mercoledì 12 maggio 2021

Ganglio 1


 Sei anni. Più o meno. Doveva essere l'estate del passaggio dall'asilo alla prima elementare. Quindi avevo sei anni. Salendo sul pullmann per andare al Vomero con mamma, quel pomeriggio, mi ero guardata intorno temendo di incontrarci la mia vecchia maestra della materna. Sapevo, infatti, che nonostante l'addio con il quale si era celebrato l'ultimo giorno di scuola, in virtù del quale ero ufficialmente sua ex alunna, avrei comunque dovuto salutarla qualora l'avessi incontrata e pure baciarla, come da rito consolidato da mia madre. Io odiavo baciare quella vecchia, per via della sua vecchiaia e per quei peluzzi bianchi ispidi che le puntellavano le carni avvizzite del mento. Sospirai di sollievo verificandone l'assenza. Sospirai una seconda volta notando il due posti vuoti verso i quali mia madre mi dirigeva perché ci sedessimo. Sarebbe stato un lungo pomeriggio di vetrine, dal quale sarei tornata talmente stanca che salire le scale del portone di casa avrebbe dato sollievo allo sfinimento delle gambe, quasi già come fosse un riposo. Guardai le persone sedute di fronte e poi per un caso gli occhi caddero sulla parte interna delle mia braccia. Quella parte in cui, non lo capirò mai, esse sono eternamente glabre e bianche, tanto che all'epoca mi sembravano parte del mio corpo per un caso, non aver nessun nesso con tutto il resto. Trasalii. Al posto del pallore che mi aspettavo ci trovai una grossa macchia scura, un alone di quelli lasciati dal fango essiccato che si polverizza via. Ne fui mortificata. Temetti che i dirimpettai lo notassero e mi giudicassero. Ci giudicassero. Mi arrabbiai con mamma, dentro di me, fortissimamente. Si era distratta e mi aveva lasciata uscire come una bambina niente affatto per bene. Non importa, ora, la ragione della dimenticanza di mia madre.

Mi importa "il ganglio".
Chiamo così i ricordi nodosi che fungono da raccordo nella costruzione del passato a cui lavoro inconsciamente o consciamente, da sempre.
Questo è il secondo ganglio su cui si fonda la mia abbazia della memoria. Il primo è un ganglio felice, al quale torno quando ho bisogno di gioia e serenità.
Dal secondo ci ripasso quando invece ho bisogno di un paragone per catalogare il livello di straniamento, di incredulità, di rabbia di una certa situazione in cui sto passando.
Mi sono appena scoperta un nuovo ganglio che può pareggiare il "secondo". Lo chiamerò "il ganglio pandemico".
Sono alla finestra a scuotere le lenzuola. Rifaccio il letto. È il terzo giorno di lockdown. Porto un po' di conti. Da quanti giorni mio marito ed io siamo isolati ( abbiamo cominciato prima della decretazione dell'obbligo), da quanti giorni lo è la mia figlia maggiore rimasta da sola a Napoli, da quanti la minore, ad Edimburgo. Penso ai miei genitori. A mio fratello e mia nipote, a mia cognata. Vorrei possedere una magia per assicurare a tutti la sopravvivenza. E poi sento come una cappa che mi scende dalla testa ai piedi, ottundendomi. -"sta succedendo davvero tutto questo?". Davvero non posso uscire di casa? Davvero questo silenzio, la città ferma, morta, sono reali?"-.
Un ganglio che faticherò parecchio a dissimulare sotto pelle. Per adesso ci passo sopra la mano di continuo, come a verificare il modo in cui si sta assestando, e che veramente sta là. Di sicuro è il ganglio della nuova partenza

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