martedì 12 gennaio 2016

UNA GUERRA DI RELIGIONE FATTA IN CASA

L’ignoranza è una cosa brutta assai. Non ti fa capire bene le cose o, seppure ti pare di averle capite, hai sempre paura di averle fraintese. Così se qualcuno chiede il tuo parere su una questione, ti pare più opportuno restare zitto. Ultimamente si parla tanto di questa guerra santa. Ne parlano ai telegiornali, nei programmi televisivi. Ne chiacchierano i politici, gli scrittori. Dopo i fatti che sono successi a Parigi ognuno dice la sua sui morti e i terroristi. C’è chi dice che ognuno deve poter esprimere ciò che gli pare sempre e comunque, e che noi dobbiamo difendere questa libertà fondamentale uniti, insieme. C’è chi sostiene che questi mussulmani sono fanatici e devono tornare a casa loro. Che possono stare insieme a noi solo se si comportano uguale uguale a noi. Io mo’ non so se ho capito tutto bene. Non so se i miei pensieri sono giusti o sono sbagliati. Ho vergogna a dirli, ma già che lo sostengono tutti che la libertà di parola è sacra, mo’ li confesso pubblicamente pure io i miei. Sono anziana e come ho detto ignorante. Però la guerra santa io lo so com’è, quando uno ce l’ha in casa. Lo so quanto fuoco porta in una famiglia quando mette i padri contro i figli e i figli contro i padri. Voi penserete che ho perso un po’ la testa e mi confondo con qualcos’altro. No, non mi sbaglio. Quando ero bambina a casa di mamma e papà ci siamo avvelenati le migliori feste comandate per le discordanti idee in fatto di religione dei fratelli miei più grandi. Siamo quattro figli, due maschi e due femmine, dei quali io sono la minore. Mamma era cattolica e l’unico strumento che aveva per calmare quegli appiccichi quotidiani era la preghiera. Diceva di pregare ogni giorno e appassionatamente per la conversione dei miei fratelli che tutti, tra gli anni del liceo e quelli dell’università, si erano allontanati dalla fede. Evidentemente le sue orazioni erano assai potenti, perché nello stesso periodo Maria e Gennaro rimasero per davvero folgorati e ritrovarono la fede. Solo che mia sorella tornò alla chiesa cattolica mentre mio fratello si fece Testimone di Geova. Quanto a Ciro, il maggiore, studente in filosofia e comunista dichiarato, continuò a professarsi ateo. Provate a immaginare tre menti pensanti, nel pieno della caparbia gioventù, depositari ciascuno della propria verità che si confrontavano, ma che dico, che si scontravano. Ma che dico scontravano: quelli si scornavano proprio. Tre cape, tre religioni. Si, perché credetemi, da quello che ho avuto modo di osservare, anche l’ateismo è una fede con i suoi dogmi e i suoi riti. Mamma e papà erano credenti per consuetudine, oserei dire per mera abitudine, quindi avevano la tolleranza tipica di chi si è ritagliato una religiosità a misura della propria vita. Un credo aggiustato sulle proprie debolezze e quotidiane necessità. Gli intolleranti erano gli altri tre. Che ne fate dei talebani? Ciro andava sbraitando in continuazione il fatto dell’oppio, che la religione è come una droga, che non ti fa pensare con la mente tua. A me pareva onestamente che manco i pensieri suoi erano del tutto originali. Ero troppo piccola secondo loro per poter intervenire nelle discussioni. E infatti l’unico momento di accordo era quando, interrompendo i litigi, mi gridavano in coro di stare zitta e farmi i fatti miei. Maria dal canto suo era diventata una sorta di monaca spogliata. Sempre con il Rosario in mano a recitare orazioni e in cerca di una prova, una manifestazione divina. Diceva di credere spiritualmente e non essere come San Tommaso, quando invece si andava facendo tutte le riunioni di certi gruppi che si chiamavano “Carismatici”. Gente che diceva di aver ricevuto dallo Spirito Santo i carismi e in virtù di quella benedizione parlava in certe presunte lingue antiche e imponeva le mani per guarire i malati. E a chi non aveva nessuna malattia nel fisico dicevano di guarire i mali dell’anima . Maria si metteva pure lei a impetrare la grazia per la sua guarigione spirituale, con gli occhi chiusi, le mani giunte, sotto la cupola dei carismatici intenti a invocare lo Spirito Santo su di lei. Poi se ne tornava a casa ogni volta un po’ delusa che a lei i “doni “non arrivavano ( e non sperava in uno grande, che so’ “le guarigioni”, chè a lei bastava pure solo “parlare le lingue strane”), e un po’ contenta, che nel corso di queste preghiere veniva pure fuori un messaggio per lei: Dio le mandava sempre a dire che era una creatura speciale, di animo puro e che avrebbe visto il paradiso. Gennarino, lui era la spina nel fianco di mammà. Era stato da sempre il suo preferito. Le era affezionatissimo. Tanto che pure quando si era professato agnostico (e già qua reclamava uno status suo proprio, autonomo rispetto a Ciro, perché l’ateo e l’agnostico, come voi ben sapete, non sono la stessa cosa), aveva continuato per amor figliare ad accompagnarla a messa la domenica. Era il figlio maschio più piccolo. Esteticamente anche quello venuto meglio: biondo con gli occhi azzurri: un angelo. Eppure quando, dopo la conversione, parlava di Geova diventava un altro. Come fosse stato un robot - che so’- una scimmia ammaestrata. Recitava a memoria la Bibbia. In ogni occasione. C’era un versetto per tutti e tutto. Pure quando salivamo in ascensore assieme, partivamo dal pulsante da bussare e finivamo a parlare di Geova. Al pomeriggio, quando finiva di studiare, si vestiva di tutto punto e andava alla “Sala del regno” o a fermare la gente per la strada, a fare proselitismo. Tutta questa abnegazione fu premiata. Fece carriera: divenne addirittura pastore. Si dannava, quel povero fratello mio al pensiero che salvava tanti estranei mentre i suoi congiunti più stretti, niente, non si facevano addomesticare e di quel passo sarebbero finiti all’inferno. Lui già si vedeva ormai assiso nel regno degli eletti di Geova guardare dall’alto noi, poveri esclusi. E siccome era in fondo un grande egoista, io ho avuto sempre il sospetto che la ragione profonda per cui si arrabbiasse era che, poiché comunque ci voleva bene, era sicuro che con noi là sotto a soffrire non si sarebbe goduto il paradiso. Secondo lui, avevamo trovato il modo di fargli un dispetto eterno. Cominciammo tutti, naturalmente, dato l’intemperanza e l’ostilità di Gennarino, a detestare i testimoni di Geova. Quando capitava che la domenica mattina suonassero alla porta, mamma mi mandava ad aprire di nascosto, mentre teneva a bada papà. Io avevo il compito di liberarmene in fretta, prima che quel Sant’uomo li scoprisse e venisse fuori sbraitando che si dovevano vergognare a disturbare così la gente e che erano degli sfascia-famiglie. Ciro e Maria presero a documentarsi, a leggere ogni tipo di pubblicazione sulla setta e il suo fondatore nel tentativo di trovare qualcosa, una strategia per fare rinsavire nostro fratello. Ciro non si capacitava che un ragazzo dotato e intelligente si fosse lasciato abbindolare da quegli impostori. Secondo lui un laureando, futuro dottore in giurisprudenza, a meno che non si fosse scimunito aveva tutti gli strumenti e teneva il dovere difronte alla società di emanciparsi dal laccio del fanatismo religioso. Mammà si sentiva punta sul vivo quando si mettevano in dubbio le capacità intellettive del figlio, e pronta replicava che la storia della cultura non c’entrava, che pure il Papa teneva minimo una laurea, non era ne’ matto, ne’ scemo eppure credeva in Nostro Signore. La guerra, che pure viveva momenti di tregua, si acuiva ovviamente in concomitanza con le feste comandate. All’avvicinarsi del Natale, quando si tiravano fuori i simboli della festa, il presepio, l’alberello, le due candele rosse ornamentali da sistemare per la casa, Ciro gridava:-“ e accuminciamm pure quest’anno con queste cretinate?” Mia sorella rispondeva che anche se il signore deve nascere ogni giorno nei nostri cuori era importante ricordarlo con i simboli della festa. Gennaro diventava diavolo. Si faceva grosso come un leone feroce e diceva che noi volevamo rimanere lontani dalla salvezza, che Geova non acconsentiva a quelle manifestazioni pagane. Un anno al culmine della pazzia tentò di dare fuoco all’alberello che mamma aveva sistemato sopra al tavolino di marmo del salotto. La povera donna, che già da tempo aveva rinunciato a fargli pure gli auguri di onomastico, per levare l’occasione, cancellò pure il Natale.
A me, quello che mi è parso di capire vedendo i miei fratelli, è che l’uomo quando cerca Dio in realtà è piuttosto alla ricerca di sé stesso. Aveva ragione mamma quando replicava a Ciro che la cultura, la laurea, gli studi grossi, hanno a che fare poco o nulla con la fede e soprattutto con la pratica religiosa. Credo piuttosto che sia una questione di psicologia. Ho sempre pensato che i miei fratelli fossero ciascuno a modo proprio persone fragili. Cercassero attraverso Dio conferme su se stessi. Ciro, con il suo ateismo, aveva trovato il modo di convincersi di non aver bisogno di nessuno, di essere forte ed equilibrato. Di essere l’arbitro del suo proprio destino. Maria, come antidoto per la sua scarsa autostima, necessitava di quei messaggi inviatile da Dio. Nella compostezza di una vita assolutamente normale, dove nessuno mai si prendeva la briga di rassicurarla che fosse importante, che la sua vita avesse un senso, si teneva ben stretto il conforto della approvazione divina. Il più debole era sicuramente Gennaro. Più che rincuorato sulla vita di qua giù, lui inseguiva la certezza del paradiso. Voleva sentirsi più che amato. Voleva sentirsi nel giusto. E quelli che sono nel giusto si sentono investiti del compito di guidare e giudicare gli altri. Ambizione, presunzione, orgoglio. Tra i suoi “fratelli” testimoni di Geova, in quella sala del regno, riusciva a manifestare e ad appagare quegli elementi della sua personalità che in famiglia invece noi cercavamo di smorzare. E più si sentiva incompreso da noi, suoi nemici, più diventava, in casa, integralista. Ora, in conclusione, io credo, e mi dispiace dirlo, che il problema nel mondo, come a casa mia, non sta nelle religioni ma resta nel cuore e nella testa negli uomini.

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