Mark Twain disse: “Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe”.
Come spesso accade, anche nel caso dell’olocausto armeno, è stata la letteratura a dotare la verità del paio di scarpe necessario a incamminarsi verso la luce. Lo ha fatto attraverso una serie di romanzi coraggiosi, che hanno dato voce ai racconti di drammatiche vicissitudini personali e familiari, già a pieno titolo pagine di storia.
La Maschera della verità, di Pınar Selek, traduzione di Manuela Maddamma , uscita lo scorso aprile per le edizioni Fandango, è l’ultima in ordine cronologico, tra le opere narrative che contribuiscono a squarciare il velo di menzogne teso intorno a tale biasimevole pagina del recente passato.
Pınar Selek, sociologa e attivista nata ad Istanbul nel 1971 da famiglia progressista, con il suo romanzo La maschera della verità, ci guida, in maniera esplicita e dettagliata, alla comprensione di come in Turchia sia percepita la questione del genocidio.
Novanta pagine intense, che si aprono dichiarando la volontà di testimoniare, con le parole del cuore, la damnatio memoriae calata per ordine del governo, come una scure, sulle vicende di quelle genti.
I professori, a scuola, indottrinano gli alunni a classificare l’assassinio degli armeni come risposta inevitabile alle uccisioni perpetrate da questi ribelli. Le organizzazioni di sinistra, abituatisi anch’essi a negare la strage, l’archiviano come questione attizzata dagli imperialisti per rendere meno compatto il popolo. Gli stessi Armeni, infine, per sopravvivere, rinunciando persino ai propri nomi e camuffandosi tra i turchi, scelgono di divenire invisibili.
Con una scrittura riflessiva e vibrante Pınar Selek ricostruisce la propria presa di coscienza della presenza armena in Turchia, partendo dagli anni scolastici fino a quelli duri del carcere e ai successivi dell’amicizia con Hrant Dink, giornalista armeno assassinato nel 2007.
È Istanbul, dove furono deportati dal governo molti dei superstiti, la prima a indicarle le presenze mimetiche degli Ermeni , svelandole il segreto, ormai insostenibile, che porta su quella memoria vietata. Con la militanza politica giunge poi lo smascheramento del nazionalismo -sorta di monismo che prevale in ogni campo inquinando le possibilità di una indipendente circolazione delle idee- a suggerirle di fare conoscenza con L’Armenia.
Ogni viaggio verso la verità deve essere intrapreso. Non importa quando faticosi siano i passi e quanto dolore arrechino. Questa la lezione che sembra volerci suggerire la Selek, da anni costretta all’esilio per le sue scelte dissidenti. Sebbene il testimoniare non riporti indietro le persone scomparse, non di meno è sempre necessario indossare la maschera della verità. Produrrà in noi un’intima, benefica trasformazione che ci renderà più liberi, più felici, più forti: unica cosa che abbia reale valore
martedì 10 dicembre 2019
Persone normali. Sally Rooney
L'ho finito in un giorno e mezzo. Parte in sordina. All'inizio ti chiedi che cosa ci faccia tu nell'ennesimo libro all'acqua e sapone. Ti sembra una scrittura piatta, superficiale. Poi pian piano, dialogo dopo dialogo viene fuori il carattere. Viene fuori la storia, vengono fuori i personaggi e viene fuori la vita. Normale. Normale però non è niente, soprattutto la bravura di Sally Rooney.
Non avevo creduto all'euforia di chi me lo aveva consigliato. Diffido spesso degli squilli si trombe. So che molti giudicheranno allo stesso modo il mio giubilo.
Come sempre vale un unico consiglio: provare per credere:
Persone normali di Sally Rooney edizioni Einaudi. Traduzione Maurizia Balmelli
lunedì 9 dicembre 2019
Febbre di Jonathan Bazzi
Il 2019 segna un importante novità nella politica di assegnazione del titolo di “Libro dell’anno” di Fahrenheit (Radio3 Rai).
Nell'ottica di "colmare un deficit di attenzione verso un territorio attraversato da molte difficoltà, ma anche in continuo fermento", si è scelto di dedicare il premio all'editoria indipendente.
Ad inaugurare il nuovo corso, aggiudicandosi il riconoscimento dopo un testa a testa con colleghi di altrettanto elevato spessore -tra gli altri Zandomeneghi con "Il giorno della Nutria" di cui avevo qui scritto e Alessio Forgione "Napoli mon amour ", commentato invece qui- Jonathan Bazzi con il suo Febbre, edito da Fandango.
Romanzo limpido, dove con una voce intima ma stentorea il protagonista si racconta senza sovrastrutture, appunto limpidamente.
Non mi addentrerò ne' nella trama, ne' scandaglierò altri elementi della scrittura. Dirò solo uno dei motivi per i quali, secondo me, dovreste leggere il libro.
Ricordate il meraviglioso incipit di “Tre uomini in barca (per tacere del cane)”, Jerome K. Jerome?
È strano, ma non mi avviene mai di leggere un annuncio di specialità brevettate, senza sentirmi tratto alla conclusione d’essere affetto dalla peculiare malattia — nella sua forma più virulenta — che forma il soggetto dell’annuncio. A ogni modo, la diagnosi par che corrisponda sempre esattamente a tutte le mie particolari sensazioni.
Ricordo d’esser andato un giorno al British Museum a leggere il trattamento di un piccolo malanno del quale avevo qualche leggero attacco — credo che fosse la febbre del fieno. Mi feci dare il libro, e lessi tutto quello che dovevo leggere; e poi, in un momento d’oblio, voltai oziosamente le pagine e cominciai a studiare indolentemente le malattie in generale. Non ricordo più il primo morbo nel quale m’immersi — so che era un pauroso flagello devastatore — e prima che avessi dato un’occhiata a una metà della lista dei «sintomi premonitori», ero già bell’e convinto di esserne affetto."
Ebbene, anche solo per dare uno sguardo a come Bazzi scandaglia l'universo dell'ipocondria nel primo capitolo del libro, nella parte, cioè, in cui i medici ipotizzano una sua malattia immaginaria, il prezzo del biglietto è ricompensato. Quella sezione del romanzo, infatti, è, per sincerità e acutezza, una delle rappresentazioni letterarie più felici dell'ipocondria, insieme a quella di Jerome K. Jerome -tenuta in debito conto la diversità dei registri narrativi, lontanissimi tra loro, intimista e sofferto quello di Bazzi, ironico/sarcastico quello di Jerome- escludendo un outsider come Argante di Molière, che si possono trovare in circolazione.
mercoledì 16 ottobre 2019
La maschera della verità di Pınar Selek
mercoledì 7 agosto 2019
Toni Morrison. Prolusione al Premio Nobel, 7 dicembre 1993
Prolusione al Premio Nobel, 7 dicembre 1993
«C’era una volta una vecchia. Cieca, ma saggia». O era un vecchio? Forse un guru. O un griot che ha il compito di calmare i bambini irrequieti. Ho sentito questa storia, o proprio una come questa, nella tradizione di diverse culture. «C’era una volta una vecchia. Cieca. Saggia». Nella versione che io conosco la donna è la figlia di schiavi, neri, americani, e vive sola in una piccola casa fuori città. La sua reputazione per saggezza è senza pari e fuori questione. Fra la sua gente è la legge e la sua trasgressione. L’onore e il timore reverenziale in cui è tenuta vanno oltre il vicinato, fino a luoghi molto distanti; fino alla città dove l’intelligenza dei profeti rurali è la fonte di un grande divertimento. Un giorno la donna riceve la visita di alcuni giovani intenzionati a dimostrare falsa la sua chiaroveggenza e mostrare la frode quale essi credono che ella sia. Il loro piano è semplice; essi entrano nella casa e le fanno una domanda la cui risposta si basa sulla differenza fra lei e loro, una differenza che essi considerano una grave invalidità: la sua cecità. Essi stanno dritti davanti a lei, e uno di loro dice: «Vecchia, io tengo in mano un uccello. Dimmi se è vivo o morto.» Ella non risponde, e la domanda viene ripetuta. «L’uccello che ho in mano è vivo o morto?» Ella non risponde ancora. È cieca e non può vedere i suoi visitatori, tantomeno ciò che hanno in mano. Non sa il loro colore, genere o provenienza. Sa solo il motivo per cui sono venuti. Il silenzio della vecchia donna è così lungo che i giovani fanno fatica a trattenersi dal ridere. Finalmente ella parla e la sua voce è dolce ma sicura. «Io non so», dice. «Non so se l’uccello è morto o vivo, ma so che è nelle vostre mani. È nelle vostre mani». La sua risposta può significare: se è morto, o l’avete trovato così, o l’avete ucciso. Se è vivo, voi potete ancora ucciderlo. Se rimane vivo è per una vostra decisione. In ogni caso questa è vostra responsabilità. Per essersi pavoneggiati del loro potere e dell’impotenza di lei, i giovani visitatori vengono rimproverati, e vengono accusati di essere responsabili non solo dell’atto di scherno, ma anche del piccolo gruzzolo di vita sacrificato per raggiungere il suo scopo. La donna cieca sposta l’attenzione dalle rivendicazioni di potere allo strumento attraverso il quale quel potere viene esercitato. La meditazione su ciò che (oltre che il suo fragile corpo) quell’uccello nella mano poteva 2 significare ha sempre esercitato un’attrazione su di me, ma soprattutto pensandoci ora, a come sono stata, e al lavoro che faccio e che mi ha portato a questa compagnia. Così scelgo di leggere l’uccello come il linguaggio e la donna come uno scrittore in attività. Ella è preoccupata per come il linguaggio nel quale sogna, che le è stato dato alla nascita, è manipolato, utilizzato, perfino sottrattole per determinati propositi scellerati. Essendo una scrittrice pensa che il linguaggio sia in parte come un sistema, in parte come una cosa vivente sulla quale si ha il controllo, ma soprattutto come un’azione – come un atto che porta a delle conseguenze. Così la domanda che i ragazzi le fanno: «È vivo o morto?» non è una domanda impossibile, perché ella pensa che la lingua sia suscettibile di morire, di essere cancellata; certamente di essere messa in pericolo, e di essere salvabile solo con uno sforzo di volontà. Ella crede che se l’uccello nelle mani dei ragazzi che sono venuti a visitarla è morto, coloro che lo hanno in mano ne sono responsabili. Per lei una lingua morta non è solo una lingua non più parlata o scritta, ma è una lingua nella quale la rigidità del contenuto ne desidera la sua stessa paralisi. Come la lingua statale, censurata e censurante. Spietata nei suoi doveri in funzione poliziesca, non ha nessun desiderio o proposito che non sia quello di conservare libero il campo del suo narcisismo narcotizzante, la sua propria esclusività e il suo proprio dominio. Anche se è moribonda, tuttavia non è senza effetto perché essa attivamente inibisce l’intelletto, spegne la coscienza, sopprime il potenziale umano. Non essendo aperta ad alcuna sorta di dubbio, non può formare né tollerare nuove idee, dare vita ad altri pensieri, raccontare un’altra storia, riempire sconcertanti silenzi. La lingua ufficiale costruita per sancire l’ignoranza e conservare il privilegio è una corazza lucidata per colpire col suo luccichio, un involucro dal quale il cavaliere se n’è uscito da molto tempo. Eppure c’è: stupida, predatoria, sdolcinata. E suscita il rispetto negli scolari, fornisce riparo per i despoti, evoca false memorie di stabilità, armonia fra la gente. Ella è convinta che quando la lingua muore, per trascuratezza, disuso, indifferenza e assenza di considerazione, o uccisa per decreto, non solo lei stessa, ma tutti coloro che la usano e la costruiscono sono responsabili per il suo decesso. Nel suo paese i ragazzi si sono morsi la lingua e usano proiettili invece di ripetere i suoni dell’inesprimibilità, del linguaggio disabile e invalidante, del linguaggio che gli adulti hanno abbandonato completamente come mezzo per afferrare il significato, fornire una guida o esprimere amore. Ma ella sa che il suicidio della lingua non è solo la scelta dei bambini. È comune fra le teste infantili dello stato e i mercanti di potere il cui linguaggio espulso li lascia senza più accesso a quello che è rimasto dei loro istinti umani affinché possano parlare solo a quelli cui devono obbedire o per costringere all’obbedienza. Il sistematico saccheggio del linguaggio può essere riconosciuto nella tendenza di coloro che lo usano facendo a meno delle sue proprietà maieutiche come le sfumature, la complessità, per minaccia e assoggettamento. Il linguaggio oppressivo fa qualcosa di più che rappresentare la violenza; è la violenza; fa qualcosa di più che rappresentare i limiti della conoscenza; limita la conoscenza. Se è il linguaggio che offusca lo stato o il falso linguaggio dei media stupidi; se è 3 l’orgoglioso ma imbalsamato linguaggio dell’accademia o il comodo linguaggio della scienza; se è il linguaggio maligno della legge senza etica, o il linguaggio fatto apposta per discriminare le minoranze, nascondere il suo razzistico saccheggio nella sua sfrontatezza letteraria – esso deve essere rifiutato, modificato e palesato. È il linguaggio che beve sangue, che piega le vulnerabilità, che nasconde i suoi stivali fascisti sotto crinoline di rispettabilità e patriottismo e si muove in fretta e furia verso la linea inferiore e verso le menti inferiori. Linguaggio sessista, linguaggio razzista, linguaggio teistico – tutti sono linguaggi tipici della politica del dominio, e non possono, non permettono nuove conoscenze né incoraggiano il mutuo scambio di idee. La vecchia è vivamente consapevole che nessun intellettuale mercenario, né insaziabile dittatore, né politico pagato o demagogo; nessun falso giornalista sarebbe persuaso dai suoi pensieri. C’è e ci sarà uno stimolante linguaggio per tenere i cittadini armati e in armi; massacrati e massacranti nei supermercati, nei tribunali, uffici postali, nei parchi, nelle camere da letto e nei viali; rimescolando e rievocando un linguaggio per mascherare la pietà e lo spreco della morte inutile. Ci sarà un linguaggio più diplomatico per incoraggiare lo stupro, la tortura, l’assassinio. C’è e ci sarà un linguaggio più seducente, variato, fatto apposta per strozzare le donne, per stringere le loro gole come quelle delle oche che servono a produrre il paté, con le sue indicibili, trasgressive parole; ci sarà una maggior parte del linguaggio di sorveglianza mascherato da ricerca; di politica o di storia calcolato per sottomettere il dolore di milioni che non possono parlare; linguaggio reso attraente per far rabbrividire gli insoddisfatti e privato nell’assaltare i loro vicini; arrogante linguaggio pseudo empirico inventato per chiudere la gente creativa in gabbie di inferiorità e di disperazione. Sotto l’eloquenza, il fascino, le associazioni di studiosi, comunque rimescolanti o seducenti, il cuore di una tale lingua sta languendo, o forse non batte del tutto – se l’uccello è già morto. Ella ha pensato che cosa avrebbe potuto essere la storia intellettuale di una disciplina se non ci si fosse insistito sopra, o se non vi si fosse forzato dentro, lo spreco di tempo e di vita che le razionalizzazioni per e le rappresentazioni di predominio richiedevano – discorsi letali di esclusione che bloccano l’accesso alla cognizione sia per chi esclude sia per l’escluso. La saggezza convenzionale della storia della Torre di Babele è che il crollo fu una disgrazia. Fu la confusione, o il peso di molti linguaggi che fecero precipitare l’architettura sbagliata della torre. Un linguaggio monolitico ne avrebbe affrettato la costruzione e il cielo sarebbe stato raggiunto. Il cielo di chi, ella si chiede meravigliata? E di che genere? Forse raggiungere il Paradiso era prematuro, un po’ troppa fretta se nessuno aveva tempo di capire le altre lingue, altri punti di vista, altri modi di narrare. Veramente, il cielo che essi immaginavano l’avrebbero potuto trovare ai loro piedi. Complicato, certo, da chiedere, ma avrebbero visto il cielo come vita; non il cielo come termine della vita. Ella non vorrebbe lasciare i suoi giovani visitatori con l’impressione che la lingua dovrebbe essere costretta a vivere solo per esistere. La vitalità della lingua sta nella sua capacità di descri- 4 vere le vite reali, immaginate e possibili di chi la parla, la legge e la scrive. Sebbene la sua padronanza possa qualche volta sostituire l’esperienza, essa non è un suo sostituto. Essa crea un arco verso il luogo dove il significato può mentire. Quando un Presidente degli Stati Uniti pensava al cimitero che i suo paese era diventato, e diceva: «Il mondo farà poca attenzione e non ricorderà a lungo quello che diciamo qui. Ma non dimenticherà mai quello che hanno fatto qui,» le sue semplici parole rendono euforici nella loro capacità di sostenere la vita perché esse si rifiutarono di rinchiudere la realtà di 600.000 morti in una disastrosa guerra razziale. Rifiutando di immortalarli in un monumento, disdegnando la “parola finale”, la esatta “ricapitolazione”, e riconoscendo il loro “scarso potere di aggiungere o sottrarre”, le sue parole esprimono deferenza verso la impossibilità di afferrare la vita nel lutto. È la deferenza che la motiva, quel riconoscere che la lingua non può essere all’altezza della vita una volta per tutte. Né dovrebbe. La lingua non può “definire con precisione” la schiavitù, il genocidio, la guerra. Né dovrebbe struggersi per l’arroganza di essere capace di farlo. La sua forza, la sua felicità sta nell’arrivare verso l’inesprimibile. Sia essa grande o piccola, che scavi, che esploda, o che si rifiuti di sancire; che sia una risata o un grido senza alfabeto, la scelta della parola, il silenzio scelto, il linguaggio indisturbato si solleva verso la conoscenza, non la sua distruzione. Ma chi non sa che vi è una letteratura proibita perché si pone delle domande; screditata perché è critica; cancellata perché alternativa? E come molti scrittori sentano oltraggiati al pensiero di una lingua che si sia auto devastata? Il lavoro della parola è sublime, la vecchia pensa, perché è produttivo; questo significa che assicura la nostra differenza, la nostra umana differenza – il modo nel quale noi siamo, diversi da altre persone viventi. Noi moriamo. Questo può essere il significato della vita. Ma noi creiamo un linguaggio. Questo può essere la misura delle nostre vite. «C’era una volta, …» i giovani visitatori fanno alla vecchia una domanda. Chi sono essi, questi ragazzini? Che cosa hanno fatto di quell’incontro? Che cosa hanno sentito in quelle parole finali: «L’uccello è nelle vostre mani»? Una frase che apre verso una possibilità o che mette un chiavistello? Forse quello che i ragazzini hanno capito era: «non è un mio problema. Io sono vecchia, donna, nera, cieca. La saggezza che ho ora è quella di sapere che io non posso aiutarvi. Il futuro della lingua è vostro.» Essi stanno in piedi là. Supponete che non vi fosse nulla nelle loro mani? Supponete che la visita fosse solo un espediente, un trucco per ottenere che si parlasse di loro, per essere presi seriamente come non lo era mai stato prima? Una possibilità di irrompere nel, di violare il mondo adulto, il suo miasmatico discorso su di loro, per loro, ma mai diretto a loro? Urgenti domande sono al palo, compresa quella che essi hanno fatto: «L’uccello che abbiamo in mano è vivo o morto?» Forse la domanda significa: «Qualcuno può dirci che cosa è la vita? Che cosa è la morte?». Niente trucchi; nessuna stupidaggine. Una domanda diretta degna dell’attenzione 5 di una saggia. Una vecchia. E se la vecchia e la saggia che hanno vissuto la vita e affrontato la morte non possono rispondere, chi può? Ma lei non può; conserva il suo segreto; la sua buona opinione di se stessa; le sue gnomiche affermazioni; la sua arte senza impegno. Mantiene le distanze, le fa rispettare e si ritira nella singolarità dell’isolamento, in uno spazio sofisticato e privilegiato. Nulla, nessuna parola segue la sua dichiarazione di trasferimento. Il silenzio è profondo, più profondo del significato che si può ottenere dalle parole che ha detto. Mette un brivido, questo silenzio, e il ragazzini, annoiati, lo riempiono con un linguaggio inventato lì per lì. «Non c’è nessun discorso,» essi le chiedono, «nessuna parola che tu ci puoi dare, che ci possa aiutare ad aprirci un varco attraverso il tuo dossier di fallimenti? Attraverso l’istruzione ci hai appena dato ciò che non è per nulla istruzione perché noi abbiamo fatto molta attenzione a quello che hai fatto come pure a quello che hai detto? La barriera che hai eretto era generosità e saggezza? «Noi non abbiamo nessun uccello nelle nostre mani, né vivo né morto. Abbiamo solo te e la nostra importante domanda. È il niente nelle nostre mani che tu non riesci a vedere, e neppure a indovinare? Non ti ricordi da giovane quando il linguaggio era magico senza significato? Quando quello che potevi dire non aveva significato? Quando l’invisibile era ciò che l’immaginazione si sforzava di vedere? Quando le domande che richiedevano risposte bruciavano al punto che tu tremavi con furia se non le sapevi? «Dobbiamo cominciare ad avere consapevolezza con una battaglia, eroi ed eroine, come quella che hai già combattuto e perso lasciandoci con niente in mano tranne quello che avevi immaginato che ci fosse? La tua risposta è scaltra, ma la tua furbizia imbarazza noi e dovrebbe imbarazzare anche te. La tua risposta è indecente nella sua auto congratulazione. Uno scritto fatto per la televisione che non ha senso se non c’è nulla nelle nostre mani. «Perché non ci hai raggiunto, toccato con le tue soffici dita, ritardato un attimo di farci la lezione, almeno finché non sapessi chi eravamo? Ha disprezzato il nostro trucco, il nostro modus operandi che non potessi vedere quello che avevamo eluso per attirare la tua attenzione? Noi siamo giovani. Siamo immaturi. Abbiamo sentito per tutta la durata della nostra breve vita che dobbiamo essere responsabili. Che cosa significherebbe nella catastrofe in cui questo mondo è diventato; dove, come il poeta dice, “nulla deve essere esposto poiché è già chiaro.” La nostra eredità è un affronto. Tu vuoi che noi abbiamo i tuoi occhi vecchi, bianchi e vedere solo crudeltà e mediocrità. Pensi che siamo abbastanza stupidi da giurare il falso a noi stessi ancora e ancora fingendo una nazionalità? Come osi parlarci di dovere quando noi siamo immersi fino al collo nella tossina del tuo passato? Tu consideri insignificanti noi e l’uccello che non è nelle nostre mani. Non c’è nessun contesto per le nostre vite? Non musica, non letteratura, non poesie piene di vitamine, nessuna 6 storia connessa all’esperienza in differita con la quale ci aiuti a partire seriamente? Tu sei un adulto. La vecchio, la saggia. Smettila di pensare a salvare la tua faccia. Pensa alle nostre vite e parlaci dettagliatamente del tuo mondo. Raccontaci una storia. La narrazione è una radice, che crea noi proprio nel momento in cui essa è creata. Noi non ti biasimeremo se la tua capacità eccede la tua presa; se l’amore incendia così le tue parole che esse fuggono in fiamme e non lasciano nulla se non la loro ustione. O se, con la reticenza delle mani di un chirurgo, le tue parole fanno la sutura solo nei punti dove il sangue potrebbe scorrere. Noi sappiamo che non lo potrai fare correttamente – una volta per tutte. La passione non è mai abbastanza; e neppure è abile. Ma prova. Per nostra fortuna e tua dimentica il tuo nome per strada; dicci che cosa il mondo è stato per te nei momenti bui e alla luce. Non dirci quello che credi, che cosa temi. Mostraci la gonna larga e il punto che dipana l’amnio della paura. Tu, vecchia, benedetta con la cecità, puoi parlare la lingua che ci dice ciò che solo il linguaggio può dire: come vedere senza le immagini. Solo la lingua ci protegge dall’essere spaventoso delle cose senza nome. Solo la lingua è meditazione. «Dicci che cosa vuol dire essere donna in modo che possiamo sapere che cosa vuol dire essere uomo. Che cosa vuol dire muoversi ai margini. Che cosa vuol dire non avere casa in questo luogo. Essere sbandato da uno che conoscevi. Che cosa significhi vivere ai margini di città che non si addossano la tua compagnia. «Dicci qualcosa sul battello che si è allontanato dalla battigia a Pasqua, placenta in un campo. Dicci qualcosa sui vagoni carichi di schiavi, come essi cantavano così leggermente che il loro respiro era indistinguibile dalla neve che cade. Come essi sapevano dal piegarsi della spalla più vicina che la prossima fermata sarebbe stata l’ultima. Come, con mani giunte a preghiera sul loro sesso, essi pensavano al calore, e poi al sole. Alzando le facce come per trattenere. Girandosi come per trattenere. Essi si fermano alla locanda. Il guidatore e il suo collega entrano con la lampada lasciandoli canticchiare nel buio. Il vapore emesso dal naso del cavallo nella neve e il suo fischio e il suo sciogliersi sono l’invidia degli schiavi infreddoliti. «La porta della locanda si apre: una ragazza e un ragazzo escono dalla sua luce. Salgono sul vagone. Il ragazzo avrà un fucile fra tre anni, ma ora porta una lampada e un boccale di sidro caldo. Gli schiavi se lo passano da bocca a bocca. La ragazza offre pane, pezzi di carne e qualcos’altro: uno sguardo negli occhi di colui che serve. Un aiuto per ciascun uomo, due per ciascuna donna. E uno sguardo. Essi guardano indietro. La prossima fermata sarà l’ultima. Ma non questa. Questa è riscaldata.» C’è nuovamente silenzio quando i ragazzi hanno finito di parlare, finché la donna rompe il silenzio. «Finalmente», dice, «ora ho fiducia in voi. Penso proprio che l’uccello che non è nelle vostre mani voi non lo abbiate realmente catturato. Per quanto amabile, questa cosa l’abbiamo fatta – insieme».
mercoledì 26 giugno 2019
Stirpe. Marcello Fois
Stirpe di Marcello Fois è una bottiglia di ottimo filu de ferru. La storia che ci sta dentro, infatti, è un'acqua che arde, e che, sorso dopo sorso infiamma inesorabilmente chi ne beve.
Inizialmente un po' di difficoltà si avverte a buttarla giù, poi il palato si abitua e la sua poderosa gradazione alcolica diventa virtù, nerbo che si apprezza in funzione della scossa, all'emozione che ci trasmette. Ad entrare nelle pagine non è facilissimo. Robusto, il costrutto narrativo oppone una certa resistenza a chi ha la bocca fatta alla cedevolezza di certe scritture contemporanee votate alla scorrevolezza. Fois ci mette davanti ad una torre di pietre, ad un nuraghe. Eppure nemmeno lo spazio di una ventina di pagine e l'interno della costruzione si illumina per l'incedere vagamente poetico assunto dalla prosa, il racconto prende il sopravvento e la fatica va via.
Una splendida sorpresa questo "Stirpe" di Marcello Fois, capace di affezionare il lettore a una famiglia, al suo destino tragico, ordinario e straordinario insieme, alla sua storia impastata di saggia lucidità e credenze popolari.
Sullo sfondo Nur, Nuoro, la Sardegna e il Continente con le due guerre mondiali, l'Italia fascista e l'accenno ( splendida perla) all'episodio misconosciuto dell'affondamento del transatlantico Victoria, con il suo carico di Italiani e tedeschi emigranti, divenuti indesiderati nel Regno Unito in quanto nemici di guerra.
Inizialmente un po' di difficoltà si avverte a buttarla giù, poi il palato si abitua e la sua poderosa gradazione alcolica diventa virtù, nerbo che si apprezza in funzione della scossa, all'emozione che ci trasmette. Ad entrare nelle pagine non è facilissimo. Robusto, il costrutto narrativo oppone una certa resistenza a chi ha la bocca fatta alla cedevolezza di certe scritture contemporanee votate alla scorrevolezza. Fois ci mette davanti ad una torre di pietre, ad un nuraghe. Eppure nemmeno lo spazio di una ventina di pagine e l'interno della costruzione si illumina per l'incedere vagamente poetico assunto dalla prosa, il racconto prende il sopravvento e la fatica va via.
Una splendida sorpresa questo "Stirpe" di Marcello Fois, capace di affezionare il lettore a una famiglia, al suo destino tragico, ordinario e straordinario insieme, alla sua storia impastata di saggia lucidità e credenze popolari.
Sullo sfondo Nur, Nuoro, la Sardegna e il Continente con le due guerre mondiali, l'Italia fascista e l'accenno ( splendida perla) all'episodio misconosciuto dell'affondamento del transatlantico Victoria, con il suo carico di Italiani e tedeschi emigranti, divenuti indesiderati nel Regno Unito in quanto nemici di guerra.
mercoledì 22 maggio 2019
La più amata. Teresa Ciabatti
Vostro onore sono colpevole: a questo libro non ho reso sufficienti onori.
Intendo farne pubblica ammenda spiegando in breve il perché bisogna leggerlo.
L'edizione dello Strega 2017 è ormai bella che archiviata e l'oblio sta facendo il suo sporco lavoro buttando, libri e autori, nel dimenticatoio.
Eppure con ostinazione, e ne faccio una questione personale, mi preme tenere alta l'attenzione sul romanzo della Ciabatti che meritava di vincere.
Ero prevenuta contro l'autrice. Questione di preconcetti, faccenda di antipatie. In uno dei suoi pur rari passaggi televisivi, Lei, la donna, la scrittrice, il personaggio televisivo, mi era risultata antipatica: naturale che escludessi la possibilità di leggerla.
Invece poi mi ci sono imbattuta a "Pordenone legge" ed è scoccata la scintilla. A volte le antipatie si sviluppano in virtù di certe similitudini caratteriali: spesso con chi ci assomiglia -smentendo il detto- non ci si piglia. Evidentemente avevo colto nella Ciabatti degli elementi del mio carattere che poco apprezzo in me e che ho detestato anche in lei. Invece. Invece sentendola parlare di sé e con tanta franchezza e arguzia, le mie riserve sono cadute e ora la amo.
Che dire del romanzo: idem. Ne sono rimasta più che piacevolmente sorpresa: l' ho adorato. Di più: "La più amata" è il libro che avrei voluto scrivere io stessa. Sincero, lucido, con un ritmo nella scrittura pazzesco. Bello, bello, bello!.
Se vi capita, leggetelo, prima che le mode estemporanee dell'editoria se lo portino via. Merita.
Ottima Ciabatti, ottimo il romanzo.
Intendo farne pubblica ammenda spiegando in breve il perché bisogna leggerlo.
L'edizione dello Strega 2017 è ormai bella che archiviata e l'oblio sta facendo il suo sporco lavoro buttando, libri e autori, nel dimenticatoio.
Eppure con ostinazione, e ne faccio una questione personale, mi preme tenere alta l'attenzione sul romanzo della Ciabatti che meritava di vincere.
Ero prevenuta contro l'autrice. Questione di preconcetti, faccenda di antipatie. In uno dei suoi pur rari passaggi televisivi, Lei, la donna, la scrittrice, il personaggio televisivo, mi era risultata antipatica: naturale che escludessi la possibilità di leggerla.
Invece poi mi ci sono imbattuta a "Pordenone legge" ed è scoccata la scintilla. A volte le antipatie si sviluppano in virtù di certe similitudini caratteriali: spesso con chi ci assomiglia -smentendo il detto- non ci si piglia. Evidentemente avevo colto nella Ciabatti degli elementi del mio carattere che poco apprezzo in me e che ho detestato anche in lei. Invece. Invece sentendola parlare di sé e con tanta franchezza e arguzia, le mie riserve sono cadute e ora la amo.
Che dire del romanzo: idem. Ne sono rimasta più che piacevolmente sorpresa: l' ho adorato. Di più: "La più amata" è il libro che avrei voluto scrivere io stessa. Sincero, lucido, con un ritmo nella scrittura pazzesco. Bello, bello, bello!.
Se vi capita, leggetelo, prima che le mode estemporanee dell'editoria se lo portino via. Merita.
Ottima Ciabatti, ottimo il romanzo.
martedì 21 maggio 2019
Fratelli d'anima. David Diop
Magnetica la copertina.
Magnetiche la figura del soldato in primo piano e il colore dello sfondo.
Magnetici ed evocativi. La giovane recluta nera rimanda giocoforza all'Africa e alla guerra. Il rosso al sangue, che delle guerre è la tinta sovrana.
Magnetiche la figura del soldato in primo piano e il colore dello sfondo.
Magnetici ed evocativi. La giovane recluta nera rimanda giocoforza all'Africa e alla guerra. Il rosso al sangue, che delle guerre è la tinta sovrana.
Alfa Ndiaye è un francese del Senegal coloniale. È uno dei cioccolatini, orgoglio della Francia, a quali spetta un posto in prima fila nelle trincee del fronte europeo -siamo durante il primo conflitto mondiale- per terrorizzare i nemici durante gli attacchi.
Alfa Ndiaye è il protagonista di "Fratelli d'anima", di David Diop, Neri Pozza edizione, traduzione dal francese di Giovanni Bogliolo, romanzo già vincitore del premio Goncourt des Lycéens 2018, aggiudicatosi poi anche il Premio Strega Europeo 2019.
Alfa Ndiaye è il protagonista di "Fratelli d'anima", di David Diop, Neri Pozza edizione, traduzione dal francese di Giovanni Bogliolo, romanzo già vincitore del premio Goncourt des Lycéens 2018, aggiudicatosi poi anche il Premio Strega Europeo 2019.
Ben vengano i premi letterari. Contribuiscono a puntare i riflettori su pagine che altrimenti rischierebbero di cadere precocemente nel dimenticatoio con grave perdita per il lettore.
I pubblici riconoscimenti sono da accogliere, infatti, come suggerimenti di lettura. Se me lo fossi lasciata sfuggire, in questo caso, avrei continuato ad ignorare i termini del coinvolgimento del Senegal nella Grande Guerra, sarei rimasta all'oscuro di queste specifiche, tragiche implicazioni del suo legame coloniale con la Francia, ma soprattutto non avrei fatto la conoscenza con Alfa Ndiaye della finzione letteraria, in un incontro che -vi assicuro- segna.
David Diop, insegnate e scrittore nato in Francia, formatosi negli anni dell'infanzia e della prima giovinezza in Senegal, conoscitore del wolof, la lingua più diffusa in Senegal, l'unica che i tiratori senegalesi parlassero, l'unica nella quale si esprime Alfa Ndiaye, ha fatto sul suo protagonista un gran bel lavoro. L'essenzialità del registro lessicale di Alfa coniugata alla complessità dell' approfondimento psicologico compiuto, a livello emozionale annichiliscono il lettore, che, nonostante la crudeltà delle azioni compiute al fronte, del soldato finiscono per percepire esclusivamente il lacerante dolore e la solitudine disumanizzante.
Un romanzo non facile, sicuramente, ma di grande e travolgente bellezza.
I pubblici riconoscimenti sono da accogliere, infatti, come suggerimenti di lettura. Se me lo fossi lasciata sfuggire, in questo caso, avrei continuato ad ignorare i termini del coinvolgimento del Senegal nella Grande Guerra, sarei rimasta all'oscuro di queste specifiche, tragiche implicazioni del suo legame coloniale con la Francia, ma soprattutto non avrei fatto la conoscenza con Alfa Ndiaye della finzione letteraria, in un incontro che -vi assicuro- segna.
David Diop, insegnate e scrittore nato in Francia, formatosi negli anni dell'infanzia e della prima giovinezza in Senegal, conoscitore del wolof, la lingua più diffusa in Senegal, l'unica che i tiratori senegalesi parlassero, l'unica nella quale si esprime Alfa Ndiaye, ha fatto sul suo protagonista un gran bel lavoro. L'essenzialità del registro lessicale di Alfa coniugata alla complessità dell' approfondimento psicologico compiuto, a livello emozionale annichiliscono il lettore, che, nonostante la crudeltà delle azioni compiute al fronte, del soldato finiscono per percepire esclusivamente il lacerante dolore e la solitudine disumanizzante.
Un romanzo non facile, sicuramente, ma di grande e travolgente bellezza.
sabato 18 maggio 2019
Alba. Selahattin Demirtaș
"Alba", edizioni Feltrinelli, tradotto da Nicola Verderame è una raccolta di racconti scritti da Selahattin Demirtaș nella prigione in cui è detenuto per ragioni politiche dal 2016.
Ho vissuto in Turchia per tre anni durante i quali è maturato un profondo legame affettivo con il paese e la sua gente. Giocoforza mi attraggono i libri che, per qualche ora, mi riportano ai luoghi, agli usi e alle atmosfere turche.
I dodici racconti di Demirtaș sono state l'opportunità in cui speravo, sebbene si siano rivelati più che la tanto desiderata passeggiata, malinconica ma tutto sommato serena, un'escursione emotivamente molto impegnativa nel microcosmo della condizione femminile, che sintetizza e amplifica le contraddizioni e gli arcaismi sociali sopravvissuti nella moderna repubblica turca.
Semplici, al limite del naif per struttura narrativa, le storie entrano con discrezione, delicatezza, riguardo nelle vite di donne sfruttate, sole, infelici, lasciandosi apprezzare, oltre che per il valore di denuncia politica, anche per l'alta capacità di coinvolgimento.
Demirtaș è un politico che dimostra, in questo libro, anche buone doti di scrittore. Provare per credere.
Ho vissuto in Turchia per tre anni durante i quali è maturato un profondo legame affettivo con il paese e la sua gente. Giocoforza mi attraggono i libri che, per qualche ora, mi riportano ai luoghi, agli usi e alle atmosfere turche.
I dodici racconti di Demirtaș sono state l'opportunità in cui speravo, sebbene si siano rivelati più che la tanto desiderata passeggiata, malinconica ma tutto sommato serena, un'escursione emotivamente molto impegnativa nel microcosmo della condizione femminile, che sintetizza e amplifica le contraddizioni e gli arcaismi sociali sopravvissuti nella moderna repubblica turca.
Semplici, al limite del naif per struttura narrativa, le storie entrano con discrezione, delicatezza, riguardo nelle vite di donne sfruttate, sole, infelici, lasciandosi apprezzare, oltre che per il valore di denuncia politica, anche per l'alta capacità di coinvolgimento.
Demirtaș è un politico che dimostra, in questo libro, anche buone doti di scrittore. Provare per credere.
martedì 14 maggio 2019
Sembrava una felicità. Jenny Offill
Un lettore è innanzitutto un collezionista, il cui desiderio è arricchire con pezzi di pregio la propria raccolta. E’ andata decisamente bene a chi ha acquistato, “Sembrava una felicità” di Jenny Offill, traduzione di Francesca Novajra, che contrassegna un duplice esordio: quello della NN, neonata casa editrice milanese e quello della Offill, autrice statunitense al suo debutto in Italia.
(...)
La bellezza del piccolo gioiello che abbiamo tra le mani convince sulla bontà del progetto editoriale della NN.
Si può condensare in poco più di 168 pagine una vita? Pare proprio che alla Offill questo virtuosismo sia riuscito.
Docente di scrittura già apprezzata in America, Jenny Offill affida a una scrittura certamente non convenzionale la biografia di una donna, il cui destreggiarsi tra frustrate ambizioni giovanili, matrimonio, maternità e infine tradimento del coniuge, ne fanno un’eroina moderna. Di lei non conosciamo il nome. Le sue vicende non sono descritte in un flusso cronologico preciso. Sapremo che si è sposata, è divenuta madre e infine che ha subito il tradimento solo avendo riguardo alla parola che, di volta in volta, il soggetto narrante utilizzerà per riferirsi a sé. Un “Io” che diventerà ”la moglie”, prima di evolversi nel malinconico “lei” delle pagine finali, in cui sembrano trasferirsi tutta l’infelicità e lo smarrimento cagionatele dalla spersonalizzante vita coniugale.
La narrazione non si articola in capitoli, procede piuttosto attraverso l’annotazione di pensieri, di ricordi, di guizzi della coscienza e citazioni colte; elementi tutti che riportano il lettore costantemente alle proprie vicende personali, nell'evidenza che certi eventi e taluni sentimenti sono comuni a più. A chi, contemplando il suo primo amore dormire, non è venuto “da cantare a voce alta tutte le canzoni che passavano alla radio”? Chi non ha sperimentato “la rabbia che assomigliava ai fuochi d’artificio”?
Con una “scrittura per sottrazione”, priva del tutto di ridondanze retoriche, che tuttavia non si restringe mai dentro i confini di una prosa rigida e austera, la penna della Offill mantiene una tale fluida musicalità da rasentare a tratti un’armonia poetica. Mai indelicate o inopportune neppure l’ironia e la leggerezza con cui si sceglie di stemperare il peso di certi momenti.
“Sembrava una felicità”, dichiarato Libro dell’anno 2014 da The New York Times Book Review, The Observer, The Guardian, The Times Literary Supplement, è senza dubbio un libro da leggere tutto d’un fiato, ma anche un romanzo a cui concedere una seconda più attenta lettura. Il mondo, si doleva Keats, “non è un luogo accogliente nel quale salvare la propria anima”, al contrario di certi libri che paiono invece godere di tale impagabile privilegio.
Questo consiglio di lettura è apparso il 16 Maggio 2015 su Itali@Magazineonline
domenica 12 maggio 2019
Il grande amore di mia madre. Urs Widmer
Incontri che segnano.
Primo di una trilogia di romanzi dedicati rispettivamente alla madre, al padre e a se stesso, "Der Geliebte der Mutter" di Urs Widmer, pubblicato per la prima volta in Italia nel 2002 dalla Bompiani con il titolo di "L'uomo amato da mia madre", ritorna in libreria grazie alla Keller Editore, tradotto da Roberta Gado come "Il grande amore di mia madre".
A libro finito mi è salita alle labbra l'unica esclamazione possibile per un tale condensato di bravura: Urca!
Accidenti che romanzo.
In 159 pagine c'è tutto. Una narrazione funambolica, che affida alla delicatezza della favola la ruvidezza della vicenda biografica materna, con un risultato sorprendentemente potente. E poi amore, follia, condizione femminile, musica e cronaca storica del nazifascismo. L'odio? Purtroppo quello tocca al lettore. Quanto meno, nel mio caso, ce l'ho aggiunto io. Proprio non ce l'ho fatta a non detestare quel "grande amore" della madre, narciso senza cuore.
Primo di una trilogia di romanzi dedicati rispettivamente alla madre, al padre e a se stesso, "Der Geliebte der Mutter" di Urs Widmer, pubblicato per la prima volta in Italia nel 2002 dalla Bompiani con il titolo di "L'uomo amato da mia madre", ritorna in libreria grazie alla Keller Editore, tradotto da Roberta Gado come "Il grande amore di mia madre".
A libro finito mi è salita alle labbra l'unica esclamazione possibile per un tale condensato di bravura: Urca!
Accidenti che romanzo.
In 159 pagine c'è tutto. Una narrazione funambolica, che affida alla delicatezza della favola la ruvidezza della vicenda biografica materna, con un risultato sorprendentemente potente. E poi amore, follia, condizione femminile, musica e cronaca storica del nazifascismo. L'odio? Purtroppo quello tocca al lettore. Quanto meno, nel mio caso, ce l'ho aggiunto io. Proprio non ce l'ho fatta a non detestare quel "grande amore" della madre, narciso senza cuore.
La ragazza selvaggia. Laura Pugno
Breve appunti di delusione.
Una delle scoperte più piacevoli di questi ultimi anni è "Sirene" di Laura Pugno. Un romanzo al quale, per contenuto e forma, nonché lascito emozionale, assegnai un 10 e lode.
Quando mi è capitato tra le mani "La ragazza selvaggia", edizioni Marsilio, sull'onda della nostalgia per quella scrittura, non ho esitato a portarmelo a casa.
Non mi piace stroncare i libri e non sono in grado di farlo. Non ne faccio questione di autorevolezza o di ignavia. È piuttosto una questione di intimità. Riguardo i bei libri sento la necessità di condividere l'esperienza positiva. Quanto alle delusioni, invece, preferisco gestirle privatamente.Terrei per me l'amarezza, lasciandola macerare nel silenzio, anche questa volta. Ma il talento della Pugno merita una breve nota, anche se di perplessità.
Senza la robustezza delle idee e l'energia visionaria che hanno caratterizzato altri romanzi dell'autrice, la volontà di avvincere il lettore si esaurisce purtroppo in un tentativo poco convincente . "La ragazza selvaggia" è una storia esile, che procede forzatamente, come ingolfata. La scrittura, infatti, risentendo del vuoto di potenza creativa, scende gioco forza di tono. Una battuta d'arresto, sono sicura, estemporanea. Attendo, fiduciosa, la prossima prova.
Una delle scoperte più piacevoli di questi ultimi anni è "Sirene" di Laura Pugno. Un romanzo al quale, per contenuto e forma, nonché lascito emozionale, assegnai un 10 e lode.
Quando mi è capitato tra le mani "La ragazza selvaggia", edizioni Marsilio, sull'onda della nostalgia per quella scrittura, non ho esitato a portarmelo a casa.
Non mi piace stroncare i libri e non sono in grado di farlo. Non ne faccio questione di autorevolezza o di ignavia. È piuttosto una questione di intimità. Riguardo i bei libri sento la necessità di condividere l'esperienza positiva. Quanto alle delusioni, invece, preferisco gestirle privatamente.Terrei per me l'amarezza, lasciandola macerare nel silenzio, anche questa volta. Ma il talento della Pugno merita una breve nota, anche se di perplessità.
Senza la robustezza delle idee e l'energia visionaria che hanno caratterizzato altri romanzi dell'autrice, la volontà di avvincere il lettore si esaurisce purtroppo in un tentativo poco convincente . "La ragazza selvaggia" è una storia esile, che procede forzatamente, come ingolfata. La scrittura, infatti, risentendo del vuoto di potenza creativa, scende gioco forza di tono. Una battuta d'arresto, sono sicura, estemporanea. Attendo, fiduciosa, la prossima prova.
martedì 7 maggio 2019
Nati per correre. Adharandan Finn
«Forse dovresti scrivere.»
«Invece tu dovresti piantarla di leggere tutto ciò che è stato scritto.»
«E cosa dovrei fare nel tempo libero?»
«Immergerti nella vita vera.»
«C’è un libro che parla proprio di questo, sai.»
Di tutte le citazioni di Philip Roth questa è la mia preferita.
Di qualsiasi cosa si abbia bisogno: un oracolo, un maestro, uno specchio, un'approfondimento, siatene certi, da qualche parte nel mondo, c'è un volume che fa al caso vostro.
Sono arrivata a " Nati per correre" di Adharanand Finn, tradotto in italiano da Andrea Mazza per Sperling & Kupfer, partendo dalla notizia -nel cui merito non intendo entrare, invitando chiunque lo desideri ad approfondirla e, eventualmente verificarne l'epilogo consultando il web, che di tutto conserva indelebile ricordo- dell'impossibilità per gli atleti africani di iscriversi alla mezza maratona di Trieste del 5 maggio, riportata nei giornali il 27 aprile 2019.
Un fatto di cronaca, dunque, che mi ha sollecitato ad indagare due mondi di cui so poco: l'Africa, continente misconosciuto ( la cui storia, la cui geopolitica, usi e costumi in questi ultimi anni sono riuscita ad approfondire un minimo grazie a scrittrici del calibro di Chimamanda Ngotzi Adichi) e la corsa ( in cui, lo si evince in maniera inoppugnabile dai risultati delle competizioni sportive degli ultimi anni, dominano gli africani). Mi è bastato digitare sul motore di ricerca più diffuso tre termini:" +libro+corsa+Africa" e cliccare sul titolo che, tra quelli comparsi sullo schermo, mi ha ispirato di più.
"Nati per correre" è un romanzo autobiografico, senza alcuna velleità letteraria di ampio respiro -lo sottolineo in maniera esplicita- in cui il giornalista, scrittore e runner Adharandan Finn racconta, con l'andamento quasi di una cronaca diaristica, del semestre in cui, famiglia al seguito ( moglie e tre pargoli) si è trasferito in Kenya per allenarsi alla durissima maratona di Lewa: 42 chilometri sulla Rift Valley, gareggiando spalla a spalla con gli uomini più veloci del mondo. Sei mesi intensi per l'uomo e lo sportivo. Ripercorrendoli con la semplicità e la pacatezza che connotano la sua scrittura, l'autore mi ha concesso l'opportunità di correre al suo fianco una speudo maratona che rappresenta un piccolo, ma significativo traguardo personale verso la composizione di un quadro più organico circa gli usi, i costumi, la lingua e la cucina del paese africano coprotagonista del romanzo. Per quanto riguarda la corsa, infine, è stato esaltante approfondire il mondo dei runners attraverso le esperienze e le voci di corridori leggendari, grazie ai quali ne so un po' di più sulle ragioni che fanno del Kenya una riserva di maratoneti vincenti.
sabato 4 maggio 2019
I fratelli Michelangelo. Vanni Santoni
Seicentosettanta pagine non sono roba per mammolette. Occorre un fisico bestiale per leggerle in poco meno di una settimana. Non deve essere stato uno scherzo neppure scriverle, a dirla tutta.
Ecco un essenziale identikit dell’ardimentoso eroe dell’impresa: autore giovane ma non esordiente. Uomo. Classe 1978. Toscano. Palleggia abilmente tra letteratura e web tanto da aver contribuito, in questi anni, a enucleare in rete un territorio per scrittori, lettori, cultori, di cui resta uno dei principali animatori; una zona che potremmo quasi considerare alla stregua di una provincia, entità geografica connotante, a detta unanime della critica, la sua precedente narrativa ( indizione). Un’ aspirazione precisa: puntare, questa volta, al grande romanzo italiano. Idee chiare su come sviluppare la trama: quattro robusti rami, quasi alberi a sé, su cui il lettore può catapultarsi in arrampicata libera senza correre il benché minimo rischio di finire a gambe all’aria: la struttura è a prova di cedimenti. Uno scrittore che non teme la lunga distanza e la sa gestire: mestiere e talento dosati nella giusta proporzione gli consentono di padroneggiare l’ispirazione, le idee e la lingua in modo che tutto fili.
Il romanzo in questione è “ I fratelli Michelangelo” edizioni Mondadori. Lo scrittore Vanni Santoni.
Antonio Michelangelo, personaggio poliedrico ma non camaleontico ( mantiene sempre una sua coerenza di base, anche nei cambiamenti, che, nel corso della sua vita, pochi non sono), tronco novecentesco di un albero ormai avanti negli anni, vuole incontrare i cinque rami -di cui dicevo innanzi- che sono germogliati dalle sue radici, seppur da madri diverse. Quattro dei suoi cinque ragazzi, ciascuno per ragioni diverse, rispondono all'appello, raggiungendolo nella località in cui si è ritirato.
Nel bene e nel male, per taluni con la presenza e per altri con l’assenza, con l’ amore o con l’indifferenza, con la cieca abnegazione verso se stesso, in alcuni momenti della vita schiava dell’ambizione e in altre delle più puerili ed egoistiche aspirazioni personali, finanche con il flebile e temporaneo sforzo di un radicale annullamento a favore dei figli nati in costanza di matrimonio, Antonio Michelangelo segna indelebilmente la sua prole. Per addizione o sottrazione, come ogni genitore, resta il co-artefice delle fragili personalità che sono sangue del suo sangue, chiamate per la prima volta a raccolta senza un’apparente ragione.
Il Saltino di Vallombrosa, dove, per necessità, per odio o per semplice curiosità, convergeranno obtorto collo i quattro, si profila per ciascuno come la meta di un faticoso tragitto, attraverso i sentieri della fanciullezza, dell’adolescenza e infine dell’età adulta, per arrivare non solo al padre, ma soprattutto a se stessi. Il percorso imporrà loro di rivivere lo smarrimento provocato dalla presenza costante alle proprie spalle del fantasma paterno, la sofferenza dei tentativi di affermazione professionale andati a monte, l'ebbrezza dei trionfi e la disillusione portata dagli insuccessi e degli errori impossibili da riparare. Logorante e amaro per loro, avvincente per il lettore.
Quattro rami innestati da Vanni Santoni su quel vecchio e consunto fusto principale di Antonio come veri e proprio micromondi separati. Il passato è un territorio che genera convinzioni, comportamenti, regole etiche, prammatiche inoppugnabilmente soggettive. È la terra dove ciascuno lavora per divenire signore indiscusso del proprio regno, istituendovi le proprie regole, il proprio percorso culturale, finanche la propria personalissima lingua. Abilissimo, Santoni nel far emergere lentamente i suoi personaggi dai rispettivi retroterra, e rimanere, senza la minima sbavatura o cedimento, nel sentiero tracciato per ciascuno, regalandoci spaccati singolari, caratteristici, eccentrici, insospettati ma tutti, proprio in quanto diseguali, accidentati e sconnessi, altamente coinvolgenti per il loro essere plausibilmente umani.
giovedì 2 maggio 2019
"Il giorno della nutria" - Andrea Zandomenghi
“Il giorno della nutria” di Andrea Zandomeneghi, edizioni Tunué, mi guarda arcigno, dall'alto della pila di libri che, guadagnata la mia approvazione, attendono pazientemente che ne scriva.
Ero partita a razzo, in verità. Già a metà del libro, mentre bevevo il primo sacro caffè della giornata, una mattina mi ero lanciata nel seguente commento entusiasta: Non vorrei spoilerate nulla di questo testo, se non in un consiglio di lettura scritto bene, strutturato, circostanziato. Un consiglio che sia, insomma, all'altezza del libro stesso, che è sagace, erudito, divertente, intelligente così come tutte le cose fatte per bene o super perbene dovrebbero essere: con il giusto equilibrio, con la necessaria raffinatezza, con la sottile ma palpabile ironia che fa risaltare, rendendo più palesi i contrasti, le illogicità, i logorii degli intellettualismi (che divengono umane nevrosi) moderni, il nostro essere nel tempo che viviamo. Potrei dire che Zandomeneghi ha scritto un romanzo imprescindibile, necessario, urgente. Non lo dirò per non nuocere ne' al romanzo, ne' al suo autore: certi aggettivi rischiano di essere caricaturali e di instillare dubbi sulla reale corrispondenza ai testi.
E’ successo poi che recensioni su “ la nutria” siano piovute giù a catinelle da ogni parte e che in ciascuna abbia letto le cose che avrei voluto dire io, sicuramente meglio di come le avrei dette io: ottimo esordio, “giallo capovolto”, affresco della provincia italiana, riuscita analisi introspettiva, colto, ironico. Ho preferito, a quel punto, l’autocensura per scampare il rischio d’annoiare.
Le cose lasciate in sospeso, tuttavia, mi perseguitano senza lasciarmi scampo e, meglio tardi che mai, eccomi qua: una lode in più, in fin dei conti, potrà stufare ma non nuocere.
Ammetto la difficoltà di riprendere il discorso interrotto in quella fredda mattina di marzo conservando minime briciole di autonomia dagli autorevoli pareri altrui. L’unica via praticabile è di riversare nel mio consiglio (spoglio di qualsiasi considerazione tecnica) unicamente la soddisfazione, nuda e cruda, goduta leggendo il romanzo.
Soffro da sempre d’emicrania, supplizio che pare abbia trasmesso, come una sorta di anatema genetico, anche alla mia secondogenita. Dopo “Il giorno della nutria” nulla sarà più lo stesso. Non potrò mai più vivere un singolo episodio di cefalea senza pensare alla ragguagliatissima, ancorché spregiudicatissima creatività, in fatto di rimedi farmacologici, di Davide Aloisi, protagonista del romanzo e, ora, mio personale guru letterario, in buona compagnia con Portnoy dell’omonimo lamento di Roth, Ignatius di “Una banda di idioti”, Barney della Vesione di Richler e Lenny Abramov di “Storia d'amore vera e supertriste” .
Zandomenighi è bravissimo a caricare il simpatico psicotico giovane di tic, stigmi e dogmi tipici della sua ( vorrei dire mia, ma purtroppo non posso più permettermelo) generazione. A gettargli sulle spalle dubbi, idiosincrasie, disillusioni di ogni sorta, che con abilità Aloisi schiva o assorbe -come più si preferisce- con sarcasmo, amarezza, disincanto, grazie al corroborante ausilio di massicce dosi di psicofarmaci, droghe e alcool frammiste a una solida e ben sedimentata preparazione culturale.
Uno romanzo che mi ha divertito, sorpreso, confuso, convinto e non esattamente in quest’ordine.
“Il giorno della nutria” è vulcanico. Lapilli, ceneri, gas della storia strettamente intesa investono istantaneamente mentre il magma avanza più lentamente ma inesorabile, depositando mille sollecitazioni( frammenti di cultura alta, nozioni di farmacopea, molto più che un'infarinatura di psicologia/psicanalisi) e mille acute considerazioni ( la parentesi sulle cose divine di pag. 42 da tenere in conto, così come quelle sul senso di superiorità di chi si arrocca sui vantaggi secondari della cultura di pag. 107).
E’ vero che nella seconda parte il registro sarcastico cede il passo ad una psichedelica angoscia che asciuga il sorriso a vantaggio della trepidazione, rendendo la lettura più impegnativa e sofferta, ma bisognava pur risolverlo il giallo.
Il giudizio è favorevolissimo. Bene, molto bene per Zandomeneghi.
mercoledì 1 maggio 2019
Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato - Davide Morganti
Ho conosciuto di persona Davide Morganti solo qualche settimana fa. Per puro caso. Era già tra i miei contatti di FB. Poi, come sovente accade sui social, uno scambio di battute circa un argomento di interesse comune, breve ma interessante a mezzo di conversazione privata, ci ha fornito l’occasione non dico di rompere il ghiaccio, quanto meno di intaccarlo significativamente. Così, quando l’ho intravisto tra la folla, in attesa della metro sulla banchina della stazione Garibaldi, non ho esitato un solo attimo ad importunarlo, imponendomi perfino come compagna di viaggio nella breve tratta verso casa.
Se la convinzione che una persona debba risultati simpatica a prescindere, per la sola circostanza d'essere uno scrittore -di cui tra l'altro si vocifera un gran bene tra gli amici con la tua stessa passione per la lettura- è un preconcetto bieco, allora mi dichiaro colpevole. Nonostante ciò, faccio salva la necessità di verificare che il sentimento umano non ottenebri e comprometta la sensibilità e il gusto della lettrice; quindi proprio a causa della chiacchierata in metropolitana (che ha naturalmente confermato la mia primigenia, istintiva sensazione di affabilità) si è fatta più pressante la curiosità di leggere uno dei suoi romanzi, per verificare la tenuta della mia indipendenza di giudizio.
"Il cadavere di Nino Sciarra" edito da Wojtek mi è parso più idoneo alla bisogna rispetto al ben più corposo" La consonante K", edizioni Neri Pozza, già per altro in attesa in libreria.
Ci sarebbe molto da dire su “Il cadavere di Nino Sciarra”, tuttavia mai contravvenire alla regola di buon senso (e di buon gusto) di NON scrivere un consiglio di lettura più prolisso e artificiosamente articolato del romanzo a cui si riferisce, quindi sarò stringata.
Il romanzo di Davide Morganti è una personalissima antologia del novecento dimenticato. La ricerca del cadavere del titolo, quel Nino Sciarra fagocitato dalle macerie della casa-caos di Lago Patria è un mero pretesto per l’escursione, in arrampicata o in immersione, nello strano cimitero, che mette dentro vivi e morti, della letteratura diligentemente, o dovrei dire proditoriamente, accantonata fuori dai canali divulgativi ufficiali, se dalla critica o dallo Stiticismo*, poco importa.
Tempo, morte e fede sono i tre fili che l’autore utilizza per sfilare dalla tela dell’oblio i romanzi prescelti per poi contemporaneamente intrecciarli in una nuova maglia, necessaria per rimediare al guasto, al gran male che ci affligge, ovvero l’uso di riconoscere il valore della scrittura solo sui social e dunque di usarla in maniera ossessiva per spargere odio, rancore, pareri, consigli, ricette.
Un romanzo denso, impavido, dalla personalità fortissima questo di Morganti, il quale, con uno sguardo critico completamente libero, affrancato da qualsiasi riferimento ideologico, sembra voler trarre dal materiale che maneggia un nuovo canone, un paradigma che si spinga oltre il recinto della scrittura esteticamente apprezzabile o grammaticalmente corretta, che accolga anche i libri non memorabili, anzi brutti, con trame noiose, però capaci di comunicare segnandoci.
Non oso paragoni o richiami ad altri autori o altri romanzi. So che Morganti non ha in particolare simpatia i tentativi di assimilazione. Ho il dubbio, finanche, che disapprovi le citazioni di cui mi sono fin qui servita.
Res sic stantibus persevero nel depredare Morganti di un ultimo giudizio, che trovo particolarmente calzante:-“Il suo è un libro feroce, malinconico, che andrebbe letto in penombra, come ho fatto io, rannicchiato contro la parete viscida di umidità che mi ha bagnato la schiena per ore”. Così l’autore scrive del “ Diario di un vecchio” di A. Fiore. Così mi permetto di dire io della suo romanzo, “ un diario che è storia non di un uomo , o non solo, ma di una scrittura” e, dalla mia prospettiva, storia di una lettura.
*Stiticismo: secondo la definizione dello stesso autore, corrente di inizio Duemila assai diffusa in Italia, quella dei romanzetti stiracchiati con poche parole e con storielle minime minime che rappresentano il reale.
Se la convinzione che una persona debba risultati simpatica a prescindere, per la sola circostanza d'essere uno scrittore -di cui tra l'altro si vocifera un gran bene tra gli amici con la tua stessa passione per la lettura- è un preconcetto bieco, allora mi dichiaro colpevole. Nonostante ciò, faccio salva la necessità di verificare che il sentimento umano non ottenebri e comprometta la sensibilità e il gusto della lettrice; quindi proprio a causa della chiacchierata in metropolitana (che ha naturalmente confermato la mia primigenia, istintiva sensazione di affabilità) si è fatta più pressante la curiosità di leggere uno dei suoi romanzi, per verificare la tenuta della mia indipendenza di giudizio.
"Il cadavere di Nino Sciarra" edito da Wojtek mi è parso più idoneo alla bisogna rispetto al ben più corposo" La consonante K", edizioni Neri Pozza, già per altro in attesa in libreria.
Ci sarebbe molto da dire su “Il cadavere di Nino Sciarra”, tuttavia mai contravvenire alla regola di buon senso (e di buon gusto) di NON scrivere un consiglio di lettura più prolisso e artificiosamente articolato del romanzo a cui si riferisce, quindi sarò stringata.
Il romanzo di Davide Morganti è una personalissima antologia del novecento dimenticato. La ricerca del cadavere del titolo, quel Nino Sciarra fagocitato dalle macerie della casa-caos di Lago Patria è un mero pretesto per l’escursione, in arrampicata o in immersione, nello strano cimitero, che mette dentro vivi e morti, della letteratura diligentemente, o dovrei dire proditoriamente, accantonata fuori dai canali divulgativi ufficiali, se dalla critica o dallo Stiticismo*, poco importa.
Tempo, morte e fede sono i tre fili che l’autore utilizza per sfilare dalla tela dell’oblio i romanzi prescelti per poi contemporaneamente intrecciarli in una nuova maglia, necessaria per rimediare al guasto, al gran male che ci affligge, ovvero l’uso di riconoscere il valore della scrittura solo sui social e dunque di usarla in maniera ossessiva per spargere odio, rancore, pareri, consigli, ricette.
Un romanzo denso, impavido, dalla personalità fortissima questo di Morganti, il quale, con uno sguardo critico completamente libero, affrancato da qualsiasi riferimento ideologico, sembra voler trarre dal materiale che maneggia un nuovo canone, un paradigma che si spinga oltre il recinto della scrittura esteticamente apprezzabile o grammaticalmente corretta, che accolga anche i libri non memorabili, anzi brutti, con trame noiose, però capaci di comunicare segnandoci.
Non oso paragoni o richiami ad altri autori o altri romanzi. So che Morganti non ha in particolare simpatia i tentativi di assimilazione. Ho il dubbio, finanche, che disapprovi le citazioni di cui mi sono fin qui servita.
Res sic stantibus persevero nel depredare Morganti di un ultimo giudizio, che trovo particolarmente calzante:-“Il suo è un libro feroce, malinconico, che andrebbe letto in penombra, come ho fatto io, rannicchiato contro la parete viscida di umidità che mi ha bagnato la schiena per ore”. Così l’autore scrive del “ Diario di un vecchio” di A. Fiore. Così mi permetto di dire io della suo romanzo, “ un diario che è storia non di un uomo , o non solo, ma di una scrittura” e, dalla mia prospettiva, storia di una lettura.
*Stiticismo: secondo la definizione dello stesso autore, corrente di inizio Duemila assai diffusa in Italia, quella dei romanzetti stiracchiati con poche parole e con storielle minime minime che rappresentano il reale.
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