquattro, riesca a venir fuori l’essenza di mia nonna. La personalità della nonna era molto più composita, è chiaro, certamente non circoscritta all’aspetto che ho provato lì a riassumere.
Michela Murgia ha dedicato un romanzo all’Accabadora, l’ancestrale figura della cultura sarda che praticava, per una forma estrema di carità cristiana verso gli agonizzanti, una eutanasia ante litteram. Mia nonna sicuramente non è stata un’Accabadora, eppure non si è mai sottratta al contatto con la morte. Considerava un obbligo accompagnare verso l’aldilà i suoi cari e spesso si prestava anche per i moribondi altrui, quando “gli altrui” non ne avevano il coraggio. Conosceva a memoria tutte le fasi precedenti il trapasso, ne coglieva e decodificava le spie, custodiva i riti del caso e quando si adoperava intorno ai capezzali, metteva in pratica il suo sapere con la perizia da prima della classe. Quante volte ho origliato i suoi racconti. Gli appelli rivolti alle madri trapassate da decenni ma che per prime, puntualissime, si presentavano a popolare le farneticazioni di chi era sul punto di spegnersi. Le invocazioni ai parenti già sull’altra sponda, il rantolo che preludeva all’esalazione dell’ultimo respiro. “Sta tirando” -diceva lei- e io non capivo se il moribondo tirasse il filo della vita o della morte, riferendomi alle Moire. Nel mentre c’era il cerimoniale di fargli poggiare i piedi in terra, anche solo un accenno simbolico, perché potesse staccarsi dalla materia, e l’esortazione a liberarsi. Seguivano il rito della vestizione della salma, la veglia e le visite “di cortesia”.
Al suo capezzale, tuttavia, le cose andarono diversamente. Andata è andata, ma del come a me è rimasto questo ganglio, nel quale ambirei a sciogliere il nodo del turbamento per antonomasia, quello della prima interazione ravvicinata con la morte o meglio ancora con l’attesa di lei.
La nonna fu, innanzitutto, una delle prime -nella sua cerchia sociale- a grattarsi via di dosso la scorza di madre/padrona inselvatichita dalle precoci fatiche della vita, insensibile a null’altro che non fossero i bisogni materiali. Fu una delle prime a concepirsi, all’opposto, come uno scudo frapposto tra la brutalità dell’esistenza e i suoi figli. Ogni fatica fisica, lavoro domestico gravoso -sciorinare i panni, alzare pesi- se lo caricava lei sulle spalle. Ogni peso, trauma o angoscia che potesse affaticare lo spirito dei suoi ragazzi, lo parava lei. Sbrigativa, franca di cerimonie, maldestra, come nella migliore tradizione delle popolane, purché i figli non patissero, nel fuoco si buttava avanti lei. Fu, cioè, alla sua maniera intuitiva e sgrammaticata, un primissimo prototipo di madre moderna iperprotettiva e ne pagò, in un certo qual modo, lo scotto nell’ora estrema, accudita da quattro figli devoti, pronti a far ogni cosa pur di tenerla in vita, ma impreparati all’inevitabile epilogo. Amorevoli, solerti, intontiti dal dolore e totalmente sprovvisti dello spirito fattivo della Marta biblica, presidiarono a turno la stanza per settimane affinché non fosse mai sola, ma rifiutarono, fino a fatto compiuto, a causa di un totale ottundimento della razionalità e dei sentimenti, di assecondare i segnali che la natura inviava loro. Arroccati nella loro personale interpretazione dell’abnegazione filiare, intesa come imperativo a tentare l’intentabile, non ebbero la compassione di invocare per lei “lo Spirito Santo, affinchè “spensasse ‘e grazie soie”, come lei, invece, aveva avuto la prontezza di fare mille volte per gli altri.
Ricorderò l’agonia della nonna come l’impresa più ardua che fin qui mi è capitato di veder compiere ad un essere umano. Per lo sforzo impostole. Per la fatica fisica reclamatale da tutti i singoli, flebili riciati in cui si impegnò con estenuante zelo. Una guerriera che si sfiniva ad ogni respiro – sembra un paradosso- per continuare a vivere. Anziana, terminale di una neoplasia che aveva indossato con la stessa dignità ed eleganza con cui vestì per l’intera vita le sue gonne di vigogna marrone e i tween set amaranto, giacque per giorni e giorni e giorni con il volto e il sorriso – del quale andava fiera come della più preziosa collana di brillanti- annientati dall’incombenza di gestire il suo residuo spirito vitale.
Ho molti debiti con lei. Non solo per l’anellino a serpentello regalatomi al mio quinto onomastico o per “Cicciobello” arrivato qualche anno dopo nella stessa circostanza. Le ho sgraffignato, a sua insaputa, molti insegnamenti di vita. L’attitudine ad essere ottimisticamente caparbia nei momenti difficili, che sopravvive indomita all’usura delle intemperie esistenziali, credo sia il maggiore e più persistente dei precetti di cui le sono grata.
Diceva sempre che “per viennere ‘e nepute, quello che fai è tutto perduto”. Per dimostrarle forse la mia gratitudine e smentirle quell’orribile detto, che evidentemente lei usava solo per pungolare ma che a me bruciava, ho spodestato allora i suoi figli e mi sono fatta carico di sollecitarla ad andare oltre i confini. Traumatizzante il trapasso-lo confesso- quando è la prima volta che lo vedi così da vicino, quando sei tu a doverne gestire gli esiti fisiologici, quando non sarebbe toccato a te farlo. Eppure, nonna fu come sempre collaborativa nel farsi vestire con gli abiti che aveva preparato già decenni prima, custoditi sul fondo del cassetto. Non tralasciai, nonostante la difficoltà, neppure le calze bianche che tanto ci aveva raccomandato, ogni volta che era venuto fuori il discorso, di metterle. Le rimase un’unica ostinazione: tenere gli occhi spalancati sul mondo, sui suoi amatissimi figli nell’atto di vegliare per sempre su di loro. Nonna aveva un sorriso, ci ritorno ancora una volta, bellissimo. La malattia, alleatasi con l’agonia e con la morte riuscirono a portarglielo via. Se n’è andata, insomma, con una faccia che non era la sua. Nel suo caso vale l’esatto opposto della frase di rito: -“sembra che dorma!”
Temevo, di più, ero terrorizzata di dovermela ricordare nell’ultimo, estraneo ghigno per sempre. E invece lei, ubbidiente, ha provveduto, come le chiesi di fare nei minuti di conversazione che ci concedemmo -le parlavo incessantemente per farmi coraggio- mentre la ricomponevo. Posso concentrarmi -l’ho fatto per metterla alla prova-tentando di rivederla com'era in quel momento, ogni volta che voglio. Ricordo tutti i minimi dettagli eccetto l'estrema maschera di dolore, che, evidentemente, si è portata via lasciando il consueto sorriso.
Ho riletto il ganglio e in appendice annoto la mia delusione. Di tutti, è quello finito più lontano dall’obiettivo prefissatomi. La mia voce narrante, che volevo fosse più dolente, più amara, ha fallito la nuance di drammaticità che rincorrevo. Mi arrendo. Non lo ritocco e lo pubblico così, com’è nato. Del percorso di liberazione da certe zavorre, il cui peso maggiore è la tragicità, magari il primo passo è proprio edulcorarne i tratti angosciosi. O magari – e questa ipotesi mi affascina di più- è stata la nonna ad ispirarmi lo smorzamento dei toni. Come per un monito che mi indirizza anche fuori tempo massimo a trattenere di ciascuno solo il bello e custodirlo in un incarto di serenità.

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