mercoledì 12 maggio 2021

ganglio 14

Nel quattordicesimo ganglio racconto di come ho preso coscienza di essere donna. Non c'è stata una prima volta perché nella parte di mondo dove sono nata non c’è spazio per gli inizi. Non c’è un istante in cui prendi consapevolezza di qualcosa. Nasci che già sai tutto. Hai l’esatta percezione del posto che occupi nella scala familiare e in quella sociale, hai percezione della tua fisicità, di essere bella o brutta, grassa o magra. Soprattutto sai a quale sesso appartieni. Lo sai dai colori dei vestiti che ti mettono addosso o dal divieto dei pantaloni. Lo sai dai giocattoli che ti regalano. Dai discorsi che su di te fanno i grandi. Dal tipo di istruzione a cui sei destinata. E però essere femmina a casa mia, anche se indossavo solo gonne, ha significato da subito durezza, forza, carattere. Ha significato solitudine, determinazione, coraggio. Le “cose da donne” sono state quelle da cui si escludevano gli uomini per loro manifesta incapacità. Si, perché l’uomo nel matriarcato dei cortili napoletani era l’elemento più fragile, quello che recava il dubbio, che non si risolveva davanti alle necessità, il perditempo.
Io ho saputo subito su quale piatto della bilancia stavo. Ogni volta che avrei voluto abbandonarmi alle prerogative che apprendevo dai libri o dalla televisione essere proprie del mio sesso -dolcezza, debolezza, remissività- mi arrivava l’esortazione “fai la femmina”, a spazzare via ogni dubbio.
Così sono venuta su con l’idea che essere femmina più che il genere biologico di appartenenza fosse forma suprema di eroismo, fosse irrinunciabile primato, fosse immenso privilegio.
Le lotte che mi sono spettate le ho prese come il prezzo da pagare per tale onore.
Importante è non farsi ingabbiare da nessuno, men che mai mettercisi da sole, dietro le sbarre di un genere inferiore. 
 

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