Dopo anni di esilio dorato mi sono imposta di uscire per qualche ora da Fb. Sono andata in gita su un altro social media. Naturalmente non ho scelto a caso. Memore della pubblicità che tempo addietro dissuadeva dal “fai da te” prima ho spulciato ben bene il web. Desiderosa di esplorare luoghi esotici e incontaminati ho subito escluso gli spazi con formula all inclusive. Volevo un prodotto di nicchia, una roba di qualità. Gira che ti rigira, ecco individuato il mio obiettivo.
Gli indici da cui riconoscere quello giusto, inequivocabili. Grafica minimal come da ultime tendenze. Colore predominante verde: abbiamo capito ormai che il rosso ha fatto il suo tempo. Regole e sistemi di condivisione complicatissimi.
Nonostante i miei ormai “anta” anni e il fatto che vesta da tempo una maschera di sfrontatezza, resto deep inside una timida. Mi porto appresso, indelebile impronta genetica, lo scuòrno dei nati “popolani”. L’ insicurezza che diventa titubanza a varcare ogni porta metaforica o reale, nervosismo negli ambienti sconosciuti, disagio a socializzare.
Il login l’ho vissuto come un travaglio. Passare la “fringe” è stato scioccante. La faccenda non si è semplificata nemmeno in corso di navigazione: le norme d’ingaggio della flotta stellare al confronto delle regole di questo “gioco”, quisquilie.
Dio solo lo sa l’impegno che mi è costato arrivare al primo post nella mia lingua. Seguendo la scia di “segnalazioni”, su cui il social si basa, ho palleggiato tra vari articoli per risalire infine agli illustri frequentatori. Tutti tipi fighi, gente colta, con interessi letterari e roba simile. Persone di altissimo profilo, letteralmente. Nessuno che non vanti roboanti impieghi culturali. Le brevi presentazioni semplici, scanzonate eppure serie, tutte perfette, come da manuale mangiato e digerito. Ho tentato, in un impeto di sconsideratezza o delirio di ambizione o di entrambe -fare voi- l'interazione. Ho “segnalato” un paio di pezzi altrui, ho cominciato a followare qualche nome e -cosa che mi costerà, immagino la derisione in eterno degli utenti - ho pubblicato due dei miei –se così si possono chiamare- racconti. Ho fatto –credo- tutto ciò che ogni cafone degno di questo nome fa entrando per la prima volta al Grand Hotel. Se è possibile violare con un solo clik tutte le direttive della netiquette, credo di aver commesso, inconsapevolmente, il fatto.
Poi, proprio come accadeva in quelle estenuanti scampagnate domenicali cui mi sottoponevano da bambina, stanca e afflitta, me ne sono tornata a casa.
La travagliata puntata fuori porta non mi è bastata. Il giorno seguente, non paga, ci ho riprovato. Confesso l’intima e umanissima speranza che mi ci ha spinto: la possibilità che durante l'assenza qualcuno avesse finalmente notato la mia presenza. Macché. Un ectoplasma di un brutto incubo notturno, al mio confronto in quell'ambiente, vanta una consistenza a dir poco marmorea. Preso allora atto che il servizio “chi ti caca” è stato inserito –come si dice in questi casi- con successo, ho infilato l'uscita e sono venuta via.
La verità è che sono abituata a facebook, equivalente social –diciamocelo francamente- del lido mappatella e in queste spiagge esclusive, dove la prima sensazione è di vuoto spinto, la seconda di solitudine cosmica, non mi ci ritrovo proprio. Grondante di sensi di colpa sono tornata qua. Attualmente sono in ginocchio, sopra i ceci e con il capo cosparso di cenere , che digito felice come una bimba i vostri nomi.