domenica 31 gennaio 2016

E non ho retto!


Se fossimo su Fb il seguente sarebbe “nu’ stat’ e’ merda”. Sono nuova nell’ambiente dei blog, e ancora poco padrona del mezzo nonché del linguaggio ad esso relativo. Credo tuttavia con buona approssimazione che in questa sede si possa definire “nu’ post’ e’ merda”. Nulla cambia –come è evidente- nella sostanza. 
E' un discorso scivoloso. Per quanto  ci si impegni a scansarlo, sovente accade a tutti gli esseri metropolitani di rimanervi nostro malgrado invischiati dentro, da qui l'esigenza di farne cenno.
Avrete a questo punto forse capito di cosa intenda parlare. Bravi!  Miro a una predica contro le deiezioni canine cittadine.
L’argomento sdruccioloso assai mi renderà inevitabilmente impopolare tra coloro che amano gli animali e posseggono in particolare un cane. Superfluo aggiungere che non intendo demonizzare gli amici a quattro zampe, incolpevoli di agire secondo natura, bensì stigmatizzare il comportamento di certi padroni. In particolare, poi, mi rivolgo ai cinofili che popolano i quartieri bene della città. 
Ho amici cari  che quotidianamente si lambiccano il cervello sulle sorti di Partenope, auspicando un coinvolgimento attivo nell’azione di  rilancio  della “borghesia napoletana”. Non me ne vogliano, questi amici, se tolgo loro una speranza, dacché l’unica attività che sembra assorbire la gran parte della citata compagine sociale è portare il cane a defecare. Nulla ci sarebbe loro da obiettare se si portassero a casa il "prodotto interno lordo" ( cit.) del loro fedele animale. Così non è. Dalla collina di Posillipo, compreso via Petrarca e via Orazio a scendere per Mergellina, passando per il Corso Vittorio Emanuele e via Crispi, fino ad arrivare a piazza Amedeo si contano più cacche in terra che stelle nel firmamento. 
Quanto a responsabilità, conformemente al costume italico, anche in questo caso lo scaricabarile è una costante. Nessuno se ne assume la colpa, tutti negano, eppure   le tracce biologiche canine restano sull’asfalto ad imbrattare. Che altra gente, cane al guinzaglio, si prenda la briga e il gusto di venire dalle zone periferiche a sporcare le vie suddette, magari per una sorta di lotta di classe, non mi pare il caso neppure d'ipotizzare.
Come fare, a chi appellarsi per porre fine all’indecoroso scempio, visto che a nulla porta confidare nella buona condotta dei signori? Rivolgere una preghiera a chi, da qualche parte nel cosmo, organizza i “contrappassi”. Che anche i padroni calpestino le merde dei loro cani. Non dico sempre ma almeno una volta ogni cento passi.



sabato 30 gennaio 2016

SPAZZACAMINO


Sono una persona emotiva.
Sono nata così: le lacrime compaiono all'improvviso. La punta del naso diventa rossa e gli occhi mi si velano. Non posso farci nulla.
Le mie figlie, che da piccole si impressionavano, ora che hanno imparato, ci scherzano su. Ogni volta che succede si avvertono complici con cenni, si sbellicano e mi fanno notare che "ho la voce craccata dal pianto".
Da bambina era peggio in quanto a frequenza, ma tutto sommato meno imbarazzante.
Diciamo che gli sfottò alla sottoscritta non sono un'esclusiva delle mie ragazze. A cominciare la tradizione fu mia madre, la quale sentiva evidentemente tale e tanta nostalgia delle mie lacrime, nei brevi istanti in cui non soffiavo commossa in un fazzoletto, da pungolarmi proditoriamente per indurmi al pianto.
Ora come allora per piegarmi irreparabilmente -inguaribile cuore di burro- è sufficiente evocare il dolore per antonomasia: la perdita della madre.  E in quello consisteva la stoccata vincente di mia mamma. Mi intonava con voce querula la canzone dello "spazzacamino", cavallo di battaglia di Luciano Tajoli.

" Quando in ogni paesello
l'inverno viene
e la neve il suo mantello
vi distende pian piano.
Abbracciando il mio fardello
di cenci e pene,
sospirando un ritornello,
me ne vado lontan.
Come rondine vò,
senza un nido né raggio di sol,
per ignoto destino,
il mio nome è lo spazzacamino.
Della mamma non ho
la carezza più tenera e lieve,
i suoi baci non so,
la mia mamma è soltanto la neve.
È Natale, non badare
spazzacamino,
ogni bimbo ha un focolare
e un balocco vicino.
Io m'accosto per giocare
quando un bambino
mi dà un urto: "Non toccare,
va a spazzare il camin".
Tu mi scacci lo so
perché il volto più bianco non ho,
ma lo spazzacamino
tiene un cuor come ogni altro bambino.
Se possiedi il tesor di un lettuccio
ben soffice e lieve,
io mi sento un signor
quando sogno in un letto di neve.
Ed è questo il destin
di noi poveri spazzacamin!"
Un testo a "tutto tonto", dove il tema dell'essere orfano si coniugava a quelli della povertà e della discriminazione sociale. Facile intuire perché  fosse la mia Caporetto. Finivo scossa da un pianto inconsolabile, spettatore mio fratello, che non avrebbe mai perso l'occasione per ridere alle mie spalle.
Accadde tuttavia che,  durante una qualche assenza di mamma in cui rimasi affidata a mio padre, io stessa, rivelando una insana indole masochista, magari perchè sentivo realmente il peso di quell'assenza, chiesi a lui di intonare il famigerato " spazzacamino".
Averi dovuto capirlo anche da questi piccoli dettagli che i miei non erano, a proposito di certe cose, sulla stessa lunghezza d'onda.
Uomo di ben altra sensibilità, e di ben altra estrazione culturale (la circostanza di aver fatto il militare a Cuneo, avrà avuto il suo peso), papà intonò, in quei frangenti, senza esitazione la sua versione :
"Su e giù per le contrade
di qua e di là si sente
cantare allegramente
è lo spazzacamin

S'affaccia alla finestra
una signorinella
con la sua voce bella
chiama lo spazzacamin

Prima lo fa entrare
e poi lo fa sedere
gli dà mangiare e bere
allo spazzacamin

E dopo aver mangiato
mangiato e ben bevuto
gli fa spazzare il buco
il buco del camin

Mi spiace giovanotto
se il mio camino è stretto
povero giovinetto
come farà a passar
Non dubiti signora
son vecchio del mestiere
so fare il mio dovere
su e giù per il camin
E dopo 9 mesi
è nato un bel bambino
assomigliava tutto allo spazzacamin "

Vittima del riflesso pavloviano, mi bastò sentire la parola spazzacaminoper scoppiare in un pianto inconsolabile, ignara del fraintendimento.

La verità è venuta a galla solo molti anni  dopo, quando mi capitò di risentire, per un puro caso, la canzone ricantata da papà . Ho capito solo da adulta, cioè, che i due giovanotti addetti a tipi tanto diversi di ciminiere, si somigliavano come il diavolo e l'acqua santa.
E allora mi son presa ma mia rivincita. Voce craccata di lacrime  di riso e non di pianto!

venerdì 29 gennaio 2016

LEZIONE DI DIPLOMAZIA A SCATOLE CHIUSE.

Dei bianchi cartoni, animati dalla volontà di preservare la sensibilità di Rohani, materializzatisi autonomamente sulle patrie sculture marmoree - ignoto restandone il “mandante"- si è detto tutto. 
Come scriveva Gabriel Tarde “una penna è sufficiente ad azionare milioni di lingue” e infatti, non appena le immagini dell’"evento in scatola”, di cui deteniamo il copyright, hanno cominciato a circolare , si sono aperte le danze.
Messi a posto i pacchi, non può dirsi del tutto archiviata la faccenda. Di ieri  l’ultima appendice.
A tarda ora sulla pagina FB di Avvenire compare una immagine con due foto relative all’incontro in Vaticano: in alto quella “fake”, che ha girato tutto il giorno in rete, in basso quella originale. Accanto il seguente monito: “Attenzione: Su Facebook da qualche ora viene condivisa una foto di Papa Francesco assieme al presidente iraniano Hassan Rohani. Dietro di loro è stato inserito il quadro "Les trois graces" di Rubens" (con figure nude). È ovviamente un falso. Per favore, se qualcuno dei vostri contatti l'ha pubblicata, avvertitelo. Grazie.
Precisazione doverosa, naturalmente, quella dell’Avvenire, che a mio parere giunge a stigmatizzare più decisamente l’escamotage farsesco e meschino trovato dall’ignoto funzionario italiano.
Facendo bene i conti, se consideriamo che nell’ Islam manca la rappresentazione di Dio tipica invece dell'arte cristiana, quel “Gesù in Gloria”, che ascende al cielo sopra le teste dei due capi di stato, 
per un uomo di moschea risulta un simbolo ben più impegnativo da sostenere con lo sguardo rispetto al nudo.
Vero è che il Profeta fece salve dall’ iconoclastia le immagini della Madonna e di Gesù,  il che pone i capi del protocollo Vaticano fuori da zone scivolose.  Seppure i malpensanti sollevassero un’ultima obiezione, ovvero che per i musulmani Gesù è -certo- un profeta minore, ma per noi resta sempre Iddio, ci offrirebbero un'altra buona ragione  per applaudire  a  una tale alta e sottile lezione di diplomazia.


giovedì 28 gennaio 2016

LE AZIONI FEMMINE

Ma Maria Teresa è poliziotto, anzi poliziotta e chissà se qualcuno si renderà conto del suo gesto realmente rivoluzionario.
Poteva farlo anche un uomo.
Forse.
Forse è questa l'occasione di comprendere che l 'espressione di alcune qualità del femminile, di concerto con altre altrettanto valide del maschile, producono contesti migliori, meno conflittuali”.
Questa la chiosa del commento sulla pagina fb de “Il corpo delle donne” dei fatti di ieri a Genova.
Cosa è accaduto nella città ligure lo riassumiamo in breve: Gli operai dell’Ilva, dopo 4 giorni di sciopero e occupazione degli impianti, hanno vinto la battaglia sindacale. La poliziotta che fronteggiava, insieme ai colleghi, i manifestanti, si è tolta il casco e ha stretto la mano alla -definiamola così- controparte.
Le parole riportate sopra mi hanno stupito. Le ho rilette varie volte e ancora, mentre scrivo, le riguardo cercando di capirne il senso.
Sono d’accordo con chi sostiene che i femminismi abbiano tante facce, un po’ come la religione. Ciascuna di noi probabilmente ha finito con il farsene uno personale, in cui ingloba e elabora   il proprio passato, gli studi in materia, le idee che circolano tra “le colleghe”.
Il mio deve essere una versione soft, annacquata, che evidentemente mi impedisce di vedere la faccenda di cui sopra dalla prospettiva di chi ha scritto il post.
Nel 1791 Olympe De Gouges,  rivoluzionaria francese finita poi al patibolo, scriveva:-“

" La donna nasce libera, ed è, in diritto, uguale all'uomo. (…) Tutte le cittadine e tutti i cittadini - uguali dinanzi alla legge - debbono essere ammessi a tutte le cariche, a tutti i posti e gli impieghi pubblici, secondo le loro capacità, senza altre distinzioni all'infuori delle loro virtù e del loro talento.
Tutto quello che si è detto dopo e ancor si dice sul tema -definizioni, arrovellamenti in coda alle polemiche, declinazioni le più varie- direi che in questa riflessione possiamo tenerle a margine.
Maria Teresa è un poliziotto. Ogni giorno svolge il proprio servizio assecondando “la propria virtù e il proprio talento” di persona. Affermare che si sia comportata così in ragione del proprio sesso le sottrae un merito che è esclusivo della persona e non del genere di cui fa parte.
Non nego che ci siano differenze biologiche tra i maschi e le femmine, e che il femminismo e la politica in generale, debbano tenerne conto nelle battaglie per l’emancipazione che ancora i tempi, purtroppo, richiedono.
Ribadisco solo che leggere il gesto del poliziotto insinuando il dubbio che sia un “comportamento di genere”, nuoce gravemente alla causa.
Nell’ideologia che mi sono fatta , forse troppo a mia misura, mi piacerebbe che si dicesse:” si è tolto il casco perché così fan le persone di sensibilità, e non perché le donne fan così”.
Io penso che non sia vero affatto che il mondo sarebbe un posto migliore se tutti agissero “da donna”, sarebbe perfettamente  identico. Siamo tutti uguali o lo andiamo sostenendo tanto per parlare?

mercoledì 27 gennaio 2016

GITA AL NUOVO SOCIAL !

Ragazzi miei l’ho fatto.
Dopo anni di esilio dorato mi sono imposta di uscire per qualche ora da Fb. Sono andata in gita  su un altro social media. Naturalmente non ho scelto a caso. Memore della pubblicità che tempo addietro dissuadeva dal “fai da te” prima ho spulciato ben bene il web. Desiderosa di esplorare luoghi esotici e incontaminati ho subito escluso gli spazi con formula all inclusive. Volevo un prodotto di nicchia, una roba di qualità. Gira che ti rigira, ecco individuato il mio obiettivo. 
Gli indici da cui riconoscere quello giusto, inequivocabili. Grafica minimal come da ultime tendenze. Colore predominante verde: abbiamo capito ormai che il rosso ha fatto il suo tempo. Regole e sistemi di condivisione complicatissimi. 
Nonostante i miei ormai “anta” anni e il fatto che vesta da tempo una maschera di sfrontatezza, resto deep inside una timida. Mi porto appresso, indelebile impronta genetica, lo scuòrno   dei nati “popolani”. L’ insicurezza che diventa titubanza a varcare ogni porta metaforica o reale, nervosismo negli ambienti sconosciuti, disagio a socializzare. 
Il login l’ho vissuto come un travaglio. Passare la “fringe” è stato scioccante. La faccenda non si è semplificata nemmeno in corso di navigazione: le norme d’ingaggio della flotta stellare al confronto delle regole di questo “gioco”, quisquilie. 
Dio solo lo sa l’impegno che mi è costato arrivare al primo post nella mia lingua. Seguendo la scia di “segnalazioni”, su cui il social si basa, ho palleggiato tra vari articoli per risalire infine agli illustri frequentatori.  Tutti tipi fighi, gente colta, con interessi letterari e roba simile. Persone di altissimo profilo, letteralmente. Nessuno che non vanti roboanti impieghi culturali. Le brevi presentazioni semplici, scanzonate eppure serie, tutte perfette, come da manuale mangiato e digerito. Ho tentato, in un impeto di sconsideratezza o delirio di ambizione o di entrambe -fare voi- l'interazione. Ho “segnalato” un paio di pezzi altrui, ho cominciato a followare qualche nome e -cosa che mi costerà, immagino la derisione in eterno degli utenti - ho pubblicato due dei miei –se così si possono chiamare- racconti. Ho fatto –credo- tutto ciò che ogni cafone degno di questo nome fa entrando per la prima volta al Grand Hotel. Se è possibile violare con un solo clik tutte le direttive della netiquette, credo di aver commesso, inconsapevolmente, il fatto.  
Poi, proprio come accadeva in quelle estenuanti scampagnate domenicali cui mi sottoponevano da bambina, stanca e afflitta, me ne sono tornata a casa. 
La travagliata puntata fuori porta non mi è bastata. Il giorno seguente, non paga, ci ho riprovato.  Confesso l’intima e umanissima speranza che mi ci ha spinto: la possibilità che durante l'assenza qualcuno avesse finalmente notato la mia presenza. Macché. Un ectoplasma di un brutto incubo notturno, al mio confronto in quell'ambiente, vanta una consistenza a dir poco marmorea. Preso allora atto che il servizio “chi ti caca” è stato inserito –come si dice in questi casi- con successo, ho infilato l'uscita e sono venuta via. 
La verità è che sono abituata a facebook, equivalente social –diciamocelo francamente- del lido mappatella  e in queste spiagge esclusive, dove la prima sensazione è di vuoto spinto, la seconda di solitudine cosmica, non mi ci ritrovo proprio. Grondante di sensi di colpa sono tornata qua. Attualmente sono in ginocchio, sopra i ceci e con il capo cosparso di cenere , che digito felice come una bimba i vostri nomi.

martedì 26 gennaio 2016

'A CAP' 'E NAPULE"

Durante una visita a Palazzo San Giacomo, di quelle organizzate dal Comune per avvicinare –credo- i cittadini alle istituzioni, ho fatto conoscenza con una persona speciale, volto tra i più antichi della mia città.  Mi riferisco alla “Cap’ e’ Napule” nota pure con il titolo di “Marianna”.
Pare sia popolare assai eppure, 
prima del nostro fortuito faccia a faccia, io non avevo sentito parlarne e non l’avevo  incontrata mai.
Sta sulla scalinata che porta ai piani superiori dell’edificio oggi sede del Comune.
Utilizzare un’espressone più consona per descriverne  la collocazione –troneggia, ad esempio- non è possibile, dacché l’averla inserita nello spazio cavo della finestra, nel mezzo del ballatoio della scala biforcuta del primo piano, non giova propriamente a conferirle la maestosità che probabilmente si cercava.
La nicchia che le si apre alle spalle, nonostante quella finestra  male imbiancata sovrastante, la pone  infatti in ombra,  tanto da farne  l‘umile  “guardaporte”, piuttosto che  “Signora” del palazzo. Le si tira dritto davanti senza neanche salutare, a meno che qualcuno non solleciti l'atto. 
Della “Marianna nostra” è rimasto solo il moncone di una capa gigante. Ma su quelle ormai inesistenti spalle, di cui le tante vicissitudini l’hanno privata, ugualmente la storia ha fatto in modo di pesare.
Nata nobile -lo si intuisce dal marmo in cui è scolpita, dalla compostezza della pettinatura, dall'armonia classicheggiante del volto- al tempo in cui Napoli parlava greco, ha trascorso l’infanzia badando agli scugnizzi che le si affaccendavano sotto gli occhi negli angoli di strada e nelle piazze in cui, di volta in volta, fu costretta a traslocare.  Spettatrice della parabola di Masaniello 
a piazza Mercato, si guadagnò poi l’appellativo di “Marianna”, a supponta delle sorella maggiore d’oltralpe, durante la rivoluzione del ’99. Non evitò infine i bombardamenti di via Marina della seconda guerra. Non ha mai perso la faccia, un po' come i suoi concittadini. Piuttosto solo il naso, riattaccatole ogni volta con operazioni di estetica non sempre riuscitissime.
Una Capa tanta di ricordi, insomma, la Marianna nostra, che dalla sua scalinata di Palazzo San Giacomo, consapevole della città alle spalle continua a volgere lo sguardo al mare. Non vede più il passato, ma non cerca di divinare sul futuro. Si direbbe che lo conosca già e si limiti a controllare che esso segua il proprio corso e non deragli. La bocca non sorride, non ride ma neppure accenna il pianto. E' schiusa nell'atto di emettere lo spirito vitale che soffia sul golfo e i suoi abitanti. 
Non c’è simbolo più azzeccato, io credo, per la nostra Napoli di una capa a solo. Nella testa c’è tutto ciò che basta: i sentimenti, la ragione e,  perché no, anche un pizzico di pazzia. Il corpo è storia a parte. Il corpo siamo noi, che da quando stiamo al mondo, all'ombra del Vesuvio, risultiamo evanescenti, inconsistenti ma al contempo tanto ingombranti, proprio come la corporatura della faccia  di Marianna sulla colonna, che pur mancando si lascia intuire chiaramente. 
     

lunedì 25 gennaio 2016

Viva la cultura, abbasso la censura sempre!

“Huston abbiamo il solito problema!”
«Basta sempre e solo cose di sinistra. Basta sempre gli stessi intellettuali e scrittori del gruppo Espresso. Ogni sindaco ha la sua linea, è giusto che abbia il proprio programma culturale». Con questo proclama il primo cittadino di Padova Massimo Bitonci (leghista) cancella il “Festival delle parole” -manifestazione ospitata in città da un paio d’anni con buoni risultati tanto per partecipazione di pubblico che  per guadagni- e annuncia la creazione di un nuovo evento, sotto la direzione di Vittorio Sgarbi.
La decisione, con sapore  di rappresaglia, pare sia dovuta al diniego dell’organizzatrice Bruna Coscia di sostituire gli intellettuali
già inseriti nel calendario della manifestazione con altri suggeriti dal sindaco.
La lista di proscrizione è lunga: tra gli altri Augias, Lella Costa, Paolo Di Paolo, Ezio Mauro, Sergio Staino.
Il Veneto si conferma, così, regione nefasta per la cultura.
Nello stesso mese del 2011, intorno alla medesima decade, la stampa nazionale di occupò dell’operazione 
paventata dall'allora sindaco di Venezia –metaforicamente battezzata “rogo di libri” - volta ad ostracizzare dalle biblioteche pubbliche  i libri di autori appartenenti a fazioni politiche sgradite.  
Più recentemente sempre il padovano Bitonci ha negato alla filosofa Michela Marzano una sala comunale per la presentazione del libro "Mamma, papà e gender", tacciato di propagandare la “teoria di genere”.
L’acqua che scorre sotto i numerosi ponti veneti evidentemente non è sufficiente a lavare via certe idee e certe velleità di censura, chiodo fisso degli amministratori pubblici locali.
Per fortuna oltre l’indignazione c’è di più. La riprovazione per la decisione del sindaco, a cui hanno dato voce già molti intellettuali e artisti (da Bisio ad Al Bano), oggi Lunedì 25 gennaio, diventa vera e propria azione simbolica di protesta.



Alle ore 17.30 davanti al Comune, (Palazzo Moronisi)  si sono dati appuntamento molti per  “il grande gioco delle parole”, bookcrossing  con lo scopo di  “sensibilizzare cittadini e amministratori sull’importanza della cultura libera”.
Per manifestare la nostra vicinanza a quanti saranno oggi in piazza a Padova si potrebbe condividere sulle bacheche di Facebook - dalle 17 alle 20- l'immagine di un libro.
Un piccolissimo gesto  che equivalga al grido:
Viva la cultura, abbasso la censura sempre! 



domenica 24 gennaio 2016

QUANDO LA SCIMMIA DA PROBLEMI

Spiegava un vero schifo, ma mi faceva capire tutto alla perfezione. Le bastava uno sguardo, un gesto, un riferimento e tutto nella mia mente andava a posto. Così mi ha insegnato a leggere, a far di conto, a lavorare con i ferri e   con l' uncinetto. A cucinare, perfino. 
Solo una volta il suo sistema ha fallito. In prima elementare. 
Ho sempre avuto una pessima memoria . Spesso mi capitava che a casa non ricordassi le spiegazioni della maestra. Con il senno di poi  sono propensa a credere che  non fosse tanto un problema di poca memoria   quanto di troppa fantasia. Era lei la colpevole, la mia fervida immaginazione che  mi trascinava via dall'aula  nel mezzo delle spiegazioni.  Di quelle escursioni  in posti fantastici,  al ritorno degli  occhi sulla lavagna, non  mi restavano che i tanto odiosi buchi neri  tra parole della mia insegnante. Mi toccava chiedere aiuto a mamma, poi, per completare i compiti a casa.
Il pomeriggio delle "sci" è stato il più odioso della mia intera esistenza. Non scherzo e non esagero.  L'elenco delle dieci  paroline  mi era uscito subito. Era là, ordinatamente segnato sulla pagina divisa in due del quaderno . Sopra la classica intestazione: tracciato in penna rossa, sul lato destro   il trigramma "sci". Su quello sinistro seguiva "sce". Finiti gli scritti mi  toccava la lettura.  Il libro  mi aspettava aperto sul tavolo della cucina, dove s'era  già insediata mamma. 
Niente, non riuscivo proprio a leggerlo quel maledetto  suono. Continuavo a sillabare s, poi c, quindi i attaccando infine la mmia" a completare la parola, ma "scimmia" tutta insieme non veniva. Ci abbiamo speso un intero pomeriggio. Minacce di ceffoni, urla e imprecazioni allegate. Poi dal nulla o piuttosto dall'estenuazione, m'è venuta l'intuizione.
Non ti dispiacere mamma, se ti capitano tra le mani queste righe. Succede a tutti, anche a me con le mie figlie. La miriade di cose che si è fatta insieme con allegria, la memoria ( brutta bastarda) le accantona e non le tiene in conto. Però tutti i ricordi, alla nostra età, diventano belli. Quello che ho descritto è tra i più cari.  Sei stata una brava insegnante, a volte forse troppo ermetica, ma brava!

sabato 23 gennaio 2016

L'ALTRA META' DEI BULLI

Io spero di resistere.
Quante giornate di scuola sono lunghi tre anni?  Più o meno 630. Basterà sopportare per 630 giorni. Ce la posso fare.
Domani per fortuna è venerdì, il che significa un intero weekend di tregua. Domenica andremo a messa e poi –volente o nolente- dai nonni, in campagna. Ci saranno anche i cugini; dei veri scalmanati ma almeno due tiri in porta e una corsa in bicicletta sono garantiti. Probabilmente finirà come al solito in una grossa lite. Vabbè, in queste condizioni tutto fa brodo. Le zuffe certe volte possono essere divertenti. In ogni caso tornerà utile per sfogare un po’ di rabbia. Oggi va peggio del solito. L’umore è proprio sotto ai piedi.
Niente. Non scappa un sorriso. Eppure ci sto provando a cavarne fuori uno.
Resistere. Devo resistere.
Continuerò a muovermi per la cucina facendo finta di niente e intanto butto un occhio. Chissà a cosa sta pensando. Il fine settimana passerà in fretta e lunedì ricomincia l’incubo: scommetto che si arrovella su quello. Ormai è un chiodo fisso. Non ci dà tregua.  Ne’ a me, ne’ a lui.
Non sono l’ingenua che crede. So bene cosa gli succede a scuola con i compagni. E vedo quanto è solo qui a casa. Tutti quei pomeriggi buttati davanti al computer. Le madri sanno sempre tutto.
Porca paletta se è complicato. Altro che troppo drammatica mia mamma quando ripeteva che tutto è nulla se colpiscono te, ma non ti devono mai toccare i figli. E’ stato difficilissimo, ai miei tempi, essere il bersaglio. Ora che hanno messo sotto lui è più che difficile: è insopportabile. E invece mi tocca sopportare. Ci tocca sopportare: 630 giorni.
E se andassi dalla professoressa di italiano?  Magari non si   è accorta di quello che succede. Come potrebbe d’altronde. Sono bravi  i bravi a non farsi sorprendere.  Sarebbe, peggio, lo so. Diventerebbero solo più feroci. Ma dove avranno imparato a fingere così bene? Mi salutano sempre con educazione, diavoli . Chi potrebbe mai sospettare che dietro la facciata da santarellini ci sia tanto marciume. Si credono superiori solo per qualche buon voto e qualche moina che fanno alle insegnanti e si sentono in diritto di giudicare, emarginare.  Ma quanto si può essere stronzi già a quell’età? D'altronde i genitori sono ottimi maestri. Tutti ruffiani e falsi. Stronzi pure loro, tale e quale ai figli.
Alle riunioni sono talmente camorristi che non c’è da stupirsi dei ragazzi. Prepotenti. Vengono, si propongono come rappresentanti di classe e si fanno eleggere da quelli come loro a colpo sicuro, secondo un piano già stabilito prima. Hanno le cricche, tale e quali ai figli. Si wazzuppano tutto il giorno pure loro scopiazzandosi i compiti per non far sbagliare quei piccoli farabutti. Mi ferisce che minimizzino certe condotte. Certi atteggiamenti andrebbero corretti e di corsa e a bastonate. I loro figli rubano i libri ai compagni. Fanno sparire le cose dagli zaini durante l’intervallo. Ce n’è uno che tocca perfino il sedere alle compagne. Ai compiti in classe si organizzano per passarsi i compiti facendo muro. Scelgono il posto agli altri secondo regole di esclusione che conoscono fin dalla nascita. Danno feste a cui sono ammessi in pochi, naturalmente sempre gli stessi. Tutto questo sotto l’ala protettrice e complice degli adulti. Adulti poi, un branco di adolescenti viziati, sempre lì a sdrammatizzare: “sono ragazzi, infondo lo fan tutti”.
No, stronzi. Non lo fanno tutti, vorrei gridargli ma mi mordo la lingua per non far precipitare la situazione. Non lo fanno di certo quelli che in silenzio devono sopportare e passeranno l’inizio dell’adolescenza in posizione fetale, nell’angolo, cercando solo di resistere.

venerdì 22 gennaio 2016

L'AMICA GENIALE DI ELENA FERRANTE

Finalmente ho avuto l'incontro, a lungo procrastinato, con il fantasma di Elena Ferrante e la sua "geniale" amica.
Un collezionista che si rispetti -perché un lettore è innanzitutto un collezionista - non resiste a lungo al richiamo del pezzo mancante.
Molte le considerazioni che mi vengono sulla punta della tastiera.
La prima, banale -ve lo concedo-  è che di due amiche, di cui una geniale, ce ne sono molte in letteratura. A me ad esempio era piaciuto molto " Ragazze di campagna" di Edna O' Brien,  anche questo primo capitolo di un trilogia ormai  datata, siamo nel 1960, nella quale si narrano per l'appunto le vicende di due fanciulle di provincia molto vicine per spirito ed intraprendenza  alle protagoniste del libro della Ferrante.
La seconda è che la storia de " l' Amica Geniale" è di quelle che prende, senza dubbi.
Naturale che agli americani, ai quali va il merito di aver scoperto la nostra autrice ( a riconferma che nessuno è profeta in patria), abbiano amato appassionatamente l'intera saga . Le epopee plebee affascinano sempre. Mi è sembrato a tratti ( e non suoni come un paragone sacrilego, visto che mi riferisco alla trama e non metto a paragone la forma o la sostanza) di sentire le voci della periferia californiana dei racconti di Fante, o gli stralci di vita della varia umanità pullulante la Newark di Roth. Mi pare di averci trovato dentro anche la tragica e frenetica infanzia di Mc Court de "le ceneri di Angela" . Le storie del dopoguerra, della povertà, dell'emancipazione culturale, delle lotte casalinghe di ragazze comuni per sfuggire ad un destino di obbedienza già apparentemente segnato
, catturano sempre il lettore.
Eppure i dubbi restano.
Il dubbio se conti o meno ancora la distinzione tra letteratura alta e letteratura di intrattenimento.
Il dubbio se il gradimento del pubblico possa in qualche modo contribuire, oltre che a sovvertire la fortuna di un romanzo rendendolo campione di vendite, anche a mitigare se non cancellare del tutto, le smorfie di perplessità dei critici.
Il dubbio se lo stesso lavoro dei critici conservi qualche ruolo, nel decretare cosa sia o cosa non sia letteratura da tramandare ai posteri.
Il dubbio, infine, su quali siano i requisiti che fanno meritare ad un libro il conferimento di un premio ( lo Strega, in questo caso).
In onestà non posso dire che il romanzo sia brutto. Per esprimere un giudizio corretto, bisogna aver riguardo alle perplessità che ho sopra accennato e interrogarsi su che cosa, qualitativamente parlando, il lettore debba chiedere ad un libro.
"L'amica geniale" è un romanzo di ottimo livello, da leggere  tutto d'un fiato sotto l'ombrellone o nei tragitti quotidiani in metropolitana. La scrittura scorrevolissima è  curata e piacevole, dunque prende e quasi costringe a un coinvolgimento totale.
Detto questo, mi pare che qualitativamente non ci siano gli elementi che facciano gridare al capolavoro e soprattutto che giustifichino la definizione di "scrittrice epocale" che la Ferrante si è guadagnata presso i cugini del nuovo continente. Non è il numero di vendite che fa il capolavoro.
Che poi  il libro abbia le carte giuste per guadagnarsi "Lo Strega" è altro discorso.
In piena coscienza,  vi sfido a fornire l'elenco dei romanzi che hanno vinto il premio nell'ultima decade.
Impresa difficile. E' da tempo che la letteratura, quella grande,  passa raramente  per i premi letterari e forse, salvo poche eccezioni, quel tempo non c'è stato mai.
In conclusione, a me piace applicare alla lettura il dogma che mi ha ispirato nell'educazione della prole: " quello che non strozza, ingrassa".
Sono sopravvissuta, e come me sono certa anche voi, alla lettura di grandi porcherie fatte passare per arte. Non sarà certo Elena Ferrante ad ammazzarci, tutt'altro.
Leggetela dunque, a prescindere dai giudizi altrui, con lo spirito con cui si apre ogni nuovo libro: per il puro gusto della scoperta.

giovedì 21 gennaio 2016

"ESCILE".


Ci sarà una buona ragione dietro l'iniziativa "Escile?"

Cadete "dalle nubi" ? Non avete ancora appreso della moda, lanciata dalle studentesse milanesi della Bocconi, di invadere i social con le foto del  propri esuberanti decoltè? 

Ormai da giorni, aderendo all'inconsueto appello, le universitarie italiane, da nord a sud, nonostante il freddo polare che fa battere i denti alla penisola, con entusiasmo vanno esibendo le tette.

Per saperne di più sulla faccenda, per tastare il polso - non certo altro- della situazione, mi sono fatta un giro sulla pagina dell' UNINA.

Il tema è  scottante. I commenti si affastellano in bacheca con un alternanza abbastanza equilibrata di  favorevoli e contrari.
Università è sinonimo di serietà, dicono in sintesi primi. Anche la goliardia ci sta, replicano i secondi.  Il corpo è delle donne  e lo gestiscano in piena libertà, rilanciano i fautori.  Si  è lottato tanto per arrivare nelle università ed è uno spreco questa ostentata superficialità, ribadiscono i detrattori.
 Pochi in verità i richiami a censure di tipo moralistico, così come le esortazioni  ad eliminare del tutto i reggiseni  da parte degli spiriti più visionari e arditi, che, si sa,  in   dispute di tale calibro non mancano mai.
Non avremmo mai pensato di dover citare Sabrina Salerno, ma pare il caso di ricordare a tutte che " siamo donne, oltre le gambe c'è di più" e lo stesso dicasi per i  seni, naturalmente. Se pure a giustificare tutto ciò ci dovesse essere un buon motivo ,  abbiamo la certezza che si sarebbe    potuta escogitare una   trovata migliore, quantomeno qualcosa meno rassomigliante ad un fermo immagine tratto da un film di Pierino.
Tra le tante  battute lette  una menzione speciale spetta alla foto con la scritta  "Ma vostro padre lo sa che vi paga l'università e voi uscite le tette? "  sebbene l'oscar  va,  senza alcun dubbio,  alla sagacia di  chi ha lasciato  detto "Uscite il Cervello che le tette già le hanno viste tutti".




LE PAROLE MASCHIE





"In ira e in politica veritas".  Verrebbe da parafrasare così il detto  con riguardo al caso Juncker. Se  vi state chiedendo di cosa vada blaterando sappiate che da quando al Presidente è scappato detto :- "Non ci sono problemi tra il governo italiano e la Commissione a parte un dibattito che qualche volta è condotto con parole maschie e virili",  è palese la necessità di aprire, a tal proposito, un caso .
Ci tocca l'ennesima immersione nel fondo melmoso delle parole altrui per fare il solito  lavoro sporco: portare alla luce gli orribili resti autoptici  della correttezza linguistica. 
Quanta fatica costa essere attenti e corretti nei propri discorsi e quale impegno di autocontrollo se al primo sussulto di  collera l'argine di ipocrisia verbale salta e il disappunto fa cadere nel solito stereotipo di genere?
Lo immaginiamo Juncker, in tutto il suo aplomb, i nervi leggermente scossi da tanta tetraggine dell'italico interlocutore, rimestare nel vocabolario, cassare le formule più prosaiche salitegli alla gola e puntare su più miti  espressioni. 
Noi raccoglitrici infaticabili di perle nere, tuttavia,  siamo indomite e proseguiamo negli interrogativi.
Quali saranno mai le "parole maschie e virili" intercorse tre le parti contrapposte? Che abbiano inscenato un sanguigno siparietto alla "Sarri-Mancini"naturalmente lo escludiamo. 
Faceva notare pochi giorni fa  Gianfranco Carofiglio a proposito delle unioni civili gay che l'uso di «PAROLE PRECISE» comporta un impegno d’onestà. Le espressioni di Juncker sono state puntuali. Possiamo considerarle un segno, seppure accidentale, di trasparenza. 
Ci svelano in tutta franchezza l'esistenza, in politica, di un linguaggio maschile, uno femminile e -probabilmente- uno neutro. C'è, dunque, un registro linguistico codificato mutevole a seconda del sesso delle parti. Ma noi non ce ne facciamo una ragione.
Pochi giorni fa, davanti ad una giovane commessa incinta, che  alla domanda sul sesso del nascituro aveva risposto con spropositato orgoglio:-" è un maschione!"  mi ero rattristata, pensando alla gabbia di condizionamenti culturali in cui sarà allevato il nascituro. L'avevo, però,  in qualche modo giustificata con la scarsa scolarizzazione tradita dalla ragazza .
Juncker ci ricorda invece che il luogo comune di genere sopravvive alla cultura, alla classe e alla buona educazione, come erba cattiva. E' trasversale. Quasi subliminale.
Si diceva " in ira veritas". Lo scivolone di Juncker, lo avrete capito, mi ha toccata.  Mi scuso pertanto amici, se in questo sfogo, mi sono abbandonata anche io  a parole ossessivamente donne e femminili

mercoledì 20 gennaio 2016

BULLI

Fosse per me  non metterei più piede in quella scuola di m…
Mamma  mi racconta di quando lei era alle medie ma non parla mai di bulli. C’erano dei prepotenti, ai suoi tempi, di quelli che facevano battute stupide e cattive sui capelli e i sederi grossi delle ragazze, e commentavano a voce alta  i brutti nasi  o calavano le braghe ai maschi. A volte  i “deficienti” –lei li chiama anche così- facevano quella cosa odiosa di rubare un quaderno o una penna a qualche compagno e palleggiarsele tra loro.
-"Quello finito sotto, come un cretino, per un po’ provava ad intercettare le sue cose tra un lancio e l’altro ma poi finiva per implorarne la restituzione. Il segreto era non reagire: in questo modo loro perdevano interesse, non si divertivano più e ti lasciavano stare"- dice così. 

Ogni volta che provo a raccontare a mamma cosa succede nella mia scuola fa quel sorriso tipo quando faccio una stupidata e lei mi dovrebbe fare una partaccia ma poi mi perdona e dice “non fa nulla”. 
E mi ripete sempre lo stesso consiglio di ignorarli, che loro si stancheranno prima o poi di prendermi in giro. 
Certo che i prepotenti dei tempi di mamma erano piuttosto scarsi  se si facevano liquidare così.
A scuola mia invece ci sono i bulli. Il bullo è un concentrato di prepotenza. A volte penso che non smetterebbero neppure se gli scaricassi addosso un intero caricatore di proiettili d’argento, come i vampiri. 
Quando sentiamo di certi brutti fatti alla televisione mamma mi guarda rassicurata. Pensa che le cose che raccontano al telegiornale succedono solo negli altri posti. E’ convinta di saperli “identificare”  a prima vista, i bulli. Non ne ha riconosciuto nessuno in giro, tra i miei compagni di classe o tra i ragazzi del nostro quartiere, quindi la sua idea è che "siamo fortunati a vivere in un ambiente ancora tranquillo, di gente a modo"-parole sue.
Non so da cosa individui i bulli. Non vestono mica diverso dagli altri. Non sono neppure i più poveri o “meno abbienti” - come dice lei- o i ragazzi “che hanno situazioni di disagio a casa”. Oddio: se quelli che conosco io vestono uguale agli altri solo per camuffarsi o fanno finta di essere ricchi ma poi in realtà sono poveri, o se a casa i loro genitori  li picchiano e li maltrattano, questo non lo so. So solo che i bulli sono uguali a tutti gli altri quando ci sono gli adulti intorno. Il problema è che i grandi non ci sono sempre.
Non so come far capire a casa che non sempre i peggiori soni i violenti e i teppisti. Io, per esempio, sono il più scarso in tutte le materie ma non essendo capace di far filone e di essere maleducato con i professori non interesso agli altri che vanno male. Almeno a loro sono indifferente, che è già un vantaggio. Sono stato preso di mira "dai bravi”, io. Si. Il mio problema sono quelli studiosi che se la tirano tanto e alla prima occasione mi mettono in ridicolo e mi punzecchiano ferocemente. Hai voglia a lasciarli fare senza reagire. Non smettono, non mi danno pace.
E' come camminare a tratti con un bersaglio dietro le spalle e a tratti in una bolla di invisibilità. E sono loro a decidere quando sei un target e quando non esisti. Anche io avrei cose da dire, sulla musica i libri, le serie tv. Ma non interesso a nessuno, a meno che abbiano voglia di divertirsi un po' e allora si ricordano che esisto.
Ho letto della ragazzina che si è buttata dalla finestra ed è morta. Chissà quanto ha resistito. Chissà da quanto se li portava dietro quegli stronzi. Chissà i “ suoi bulli” di che pasta sono fatti.
Io spero di resistere.
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Io spero di resistere.
Quante giornate di scuola sono lunghi tre anni?  Più o meno 630. Basterà sopportare per 630 giorni. Ce la posso fare.
Domani per fortuna è venerdì, il che significa un intero weekend di tregua. Domenica andremo a messa e poi –volente o nolente- dai nonni, in campagna. Ci saranno anche i cugini; dei veri scalmanati ma almeno due tiri in porta e una corsa in bicicletta sono garantiti. Probabilmente finirà come al solito in una grossa lite. Vabbè, in queste condizioni tutto fa brodo. Le zuffe certe volte possono essere divertenti. In ogni caso tornerà utile per sfogare un po’ di rabbia. Oggi va peggio del solito. L’umore è proprio sotto ai piedi.
Niente. Non scappa un sorriso. Eppure ci sto provando a cavarne fuori uno.
Resistere. Devo resistere.
Continuerò a muovermi per la cucina facendo finta di niente e intanto butto un occhio. Chissà a cosa sta pensando. Il fine settimana passerà in fretta e lunedì ricomincia l’incubo: scommetto che si arrovella su quello. Ormai è un chiodo fisso. Non ci dà tregua.  Ne’ a me, ne’ a lui.
Non sono l’ingenua che crede. So bene cosa gli succede a scuola con i compagni. E vedo quanto è solo qui a casa. Tutti quei pomeriggi buttati davanti al computer. Le madri sanno sempre tutto.
Porca paletta se è complicato. Altro che troppo drammatica mia mamma quando ripeteva che tutto è nulla se colpiscono te, ma non ti devono mai toccare i figli. E’ stato difficilissimo, ai miei tempi, essere il bersaglio. Ora che hanno messo sotto lui è più che difficile: è insopportabile. E invece mi tocca sopportare. Ci tocca sopportare: 630 giorni.
E se andassi dalla professoressa di italiano?  Magari non si   è accorta di quello che succede. Come potrebbe d’altronde. Sono bravi  i bravi a non farsi sorprendere.  Sarebbe, peggio, lo so. Diventerebbero solo più feroci. Ma dove avranno imparato a fingere così bene? Mi salutano sempre con educazione, diavoli . Chi potrebbe mai sospettare che dietro la facciata da santarellini ci sia tanto marciume. Si credono superiori solo per qualche buon voto e qualche moina che fanno alle insegnanti e si sentono in diritto di giudicare, emarginare.  Ma quanto si può essere stronzi già a quell’età? D'altronde i genitori sono ottimi maestri. Tutti ruffiani e falsi. Stronzi pure loro, tale e quale ai figli.
Alle riunioni sono talmente camorristi che non c’è da stupirsi dei ragazzi. Prepotenti. Vengono, si propongono come rappresentanti di classe e si fanno eleggere da quelli come loro a colpo sicuro, secondo un piano già stabilito prima. Hanno le cricche, tale e quali ai figli. Si wazzuppano tutto il giorno pure loro scopiazzandosi i compiti per non far sbagliare quei piccoli farabutti. Mi ferisce che minimizzino certe condotte. Certi atteggiamenti andrebbero corretti e di corsa e a bastonate. I loro figli rubano i libri ai compagni. Fanno sparire le cose dagli zaini durante l’intervallo. Ce n’è uno che tocca perfino il sedere alle compagne. Ai compiti in classe si organizzano per passarsi i compiti facendo muro. Scelgono il posto agli altri secondo regole di esclusione che conoscono fin dalla nascita. Danno feste a cui sono ammessi in pochi, naturalmente sempre gli stessi. Tutto questo sotto l’ala protettrice e complice degli adulti. Adulti poi, un branco di adolescenti viziati, sempre lì a sdrammatizzare: “sono ragazzi, infondo lo fan tutti”. 
No, stronzi. Non lo fanno tutti, vorrei gridargli ma mi mordo la lingua per non far precipitare la situazione. Non lo fanno di certo quelli che in silenzio devono sopportare e passeranno l’inizio dell’adolescenza in posizione fetale, nell'angolo, cercando solo di resistere.



martedì 19 gennaio 2016

IL GOLFO DI NAPOLI

Il combinato disposto di mare e golfo. E' quello che fa la differenza.
Perché avere solo il pezzo di mare davanti -vedete- non è tutto.
Il mare ce l'hanno in molti, non è una novità. Ma un golfo è una benedizione concessa a pochi. Egli -egli sì, perchè è creatura viva- simula un abbraccio, con il quale la terra che gli sta sopra pare rivendicare, con un gesto prepotente, la proprietà di tutto quell'azzurro. Avete presente il giocatore di poker nei film, quando vince una ricca mano e con avidità e soddisfazione al contempo, rastrella verso di sé il frutto della sua fortuna, con entrambe le braccia ?
Ecco, così.
L'arco, che si protende da est ad ovest, fa sentire tutte le creature, che in quello spazio ci stanno stipate, più vicine. Non come su un lungomare in linea retta, dove non vedi chi ci sta all'inizio e chi alla fine e ti senti anche un po' solo.
E poi vuoi mettere che, mentre cammini assorto nelle tue disgrazie, così all'improvviso, da quasi ogni punto della città, ti si para davanti una vrenzola, uno spiraglio  di quel blu presidiato da Iss', O' Vesuvio, che sta là come una mamma fiera e 'nziriosa, che non sai mai quando quella mano che ti accosta al volto e mille volte ti accarezza, ti menerà lo schiaffo? Pure se stai facendo il pensiero più brutto della vita tua, alzi gli occhi, e con tutta la bellezza che tieni davanti li riempi di meraviglia e ti pigli una pausa dai tormenti. Un istante solo, brevissimo. Uno iato, 'nu riciato pa' 'a capa e po' cor.

domenica 17 gennaio 2016

DI SUPER MAMMA CE N'E' UNA SOLA: QUELLA CHE RINUNCIA AI SUPER POTERI!

Mi sveglio all’alba e dopo aver messo la moka sul fuoco, nell’attesa che il caffè sia pronto, accendo il computer per controllare la posta. Come al solito apro facebook e  trovo la notifica di  un messaggio da leggere. Scopro, con meraviglia, che  il mittente è mia madre,  più mattiniera di me . Apro incuriosita e leggo il testo che recita:- “ dove sta  la s?”.
Le rispondo subito con intento canzonatorio:-“ a che ti serve scusa la s? comunque è vicino alla a!”.
Repentina arriva la replica, segno che lei è dall’ altra parte, in vigile attesa del mio risveglio,:- “ cretina ( e non mi offendo perché in famiglia siamo soliti coccolarci con  questo vezzeggiativo), lo so dov’è la s, altrimenti come avrei fatto a scrivertela? Volevo chiederti dove è la scritta “mi piace”, su cui devo cliccare.”
Pur essendo le sette del mattino e il mio cervello ancora annebbiato, realizzo che mamma ha ripreso la conversazione dal punto esatto in cui si era interrotta ieri sera. Le stavo spiegando come fare a ricevere gli aggiornamenti di una pagina su FB che le interessano. La morte della chat mi aveva illuso che, seguendo le mie puntigliose indicazioni ci fosse riuscita al primo colpo, invece no, evidentemente la lezioncina non è andata a buon fine e ora mi tocca ricominciare daccapo.
Mentre riscrivo tutti i passaggi dell’operazione, ripenso al rapporto con mia madre, al mio modo di essere figlia e al mio ruolo di madre.
 La mia mamma davanti al computer ce l’ho messa io, alla maniera sbrigativa e poco cerimoniosa con cui abbiamo fatto insieme molte cose, nel corso degli anni .
 All’ epoca vivevo in Turchia  e l’esigenza di decurtare i costi delle bollette telefoniche, nonché di approfittare delle meraviglie tecnologiche per poterci vedere oltre che sentire, mi indussero a procurarle un computer su cui  installammo  Skype . Mattina dopo mattina, integrando le video conferenze ancora  troppo incerte e traballanti con  lunghe e dispendiose   telefonate, le spiegai come utilizzare google, cosa significasse cliccare, le indicai come si ingrandissero o chiudessero le pagine, e così le si aprì un mondo. Facebook è arrivato dopo, quando era ormai “scafata” abbastanza per tentare piccoli passi in autonomia. Tuttavia ancora mi chiama, di tanto in tanto, allarmata per aver commesso qualche guaio, non potendo  aspettare il pranzo della domenica, al termine del quale ci dedichiamo  alle spiegazioni delle cose più difficili.
Ora, mia mamma non ha mai brillato per finezza pedagogica. Non è mai stata una di quelle signore calme e tranquille che si mettono pazienti a spiegarti, passo dopo passo, le cose. Non mi ha mai imboccato niente con il cucchiaino, per dirla con una metafora cara alla mia maestra delle elementari: Al contrario ha sempre preteso che ingoiassi frettolosamente  a grossi bocconi, per svuotare il piatto velocemente. Non lo faceva mica per cattiveria, sono sempre stata  certa della sua buona fede. Figurarsi! Non le ho mai sollevato  il minimo rimprovero, anche se  -a dire il vero- sono riuscita a dare una spiegazione razionale alla sua condotta solo   anni dopo quando  mi sono dovuta giustificare con le mie figlie che si  ribellavano alla prospettiva di subire da parte mia lo  stesso trattamento.  Ho compreso, infatti,  che certe  mamme -inclusa evidentemente la mia-  reputando i propri figli più intelligenti degli altri, ritengono  che ad essi basti una  mezza parola, o addirittura unicamente un  esempio, per capire le  cose e ripeterle uguali. Le spiegazioni lunghe e le smancerie, questi tipi di madre le riservano ai figlioli altrui, giudicati lenti di comprendonio e meno svegli, se non del tutto ottusi.
Questo approccio educativo, che non definirei montessoriano, ha fatto si che io abbia cercato di affrancarmi il prima possibile da mamma e dalle  sue bisbetiche istruzioni d’uso della vita. O almeno così mi era sembrato, prima di essere colta dal dubbio che dietro la mia emancipazione , ancora una volta,  ci fosse  lo  zampino della mia genitrice. Proprio così:senza troppe parole, a furia di sguardi d’intesa, di silenzi , di fiducia accordata, così come mi ha insegnato a far di conto o a lavare i piatti, mi ha resa adulta, e pienamente, orgogliosamente, indipendente.
 Dirò di più: quando mi sono accorta che progressivamente i ruoli si invertivano e sempre più spesso ero io a vestire i panni della bisbetica maestrina, spazientita dalla lentezza di mia madre nell’ apprendere le nuove cose, ho avuto la certezza che la sua linea educativa, sebbene non da assolvere a pieni voti, non fosse neppure da archiviare.
“Mamma efficiente fa il figlio deficiente”, questo è stato il motto di mia madre. Questa la giustificazione, allora criptica, con cui lasciava cadere nel vuoto le mie richieste di essere sollevata da un compito, giudicato da me troppo gravoso, che mi aveva affidato.
Quando, tempo dopo,  ho provato io a sottrarmi alle sue richieste di aiuto, capovolgendo la proposizione  e sostenendo che “anche la figlia efficiente rende la mamma deficiente”, mi ha risposto che non sono possibili ribaltamenti, con i termini invertiti quella frase perde il rigore logico.

Ci ho riflettuto e  ho capito che ancora una volta aveva ragione lei. Un genitore, a meno che per ragioni di salute ne sia impossibilitato, non perde la capacità di prendersi cura materialmente di se stesso, ne’ si trasforma in un imbranato, bensì pian piano  si arrende volontariamente all’ efficienza, all’ acume, alla preparazione dei figli.
A ben pensarci il vero spartiacque tra la mia generazione e quelle precedente è rappresentato dal ruolo di tramite,  tra il proprio genitore e la modernità, che i nostri genitori hanno svolto  e che, d’altro canto , ha permesso loro di divenire adulti . Prima ancora che Freud e la psicanalisi spiegassero la faccenda del parricidio necessario per crescere, i nostri padri e le nostre madri  si ritrovarono uomini e donne fatti, leggendo  e scrivendo per conto dei loro genitori analfabeti, sintonizzando  i canali dei primi televisori per i famigliari, scarrozzando in macchina,  da neopatentati, la famiglia nelle gite domenicali.

Allora ho capito che è giunta la mia ora. Innegabile che i tempi moderni richiedano di stare sempre al passo, di colmare velocemente i gaps per non rimanere indietro, di adeguarsi alle nuove tecnologie, ma l’esigenza di crescita e di emancipazione dei ragazzi, dei nostri figli, è rimasta invariata.
Non voglio figlie deficienti, non desidero che siano meno  autonome, meno orgogliose, meno indipendenti di quanto non lo sia io. D’ora in poi comincerò a inciampare, a claudicare, a farmi aiutare. Attaccherò il mio costume da “ super mamma che tutto può e tutto fa” al chiodo, e lascerò che anche loro  godano del sottile piacere, della soddisfazione, del compiacimento che si prova nel superare il proprio maestro.
Viva la mia mamma e tutte le mamme  che rinunciano ai super poteri,
abbasso le mamme onniscienti ,  viva i figli  indipendenti!

FORZA NAPOLI, AMICI!

La vita è tutta una questione di equilibrio. Facile a dirsi, difficile a trovarsi. Un tentativo costante. Aggiungere e levare ora quest’elemento ora l’altro.
Fuor di metafora: sapete quanta fatica costa ad un tifoso medio mettere insieme il gruppo di amici a prova di iattura per la visione della partita di campionato?
Difficoltà di bilanciamenti che nemmeno il profumiere più esperto all’atto di miscelare le essenze per un nuovo profumo sperimenta.
Si parte tutti insieme alla prima di campionato senza preclusioni e preconcetti.
Schierati sul divano ci sono i vecchi amici di liceo con le rispettive consorti. Un fronte compatto, che tuttavia si scompaginerà non appena avrà inizio la sofferenza. Anime in purgatorio. Eccoli, vagare per la sala alla ricerca della sistemazione prodigiosa in grado di regalare l’agognata gioia di un gol. Perché –signori miei- l’assetto alchemico c’è, inutile negarlo. E’ un dato di fatto, è scienza. Ogni corpo nello spazio emana delle onde. Basta concentrare le fonti energetiche giuste in uno stesso luogo, sistemarle poi in punti strategici e la somma delle loro emissioni genererà il miracolo. E’ certissimo. Basta una sola presenza nefasta ad interrompere l’incanto.
Vada come vada, il battesimo di campionato resta solo un esperimento. L’intero gruppo avrà una seconda possibilità. Infatti la settimana seguente rieccolo, il medesimo campionario umano. Stessa squadra in campo, identica formazione in casa: che ciascuno debba occupare l’esatta postazione precedente, con cui si è propiziata la vittoria, è tacito accordo. Che si ricominci il pellegrinaggio in cerca di più fausti punti, nel caso in cui la volta prima si è sorbita una sconfitta, sottintesa necessità.
Ma se la serata va male e invece di soddisfazioni arrivano dolori, allora non c’è amicizia che tenga. Non c’è n’è per nessuno. Ostracizzare è un verbo debole, che non rende l’idea di cosa accade a colui che è in odor di portare iella. I più sensibili spontaneamente spariranno, in cerca altrove della fortuna. Altri, più duri di comprendonio, non saranno invece convocati. Ad essi subentreranno nuovi volti, in una sperimentazione che cesserà solo e unicamente quanto il famoso equilibrio di cui sopra sarà acclarato: squadra vincente non si cambia.
E allora il vero spettacolo non sarà quello alla televisione. Saranno loro, i vecchi amici di liceo. Facce fattesi nuove con gli anni che tradiscono le giovanili posture dell’animo. Chi segue il gioco in silenzio e in totale isolamento, ma di tanto in tanto ha bisogno di alzare lo sguardo verso i vecchi compagni di scorribande in cerca di conforto. Chi paonazzo digrigna il volto in un sorriso che sa di sofferenza, chi blatera e sbatte i pugni buttando giù qualche bestemmia.
La vita è tutta una questione di equilibri. E allora vada come vada, la soddisfazione di quel tifoso medio sta nell’averci almeno tentato.
Con quale esito, non lo diciamo. Per scaramanzia attendiamo la fine del campionato.

venerdì 15 gennaio 2016

LA SUPERLATIVA MARIETTA


Che persona Marietta. Un metro e cinquanta di donna, di quelle minute ma ben proporzionate. Tutto al posto giusto. “Una bambolina”, dicevano di lei, in gioventù.
C’è sempre stata nella mia vita. Da quando sono nata. Io sono di fine luglio, lei di giugno. Dunque alla mia nascita era già là ad aspettarmi.  Vicine di casa, vicine di banco. Amiche per la pelle.
Marietta è stata, per lungo tempo, superlativa in tutto.  Intelligentissima, praticissima, studiosissima. Qualsiasi cosa c’era da fare lei si rivelava, fin da subito, abilissima.  Nei rapporti umani era simpaticissima, gentilissima, apertissima. Le voci sulla sua eccezionalità si rincorrevano di bocca in bocca. La sua fama la precedeva ovunque, e comunque con benevolenza. Non una persona era in disaccordo sul fatto che tale popolarità fosse meritatissima.
E lei, lei si muoveva in quest’eccezionalità con grazia ed eleganza. Con naturalezza. Mai un atto di superbia o di arroganza.
Un bel mattino, però, Marietta si svegliò cambiata. In sogno aveva, infatti, ricevuto la visita di una fata vestita con i colori dell’arcobaleno. Volendola mettere alla prova, la maga era venuta a riprendersi quel superlativo di cui le aveva fatto dono alla nascita.
La mia amica non si perse d’animo. Pensò subito di rimpiazzare il superlativo con degli avverbi. Si alzò quindi velocemente, preparò premurosamente la colazione ai figli e dolcemente li svegliò.
Continuò la sua vita  a questa maniera,  per lungo tempo. Per ogni azione da compiere sfoderava l’avverbio giusto. Se c’era da sorridere, lo faceva gentilmente. Se c’era da scusarsi, garbatamente. Visse così, attivamente, laboriosamente, diligentemente e allegramente fino alla notte in cui la maga tornò a visitarla in sogno di nuovo.
Un’altra prova da superare. Al risveglio, la cara Marietta si trovò priva anche degli avverbi.
Dopo un attimo di smarrimento, si ingegnò anche questa volta a trovare una soluzione.
Senza superlativi e senza avverbi l’unica risorsa potevano essere i predicati nominali. “Sono sveglia”, si disse, aprendo gli occhi al mattino, “sono riposata e desiderosa di cominciare la giornata”.
Non c’è persona al mondo che abbia fatto fruttare il predicato nominale meglio e più di Marietta. “Sono contenta di vederti” diceva a quanti le capitava di incontrare.  “Sono felice di aiutarti”, se vuoi. “Sono determinata”. “Sono pronta”. “Sono onorata”.
Per la terza volta la maga tornò in sogno. Questa volta non per prendere, bensì per restituire. Al suo risveglio Marietta ritrovò gli avverbi e tutti i suoi vecchi superlativi a lungo spariti.
 Aveva ampiamente meritato quei doni dimostrando di essere, e non semplicemente di farci.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...