mercoledì 12 dicembre 2018

La settima funzione del linguaggio di Laurent Binet

Quello di oggi sarà un Consiglio di lettura per tappe. Arriverò al romanzo, infatti, solo dopo avervi suggerito due soste preliminari.
La prima è questa: un articolo de "Il libraio.it", nel quale si conferma quanto molti di noi, che ci adoperiamo nel web parlando di letteratura, narrativa e scrittura, avevamo già compreso, ovvero che:" Diventa importante il peso di social e blog (le community) come strumenti di comunicazione più significativi nella spinta all’acquisto/scelta di un libro".
La seconda sosta  è questa spumeggiante recensione di Alessandra Chiàppori, collega blogger, entusiasta di semiotica ( studiosa mi sembra riduttivo), alla quale rivolgo il pubblico ringraziamento ( a conferma delle affermazioni contenute nel link precedente) per avermi attirata nel vortice de "La settima funzione  del linguaggio".
A mia volta mi assumo la responsabilità di rilanciare l'invito a leggere il romanzo.
A chi lo consiglio: chiaramente a quanti apprezzano la semiotica.
A chi, al contrario, della materia è completamente a digiuno ma è curioso del mondo indagato e divulgato in Italia da Umberto Eco.
A chi è appassionato di gialli e abbia voglia di seguire un'indagine sui generis.
Lo spunto per la trama è l'assassinio di Ronald Barthes Una inedita e male assortita coppia di investigatori, Bayard, commissario conservatore nell'animo, e Simon Herzog, accademico di idee  progressiste, porta il lettore, nel tentativo di risolvere il mistero, in giro per il mondo, Francia, America, Italia, ma anche nella storia, catapultandolo nei giorni della tenzone  tra Giscard d'Estaing e Mitterrand o della strage di Bologna.
Un romanzo intelligente, interessante, imperdibile per chi si riconosce nelle categorie di cui sopra.
Binet ha firmato un'avventura grazie alla quale si ha modo di incontrare i più grandi protagonisti della disciplina semiotica,  con leggerezza, evitando il peso e le difficoltà del canonico saggio.
Buona lettura! 




martedì 11 dicembre 2018

Di niente e di nessuno di Dario Levantino

Cosa qualifica un romanzo, dal punto di vista del lettore, come “riuscito”? Senza dubbio la capacità di rapire chi sta al di là delle pagine, assoggettarlo senza concedergli requie, renderlo incapace di pensare ad altro che non sia la conclusione della storia, perché dentro quella storia lo fa muovere come se si fosse, tanto le è aderente, nella vita vera: incassando colpi, schivandoli, odiando, amando e sperando bene.
Per scrivere un racconto così occorrono talento e coraggio, che – a rifletterci bene – vanno a braccetto, si sostengono a vicenda. Il talento di puntare, per recuperare l’autenticità smarrita da molta letteratura contemporanea, su una lingua tascìa (neologismo palermitano traducibile con l’ormai italiano tamarro), facendosi bastare poche parole, talvolta «violente e in putrefazione» per eludere «l’inganno degli orditi che esse tramano». Il coraggio di lasciare il protagonista libero, conferirgli l’autonomia di agire senza paura di niente e di nessuno, consentirgli di fare, contro logica e morale, tutto quello verso cui lo spinge l’istinto primordiale di ragazzo solo e ferito. 
Estro e audacia di cui Dario Levantino  dà ampia e compiuta prova, nel suo Di niente e di nessuno (159 pagine, 17,50 euro), edito da Fazi. Il trentaduenne professore palermitano, trapiantato al nord per ragioni sentimentali, nell’arco apparentemente striminzito di 159 pagine, ha realizzato un avvincente romanzo di formazione. Rosario, nome che sa di devozione ai santi e obbligatorie omonimie tramandate da generazioni, quando lo incontriamo per la prima volta, è intento a marciare sui binari della retta via, con l’ostinazione e lo zelo di chi aspira a cambiare il futuro cui lo destinerebbe la storia familiare. Sotto la cura della madre, prigioniera di un rapporto coniugale che le assegna il ruolo di vittima sacrificale, e la sorveglianza del padre, ambizioso intrallazzatore dalla doppia vita, fa la spola tra Brancaccio, quartiere «aborto umano, non luogo», dove è nato, e la zona bene di Palermo in cui frequenta il liceo, consapevole che il suo andirivieni è cosa più complessa del mero percorrere un tragitto cittadino.
È un funambolismo tra paesaggi urbani, la periferia imbarbarita e il centro ben curato, antitetici; tra codici linguistici, il palermitano domestico e l’italiano scolastico, su piani comunicativi incompatibili; tra paradigmi umani, modelli sociali e strutture familiari inconciliabili. È soprattutto una spedizione senza ritorno dall’adolescenza all’età adulta. Un viaggio durante il quale gli restiamo al fianco sebbene delusi, increduli e a tratti arrabbiati, mentre lui, il nostro Rosario, smarrito, afflitto, emarginato, deraglia nel tentativo di restare a galla. Romanzo di pura fantasia, assicura Levantino in questa intervista a LuciaLibri. Nessun riferimento autobiografico, dice l’autore. A maggior ragione, già apprezzato innanzi lo stato di grazia della sua penna e il coraggio, tocca qui complimentarsi per la sua sensibilità di uomo che gli ha dettato un simile distillato di autentica fragile giovinezza, ancorché solo immaginata.
Questa recensione è apparsa su LuciaLibri che ringrazio. 

lunedì 10 dicembre 2018

"Loro sono Caino". Presentazione


Cose da non fare: scrivere di getto. Scrivere di getto, non rileggere.  Scrivere di getto, non rileggere e "pubblicare" sul blog.

Visto che quella appena trascorsa è stata la settimana del "mi butto", non voglio rompere l'incantesimo e continuo: occhi chiusi, apnea e lo faccio, provo la terna di cui sopra. Quindi sorbitevi questo post frienno mangianno su come è andata venerdì.
Breve spiegone per quelli che se lo fossero perso ( credo veramente pochi, dato che vi ho bersagliato di memorandum): Venerdì ero insieme allo scrittore Flavio Ignelzi a Caserta per presentare il suo primo romanzo "Loro sono Caino".
Con il presente voglio prima di tutto ringraziare Flavio per avermi voluta come madrina della serata. Essendo stata tra coloro che lo hanno istigato a delinquere, lo hanno cioè spinto a scrivere il romanzo, volentieri ho condiviso con lui l'emozione dell' esordio di fronte al pubblico.
Mi sono molto divertita, lo ammetto. Quindi doppio grazie per l'opportunità che mi ha dato di fare una cosa che mi piace fare, parlare di libri belli, e praticare quello che io chiamo "apostolato culturale".
 Sono di parte, troppo coinvolta per uno dei "miei consigli di lettura" su "Loro sono Caino". Vi dico solo che è un romanzino ( ma solo per numero di pagine, badate bene!) pregno, in quanto alla scrittura, al genere e al tema. Flavio ha fatto un gran bel lavoro.
Leggetelo. Poi mi direte. :D

giovedì 6 dicembre 2018

Passione


Cosa significa esattamente essere appassionati di letteratura contemporanea? Passare dallo stato di aviatore ( i classici bene o male sono un cielo finito, esauribile, almeno potenzialmente) a quello di astronauta in volo nello spazio che ricerca mondi dove si annidano germi di future classicità.
Ogni nuova uscita in libreria una possibile scoperta. Ma l'universo è infinito e pur innestando la velocità di curvatura non si potrà mai esaurire l'inesauribile. Allora leggi " a carotaggio". Di ogni romanzo, libro, saggio, titolo che richiama la tua attenzione ti concedi, prima dell'acquisto, il dieci per cento omaggio delle case editrici. Non è sufficiente e spesso lasciare, rinunciare per scarso interesse, poco coinvolgimento, giudizio di mediocrità o insufficienza su quelle poche pagine significa innestare sensi di colpa e timori che il meglio arrivasse più avanti. Riponi il libro ma non rinunci alla possibilità di riprenderlo quando avrai quel tempo libero che in realtà non avrai - per questo perverso gioco di curiosità- mai.
Di questi abbandoni non parli mai, quasi fossero figli della vergogna.

Siamo tutti politici Sanguineti

Siamo tutti politici (e animali):
premesso questo, posso dirti che
odio i politici odiosi: (e ti risparmio anche soltanto un parco abbozzo di catalogo
esemplificativo e ragionato): (puoi sceglierti da te cognomi e nomi, e sparare
nel mucchio): (e sceglierti i perché, caso per caso)
ma, per semplificare,
ti aggiungo che, se è vero che, per me (come dico e ridico) è politica tutto,
a questo mondo, non è poi tutto, invece, la politica: (e questo mi definisce,
sempre per me, i politici odiosi, e il mio perché:
amo, così, quella grande politica
che è viva nei gesti della vita quotidiana, nelle parole quotidiane (come ciao,
pane, fica, grazie mille): (come quelle che ti trovi graffite dentro i cessi,
spraiate sopra i muri, tra uno slogan e un altro, abbasso, viva):
(e poi, lo so che non si dice, ma, alla fine, mi sono odiosi e uomini e animali)
Edoardo Sanguineti

mercoledì 5 dicembre 2018

Il Tizio

Ho conosciuto un tizio, una volta, in un libro.
Uno di quelli bislacchi, a cui, loro malgrado, succedono cose strane. Per volontà del narratore, si intende. Non gli succedevano cose rocambolesche. Su questo punto voglio essere chiara. Niente sparatorie, inseguimenti, e nessuna vicenda con “sfumatura di colori annessa”, se mi spiego. Uno che, quando all'inizio leggi la sua vita, partendo dal punto in cui lo scrittore decide di buttartelo tra i piedi, pensi che sia un povero sfigato, tanto che ti rigiri tra le mani le duecento pagine del libro e ti chiedi come farai a superare tutta quella esistenza normale, piana, comunissima per arrivare al finale.
Poi quel tizio, ad un certo punto, fa una cosa e tu cominci a capire che un po’ ti assomiglia. Ne fa un’altra e  confermi l’impressione. Allora prosegui nella lettura perché lo capisci fino in fondo, ormai ti sei identificato. Ma gli scrittori a volte sono malvagi. Ad un certo punto il mio -o meglio quello del mio libro- ha fatto capitare una cosa al suo personaggio -che ormai è anche il mio- che a me non mi è mai successa, o almeno così mi sembrava. Allora il mio spirito   è declassato da forte identificazione a semplice interesse nella storia e così sono arrivata all'ultimo rigo.
Però a questo tizio io ho pensato molto, dopo. Quando ti hanno fatto compagnia per un po’ è vero quello che si dice sui protagonisti delle storie: diventano amici. E naturalmente sugli amici, o meglio sulle loro vicende non smetti di rimuginare .
Gli scrittori a volte vanno di metafora . E ci vanno giù duro. Non rimandi semplici e oggettivi da una cosa ad un’altra. A volte ti dicono “razzi”, ma parlano di cazzi  o di pazzi.  E tu fatichi a capire che quel razzo sei tu. Tu sai di essere più esplicitamente un cazzo o un pazzo e ci metti tempo a dedurre che la storia del razzo è anche la tua.
Quel tizio che ho conosciuto nel libro, leggeva libri. Li ha letti fino a che non è stato aggredito, per strada e senza una ragione, da alcuni bulli ignoranti. Per il solo fatto che camminasse con la testa ficcata tra le pagine quei trogloditi lo hanno pestato a sangue mandandolo in ospedale. Allora da bulimico è diventato anoressico. Niente. Non riesce più a leggere una riga che gli sale su il vomito. E così fino alla fine.
Personalmente non sono stata mai picchiata a sangue da trogloditi. Ma fate conto che.
Quel razzo è diventato un cazzo o un pazzo quando ho capito di essere stata malmenata anche io da tanti pseudo scrittori al punto che spesso, ultimamente, ho sentito salirmi il vomito davanti a certe pagine. Sono stata aggredita con pesanti errori di grammatica, di sintassi. Con   storie prive di interesse, con prose pesanti come macigni. Con ipertrofie avverbiali recidivanti, aggravate e reiterate. Basta. Ho giurato, vedendo la fine che ha fatto il tizio che ho conosciuto nel libro, che cambierò, nel caso, marciapiede. Ma basta farsi bullizzare dai falsi scrittori.
  

"Un valore è andato perduto: la vergogna". L'ultimo appello di Ernesto Sábato

Uno dei miei autori preferiti. Poco letto purtroppo. Se vi capita fate vostro quel libro geniale dal titolo " Sopra eroi e tombe" che ne contiene a sua volta un altro di altrettanta bellezza mozzafiato " rapporto sui ciechi".



"Certi giorni mi alzo con una speranza demenziale, momenti in cui sento che la possibilità di una vita più umana è a portata di mano. Questo è uno dei giorni. Allora mi metto a scrivere quando ancora è l’alba, quasi con cautela, ma con l’ urgenza di chi scende in strada per chiedere aiuto di fronte al pericolo di un incendio, o come un battello che, nel momento di affondare, lancia un ultimo e accorato segnale ad un porto che sa vicino, purtroppo assordato dai rumori della città e dalle insegne che confondono lo sguardo.



Ma possiamo ancora aspirare alla grandezza. Troviamo questo coraggio. Tutti, una volta o l’altra, ci siamo arresi. Però, se qualcosa non tradisce è la convinzione che solo i valori dello spirito possono salvarci dal terremoto che minaccia la condizione umana…

Un valore è andato perduto: la vergogna. La gente non si vergogna più. Succede che, mescolate alle persone per bene, possiamo incontrare con ampi sorrisi, certi tipi accusati della peggiore corruzione. In passato le famiglie di questi tipi si seppellivano in casa, mentre i corrotti oggi vengono trattati come ogni altra persona, e le televisioni li invitano e li intervistano col garbo una volta riservato ai signori.

Nel nostro Paese tanti uomini e tante donne si vergognano nelle grandi città. Non ne capiscono i rituali. Tragicamente il mondo sta perdendo l’originalità dei suoi popoli, la ricchezza delle differenze, nel desiderio di clonare gli esseri umani per meglio dominarli. Ma quando tutto è desacralizzato si precipita nel caos e l’esistenza viene rattristata dall’amaro sentimento dell’assurdità…

Il degrado dei tribunali e la sfiducia nella giustizia danno la sensazione che la democrazia sia un sistema incapace di cercare e condannare i colpevoli. Il risultato è un clima favorevole alla corruzione con l’amarezza che sarebbe possibile denunciarla perchè solo nei sistemi non democratici non si può fare. Sistemi dove la corruzione esiste fino ad essere più corrotta e degradante, se diamo per buona la definizione di Lord Acron: «Il potere corrompe, ma il potere assoluto corrompe assolutamente». Eppure anche nella democrazia succede e spesso. Non è sempre stato così. C’erano persone dignitose, mai intascavano beni dei quali non avevano diritto. Non rubavano. Ricordo che mio padre si è mangiato il suo mulino per un credito nel quale era impegnato solo con la parola. Niente di scritto. Ne è seguito un immenso dolore. Ma era indegno per un vero uomo tradire la propria responsabilità, sentimento d’onore che dava la forza del vivere in pace. E che dire di cos’erano una volta i sindacati. Con candore ricordo la storia di quel signore svenuto per strada e quando lo rianimano i soccorritori vogliono sapere come abbia potuto perdere i sensi per fame con tanti soldi nel portafogli. Sbalordito per la domanda ha risposto: “ma i soldi non sono miei, sono soldi del sindacato”. Non che allora non esistesse la corruzione, ma la maggioranza delle persone difendeva l’onore con l’ esempio quotidiano. E rubare un bene comune era il peccato peggiore. Continuo a pensarla così.

Chiunque ruba i soldi che servono ad educare, chiunque ruba a mutue e pensioni, o infila in tasca il denaro dei contratti pubblici, non deve essere salutato. Non possiamo far finta di niente con i corrotti. Non possiamo far apparire nelle televisioni personaggi che hanno seminato il malcostume, contribuendo alla miseria; non possiamo mostrarli come gente normale ai bambini. Questa è l’oscenità. Come educare le nuove generazioni lasciandole nell’incertezza: sono eroi o criminali? Si dirà che esagero, ma non è forse un crimine che milioni di persone vivano nella povertà se si rubi loro il poco del quale hanno diritto? A quanti scandali abbiamo presenziato eppure tutto va avanti come prima e nessuno – con i soldi in tasca – finisce in galera. Certe persone continuano a mentire alla radio, alla televisione, sui giornali, e un’onda gigantesca che ci avvolge e non lo si può impedire. Fa sentire la gente impotente: alla fine scoppia così la violenza. Dove arriveremo?

martedì 4 dicembre 2018

Panorama di Tommaso Pincio

Ci sono casi, come questo, in cui i giudizi vanno espressi senza giri di parole e un superlativo va speso senza timore di esagerazioni.
Tommaso Pincio, pseudonimo di Massimo Colapietro, è uno dei nostri scrittori di maggior talento. Il nome d’arte, italianizzazione di Thomas Pynchon (mostro sacro della letteratura postmoderna americana) dice molto del suo legame con l’America. Fresco di studi all’Accademia di Belle Arti, infatti, il nostro autore si trasferì a New York, dove ha maturato la vena letteraria.
Con Panorama, recentemente vincitore del Sinbad, premio internazionale dei librai indipendenti, ne salutiamo il ritorno in libreria. Affermazione, quest’ultima, da prendersi alla lettera, poiché su espressa indicazione dello scrittore il libro è disponibile esclusivamente in edizione cartacea.
Ottavio Tondi, il protagonista del romanzo in cui Tommaso Pincio fa da voce narrante, è un lettore: sua unica velleità” sbirciare e origliare nelle vite altrui” seduto su un divano.  Il padre, commercialista da generazioni, lo avrebbe voluto erede della tradizione di famiglia. Ottavio, invece, si trincera con ostinazione nella sua passione, che il caso trasforma in un vero e proprio lavoro. Legge manoscritti per conto di un importante editore indicando quelli da pubblicare. Grazie ad una delle sue fortunate intuizioni è dato alle stampe il più grande caso letterario di sempre. Comincia così una lunga sequela di traversie che gli segneranno irreparabilmente la sorte. Per sottrarsi ad un progressivo isolamento,  Tondi, accogliendo  il  suggerimento dell’amico Mario Esquilino , approda al social Panorama. Concepito sul modello del Panopticon, la prigione ideale del filosofo Jeremy Bentham, progettata in modo da consentire ad un unico carceriere di sorvegliare tutti i detenuti, Panorama, diversamente da Fb, prevede che ciascun utente abbia una telecamera sempre in funzione fissa su un punto della casa. Soluzione necessaria per creare ad ogni iscritto l’illusione di poter osservare tutti.   Tondi divenuto nel frattempo incapace di leggere, annota sul social le citazioni dei libri che gli affiorano alla memoria, lasciandone però ignoto lo scrittore. Puntuale l’utente Ligeia, anch’ella lettrice, il cui profilo rimanda l’immagine di un letto disfatto ingombro di oggetti personali e una “canna” fumata per metà, ne indica l’autore. Dal fugace contatto alla quotidiana corrispondenza di messaggi privati, via via più personali, il passo è breve.  Ottavio e Ligeia intratterranno, fino a quando la ragazza sparirà nel silenzio, un rapporto d’amore virtuale lungo ben quattro anni.
Il romanzo di Pincio ha la cifra stilistica, il ritmo narrativo e il contenuto dei grandi classici. Ha, di questi ultimi, soprattutto la semplicità e l’eleganza. Si divora con la malinconia mista al rammarico di dovere, alla fine, congedarsi dal proprio beniamino, tipica dei racconti che ti conquistano fin dalle prime battute e ti tengono per sempre.
I libri, pur quando pretendono di essere narrazione del contemporaneo, spesso falliscono l’obbiettivo di plasmare protagonisti che siano  archetipi dell’uomo figlio di quel contesto. L’Ottavio uscito dalla penna di Pincio  ne è, invece, a tutti gli effetti e -come suggerisce pesino il nome- a tutto tondo un autentico esemplare. E’ uomo del suo tempo quando in qualità di semplice lettore -appassionato ma al contempo disincantato- dimostra di avere piena coscienza dello stato del mondo editoriale e letterario, di cui dice: “Gli aspiranti scrittori volevano diventare scrittori, gli scrittori volevano diventare scrittori di successo, gli scrittori di successo volevano diventare scrittori apprezzati dalla critica”. E’ uomo del suo tempo quando non dubita che un rapporto sentimentale  nato e consumato su un social sia amore a pieno titolo. “Era il 7 aprile del primo anno di corrispondenza con Ligeia Tissot. Già l’amava”, scrive a tal proposito Pincio. E’ infine uomo del suo tempo quando intuisce il futuro della letteratura: “Ebbe dunque la seguente illuminazione: non era morta la letteratura, erano morti loro, i letterati.  La letteratura esisteva ancora, ma in una forma nuova, non più cartacea, non più scritta per essere letta. (…) Le parole e le cose che vedeva scorrere su Panorama non erano forse un racconto in continuo rifacimento? In quel piacere spasmodico di osservare le vite degli altri non si realizzava forse la sua idea di letteratura, origliare e sbirciare?  L’unico nostro rammarico, leggendo le sue parole è di trovarci in disaccordo con Pincio: finché ci saranno scrittori della  sua levatura  –per nostra fortuna- nulla è perduto. Nessun requiem, ne’ per la letteratura, ne’ per i letterati che ne restano i superbi cultori.
Questo consiglio di lettura è apparso sulla rivista  
Itali@Magazine 
il 30 novembre 2015 con il titolo " Sempre bellissimo il Panorama del Pincio… anche quando si tratta di un libro!"

lunedì 3 dicembre 2018

Terminus Radioso di Antoine Volodine

Oltre le colonne d’Ercole della letteratura nostrana non c’è solo quella americana. Tutt'altro. Il vecchio continente regala ancora scrittori di razza e perle d’inestimabile valore: Antoine Volodine e il suo Termius Radiosus ( edizioni 66thand2nd, traduzione Anna D’Elia) ne sono un esempio. 
“Terminus radioso” non è un libro per tutti. Non mi si fraintenda: credo nel canone e santifico Harold Bloom. Credo in una scrittura alta (letteraria) e una bassa ( di intrattenimento) che possono nascere entrambe vive e vitali da ogni sottogenere ( fantascientifico, horror, giallo) . Credo anche che i libri, appartengano alla prima o alla seconda categoria, sono dal canto loro democratici e nel destinarsi ad un pubblico non facciano differenza tra lettori colti e lettori poco o mediamente istruiti. E’ tuttavia vero che, affinché l’alchimia tra chi legge e il testo si compia, è necessario che ciascuno scelga il libro più calzante per . Come un paio di scarpe comode per percorrere lunghe distanze, come un cappotto della giusta misura e consistenza per proteggersi dal freddo così il libro deve essere della nostra taglia. 
Terminus radioso ha una costruzione non convenzionale. Non c’è un’evoluzione organica della trama. Alterna flussi di racconto a farneticazioni poetiche in cui spesso il lettore si perde, così come si perdono gli stessi protagonisti. Neppure la successione temporale del racconto è agevole. Proprio per questa potenza immaginifica, per questi continui strappi onirici a me è piaciuto. Dubito, però, che possa coinvolgere un lettore non appassionato di « letteratura che viene dal nulla e va verso il nulla» ( definizione di post- esotismo, la corrente di cui Voladine è rappresentante), dacché il romanzo non giunge neppure a una conclusione certa. Naturalmente il consiglio di lettura resta qui, a disposizione di tutti. Se decidete di prendervi il rischio del fuori pista, ripassate a raccontarmi, magari, come è andata l'escursione.

domenica 2 dicembre 2018

Impiegato

- " Qua non è un problema di software, Signora mia, . Direi piuttosto che è nell'Hardware, dove per Hardware intendo quel personaggio lì seduto dietro la tastiera, che c'è il difetto. Lui è la parte più dura e vecchia di questo sistema informatico"-
-" Voi vi intendete di computer, Signorina?"
-" No, Signora, affatto. Più che di computer qua si tratta di esseri umani. Quell' impiegato là si crede minimo minimo Bill Gates. Da quando una decina di anni fa gli hanno tolto di mano la penna e gliel'hanno sostituita con quel coso , lui si è immedesimato nei panni di chissà quale scienziato. Nel vecchio edificio dove era prima la ASL, stava in piedi dietro a uno sportello , mo' che lo hanno messo addirittura seduto alla scrivania, si sente un ingegnere della NASA.
Guardate che boria, che arroganza, che prosopopea.
Quello il nome di un medico su una tessera sanitaria deve stampare.
Non deve fare altro che riempire due spazi vuoti, due, signora mia, e a lui gli pare di fare un'arca 'e scienza. Venti minuti ci mette, venti come minimo, per digitare un nome e un cognome sopra, e un codice fiscale sotto.
Quel "dito digitale" che ha sviluppato, quell'unico dito medio, che rigido come fosse un cacciavite di precisione, imprime con forza e puntiglio sui tasti delle lettere, è il suo orgoglio e il mio terrore.
Lo solleva ogni volta prima di mezzo metro e poi lo assesta da quell'altezza sul bottone della tastiera , per ogni singola lettera, quasi con metrica precisione, impegnandoci più di un minuto. E se per caso deve fare un "copia-incolla", Signora cara, allora è la fine. Si riassetta sulla sedia, si irrigidisce sano sano, si concentra, afferra il mouse e compie il miracolo.
Infine alza lo sguardo tronfio sulla vittima che gli siede davanti e sorride in attesa del ringraziamento solenne. Il rituale è preciso. E in verità, ogni utente il ringraziamento lo tributa. Ma non a lui, come egli erroneamente immagina. Non è per lui l'espressione di gratitudine che illumina il viso dello sventurato. E' per quella bella Madonna, che pure questa volta ci consente di tornare a casa in tempo per il Natale."

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...