L’ignoranza
è una cosa brutta assai. Non ti fa capire bene le cose o, seppure ti
pare di averle capite, hai sempre paura di averle fraintese. Così se
qualcuno chiede il tuo parere su una questione, ti pare più opportuno
restare zitto.
Ultimamente si parla tanto di questa guerra santa. Ne parlano ai
telegiornali, nei programmi televisivi. Ne chiacchierano i politici,
gli scrittori. Dopo i fatti che sono successi a Parigi ognuno dice la
sua sui morti e i terroristi. C’è chi dice che ognuno deve poter
esprimere ciò che gli pare sempre e comunque, e che noi dobbiamo
difendere questa libertà fondamentale uniti, insieme. C’è chi sostiene
che questi mussulmani sono fanatici e devono tornare a casa loro. Che
possono stare insieme a noi solo se si comportano uguale uguale a noi.
Io mo’ non so se ho capito tutto bene. Non so se i miei pensieri sono
giusti o sono sbagliati. Ho vergogna a dirli, ma già che lo sostengono
tutti che la libertà di parola è sacra, mo’ li confesso pubblicamente
pure io i miei.
Sono anziana e come ho detto ignorante. Però la guerra santa io lo so
com’è, quando uno ce l’ha in casa. Lo so quanto fuoco porta in una
famiglia quando mette i padri contro i figli e i figli contro i padri.
Voi penserete che ho perso un po’ la testa e mi confondo con
qualcos’altro. No, non mi sbaglio.
Quando ero bambina a casa di mamma e papà ci siamo avvelenati le
migliori feste comandate per le discordanti idee in fatto di religione
dei fratelli miei più grandi.
Siamo quattro figli, due maschi e due femmine, dei quali io sono la
minore.
Mamma era cattolica e l’unico strumento che aveva per calmare quegli
appiccichi quotidiani era la preghiera. Diceva di pregare ogni giorno e
appassionatamente per la conversione dei miei fratelli che tutti, tra
gli anni del liceo e quelli dell’università, si erano allontanati dalla
fede.
Evidentemente le sue orazioni erano assai potenti, perché nello stesso
periodo Maria e Gennaro rimasero per davvero folgorati e ritrovarono
la fede. Solo che mia sorella tornò alla chiesa cattolica mentre mio
fratello si fece Testimone di Geova. Quanto a Ciro, il maggiore,
studente in filosofia e comunista dichiarato, continuò a professarsi
ateo. Provate a immaginare tre menti pensanti, nel pieno della caparbia
gioventù, depositari ciascuno della propria verità che si
confrontavano, ma che dico, che si scontravano. Ma che dico
scontravano: quelli si scornavano proprio.
Tre cape, tre religioni. Si, perché credetemi, da quello che ho avuto
modo di osservare, anche l’ateismo è una fede con i suoi dogmi e i suoi
riti.
Mamma e papà erano credenti per consuetudine, oserei dire per mera
abitudine, quindi avevano la tolleranza tipica di chi si è ritagliato
una religiosità a misura della propria vita. Un credo aggiustato sulle
proprie debolezze e quotidiane necessità.
Gli intolleranti erano gli altri tre. Che ne fate dei talebani?
Ciro andava sbraitando in continuazione il fatto dell’oppio, che la
religione è come una droga, che non ti fa pensare con la mente tua. A me
pareva onestamente che manco i pensieri suoi erano del tutto
originali.
Ero troppo piccola secondo loro per poter intervenire nelle
discussioni. E infatti l’unico momento di accordo era quando,
interrompendo i litigi, mi gridavano in coro di stare zitta e farmi i
fatti miei.
Maria dal canto suo era diventata una sorta di monaca spogliata. Sempre
con il Rosario in mano a recitare orazioni e in cerca di una prova,
una manifestazione divina. Diceva di credere spiritualmente e non
essere come San Tommaso, quando invece si andava facendo tutte le
riunioni di certi gruppi che si chiamavano “Carismatici”. Gente che
diceva di aver ricevuto dallo Spirito Santo i carismi e in virtù di
quella benedizione parlava in certe presunte lingue antiche e imponeva
le mani per guarire i malati. E a chi non aveva nessuna malattia nel
fisico dicevano di guarire i mali dell’anima . Maria si metteva pure
lei a impetrare la grazia per la sua guarigione spirituale, con gli
occhi chiusi, le mani giunte, sotto la cupola dei carismatici intenti a
invocare lo Spirito Santo su di lei. Poi se ne tornava a casa ogni
volta un po’ delusa che a lei i “doni “non arrivavano ( e non sperava
in uno grande, che so’ “le guarigioni”, chè a lei bastava pure solo
“parlare le lingue strane”), e un po’ contenta, che nel corso di queste
preghiere veniva pure fuori un messaggio per lei: Dio le mandava
sempre a dire che era una creatura speciale, di animo puro e che
avrebbe visto il paradiso.
Gennarino, lui era la spina nel fianco di mammà.
Era stato da sempre il suo preferito. Le era affezionatissimo. Tanto
che pure quando si era professato agnostico (e già qua reclamava uno
status suo proprio, autonomo rispetto a Ciro, perché l’ateo e
l’agnostico, come voi ben sapete, non sono la stessa cosa), aveva
continuato per amor figliare ad accompagnarla a messa la domenica.
Era il figlio maschio più piccolo. Esteticamente anche quello venuto
meglio: biondo con gli occhi azzurri: un angelo.
Eppure quando, dopo la conversione, parlava di Geova diventava un
altro. Come fosse stato un robot - che so’- una scimmia ammaestrata.
Recitava a memoria la Bibbia. In ogni occasione. C’era un versetto per
tutti e tutto. Pure quando salivamo in ascensore assieme, partivamo dal
pulsante da bussare e finivamo a parlare di Geova. Al pomeriggio,
quando finiva di studiare, si vestiva di tutto punto e andava alla
“Sala del regno” o a fermare la gente per la strada, a fare
proselitismo. Tutta questa abnegazione fu premiata. Fece carriera:
divenne addirittura pastore. Si dannava, quel povero fratello mio al
pensiero che salvava tanti estranei mentre i suoi congiunti più
stretti, niente, non si facevano addomesticare e di quel passo sarebbero
finiti all’inferno. Lui già si vedeva ormai assiso nel regno degli
eletti di Geova guardare dall’alto noi, poveri esclusi. E siccome era
in fondo un grande egoista, io ho avuto sempre il sospetto che la
ragione profonda per cui si arrabbiasse era che, poiché comunque ci
voleva bene, era sicuro che con noi là sotto a soffrire non si sarebbe
goduto il paradiso. Secondo lui, avevamo trovato il modo di fargli un
dispetto eterno.
Cominciammo tutti, naturalmente, dato l’intemperanza e l’ostilità di
Gennarino, a detestare i testimoni di Geova. Quando capitava che la
domenica mattina suonassero alla porta, mamma mi mandava ad aprire di
nascosto, mentre teneva a bada papà. Io avevo il compito di liberarmene
in fretta, prima che quel Sant’uomo li scoprisse e venisse fuori
sbraitando che si dovevano vergognare a disturbare così la gente e che
erano degli sfascia-famiglie. Ciro e Maria presero a documentarsi, a
leggere ogni tipo di pubblicazione sulla setta e il suo fondatore nel
tentativo di trovare qualcosa, una strategia per fare rinsavire nostro
fratello.
Ciro non si capacitava che un ragazzo dotato e intelligente si fosse
lasciato abbindolare da quegli impostori. Secondo lui un laureando,
futuro dottore in giurisprudenza, a meno che non si fosse scimunito
aveva tutti gli strumenti e teneva il dovere difronte alla società di
emanciparsi dal laccio del fanatismo religioso. Mammà si sentiva punta
sul vivo quando si mettevano in dubbio le capacità intellettive del
figlio, e pronta replicava che la storia della cultura non c’entrava,
che pure il Papa teneva minimo una laurea, non era ne’ matto, ne’ scemo
eppure credeva in Nostro Signore.
La guerra, che pure viveva momenti di tregua, si acuiva ovviamente in
concomitanza con le feste comandate.
All’avvicinarsi del Natale, quando si tiravano fuori i simboli della
festa, il presepio, l’alberello, le due candele rosse ornamentali da
sistemare per la casa, Ciro gridava:-“ e accuminciamm pure quest’anno
con queste cretinate?” Mia sorella rispondeva che anche se il signore
deve nascere ogni giorno nei nostri cuori era importante ricordarlo con
i simboli della festa. Gennaro diventava diavolo. Si faceva grosso
come un leone feroce e diceva che noi volevamo rimanere lontani dalla
salvezza, che Geova non acconsentiva a quelle manifestazioni pagane. Un
anno al culmine della pazzia tentò di dare fuoco all’alberello che
mamma aveva sistemato sopra al tavolino di marmo del salotto. La povera
donna, che già da tempo aveva rinunciato a fargli pure gli auguri di
onomastico, per levare l’occasione, cancellò pure il Natale.
A
me, quello che mi è parso di capire vedendo i miei fratelli, è che
l’uomo quando cerca Dio in realtà è piuttosto alla ricerca di sé
stesso.
Aveva ragione mamma quando replicava a Ciro che la cultura, la laurea,
gli studi grossi, hanno a che fare poco o nulla con la fede e
soprattutto con la pratica religiosa. Credo piuttosto che sia una
questione di psicologia.
Ho sempre pensato che i miei fratelli fossero ciascuno a modo proprio
persone fragili. Cercassero attraverso Dio conferme su se stessi.
Ciro, con il suo ateismo, aveva trovato il modo di convincersi di non
aver bisogno di nessuno, di essere forte ed equilibrato. Di essere
l’arbitro del suo proprio destino.
Maria, come antidoto per la sua scarsa autostima, necessitava di quei
messaggi inviatile da Dio. Nella compostezza di una vita assolutamente
normale, dove nessuno mai si prendeva la briga di rassicurarla che
fosse importante, che la sua vita avesse un senso, si teneva ben
stretto il conforto della approvazione divina.
Il più debole era sicuramente Gennaro. Più che rincuorato sulla vita di
qua giù, lui inseguiva la certezza del paradiso. Voleva sentirsi più
che amato. Voleva sentirsi nel giusto. E quelli che sono nel giusto si
sentono investiti del compito di guidare e giudicare gli altri.
Ambizione, presunzione, orgoglio. Tra i suoi “fratelli” testimoni di
Geova, in quella sala del regno, riusciva a manifestare e ad appagare
quegli elementi della sua personalità che in famiglia invece noi
cercavamo di smorzare. E più si sentiva incompreso da noi, suoi nemici,
più diventava, in casa, integralista.
Ora, in conclusione, io credo, e mi dispiace dirlo, che il problema nel
mondo, come a casa mia, non sta nelle religioni ma resta nel cuore e
nella testa negli uomini.
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