giovedì 31 marzo 2016

Taccuino turco.

Tempo fa, per ragioni che non sto qui a raccontare, scrissi una sorta di resoconto della mia esperienza in Turchia.
E' tanto che il "taccuino turco" -così ho chiamato il breve racconto- sta lì, sul desktop del computer .
Non avrò mai il coraggio di mandarlo in visione ad un editore, come pure avevo pensato di fare.
Questa mattina ho preso la decisione di metterlo qui, a puntate, sul mio piccolo spazio nel web.
Eccoci, io e il mio angolo di Turchia.
Cap. 1

Bella signora ti ho ritrovato così come ti avevo lasciata, stesa su di un fianco, capelli al vento, volto verso il sole e occhi chiusi, con l’espressione indolente di un’adolescente che ha scoperto il piacere dell’abbronzatura e vuole i raggi tutti per sé.
Alcuni ti chiamano Smirne alla maniera occidentale, altri Izmir secondo la tua lingua.
Per tutti i turchi fuori dalle tue mura sei “l’infedele,” a causa dell’indole ribelle. Le tue figlie godono fama d’essere le donne più belle di Turchia e non si ricorda persona che arrivata piangendo, si sia accomiatata da te versando almeno il doppio delle lacrime. Confesso che mi bastò sentire il tuo nome per temerti, per diffidare di tutto ciò che rappresentavi. Solamente piccoli dettagli, rispolverati da reminiscenze ginnasiali, aprirono la porta alla possibilità di un’amicizia. Ragioni che adesso mi suonano infantili, come il fatto che un tempo fosti parte di quel mondo greco della cui mitologia sono appassionata da sempre. Sapere che forse il poeta Omero crebbe tra le tue strade mi infuse il coraggio d’affrontarti. Tra le tante cose di cui ti sono debitrice, le più importanti sono l’avermi insegnato che i pregiudizi penalizzano principalmente coloro che li nutrono e l’avermi aiutato, giorno per giorno, a disfarmi dei miei.
Cara Amica, stretta nel tuo abbraccio di benvenuto, mentre il tuo profumo mi invadeva le narici, anch’io ho chiuso gli occhi. Ho offerto il viso a quel sole da cui attingi l’energia che emani e così illuminata ho cominciato a cercare nella memoria le prime immagini di te, anzi di noi.
Niente è più difficile che affrontare i ricordi. Sono tanti, talvolta belli, talaltra brutti. Ci costringono a fare i conti con il destino, con le nostre scelte o più banalmente con il trascorrere del tempo. Dopo tanti anni di lontananza, tra le tue braccia, mi sono persa nelle memorie e solo al termine di un lungo ripensamento finalmente eccomi qua, pronta ad aprirti il cuore.
Con i veri amici risalire al fatidico attimo in cui ci si è rivolta per la prima volta la parola  è una prova destinata al fallimento. A dispetto di ogni sforzo prevale l’impressione di conoscersi da sempre. Altre volte si è più fortunati. Io lo sono stata. Insperatamente ho recuperato l’immagine dell’ora zero in cui tutto ebbe inizio. Dal fondo di un cassetto dove era sepolta, intatta fin nei più minuti dettagli, come una foto ingiallita ma che ancora conserva un’apprezzabile nitidezza, è spuntata l’immagine del giorno in cui atterrai in città. La gioia della scoperta si è però incrinata brevemente al pensiero che tra noi non fu amore a prima vista. L’affetto totale e incondizionato, al quale mi arresi in seguito, fu preceduto da un sentimento d’autentica antipatia.
In che posto ero capitata! Mentre porgevo il passaporto agli agenti dei controlli doganali, le immagini brutali del film “Fuga di mezzanotte” -da cui, come molti della mia generazione, avevo appreso la crudeltà e la durezza delle carceri turche- scorrevano davanti ai miei occhi. Non dico che rimasi delusa, ma fui sinceramente sorpresa quando i poliziotti, stampigliando il visto sul documento, invece di dichiararmi in arresto mi lasciarono entrare nel paese augurandomi il benvenuto.
Non concorsero a migliorare il mio umore ne’ la ventata di aria torrida che mi investì all’uscita dall’aeroporto, ne’ l’onda disordinata di vecchie automobili che alimentavano il traffico infernale, ne’ infine il panorama circostante.
Il volto disadorno e scarno della povertà mi spaventò. Le centinaia di catapecchie inerpicate sulle colline circostanti, lungo strade sterrate e dissestate, ne erano una fedelissima e inequivocabile raffigurazione. Esaminai quel profilo con intransigenza forse eccessiva. Lo ritenni il disdicevole ritratto di un viso reso deforme e sgraziato dal degrado, stabilendo che vi regnassero solo emarginazione e imbarbarimento.
Mi sbagliavo. La povertà non si traduce necessariamente in assoluta indigenza e fame. La miseria può essere, come da queste parti, una condizione sociale diffusa e condivisa che si concreta certamente in mancanza di agi ma che conserva orgoglio, dignità e decoro. Con il tempo ho imparato ad apprezzare anche la grazia e la bellezza di quello che, con leggerezza eccessiva, battezzai un “triste presepe”.
Può succedere che il primo diffidente sguardo diretto a bruciapelo verso uno sconosciuto ci rimandi l’idea di essere di fronte ad una persona presuntuosa, boriosa e insolente. Così ti percepii quel giorno. Oggi ammetto che tra noi due fui io ad essere pessima. Quei tre spiacevoli aggettivi  probabilmente spettavano a pieno titolo a me.
Chiarimmo in seguito che la tua non fosse ostilità quanto piuttosto indifferenza, così come appurai che non eri maldisposta verso di me. Tuttavia all’istante non seppi fare di meglio che indirizzarti uno sguardo malevolo.
Tu sollevasti verso di me la mano con l’intento di stringermela e io, convinta che mi avresti assestato un pugno sul naso, mi ritrassi.

Cap. 2
Prima di venire a vedere con i miei occhi cosa mi aspettasse avevo letto il romanzo “Le streghe di Smirne” di Mara Meimaridi. Mi ci ero imbattuta per caso in libreria e naturalmente l’avevo comprato attratta dal tuo nome in copertina. Quando mi persi per la prima volta tra le vie del centro, con l’eco di quella lettura a tenermi compagnia, compresi che, sebbene le donne di Smirne evidentemente non sperimentano più come nella storia le loro alchimie ammaliatrici sugli uomini, di quello” spirito dionisiaco” che trasuda dalle pagine del libro sei pervasa tu stessa, Smirne.
Sotto il sole di mezzogiorno, mentre attendevo che il flusso frenetico di volti e di azioni di cui ero testimone, stremato dal caldo, si arrestasse per una pausa pomeridiana, mi stupii invece che nessuno e nulla si fermasse. Al contrario: quella umanità variopinta insisteva a popolare le strade fino al tramonto, affaccendata in una danza da uno strano ritmo, frenetico e placido insieme: “festina lente” pensai, affrettati lentamente.
Ne fui sorpresa e conquistata insieme. Una gran ricchezza di suoni, di colori e di profumi che tradivano lontane provenienze mi raccontava della moltitudine di popoli passati di là, ciascuno con la sua cultura e la sua religione, per brevi periodi o lunghi, stanziatisi in questa o quella parte della città in ragione della propria vocazione o della propria attività; mi parve di poterli rivedere tutti contemporaneamente. Compresi allora la ragione della presenza nei vari quartieri cittadini dei consolati di Germania, Grecia, Francia e Italia, con le relative scuole e “Centri di Cultura”, popolati da tanti Levantini e affollati di giovani frequentatori. Giudicai del tutto naturale quindi, che le strade risuonassero di tante lingue straniere. Ne’ mi parve più così strano l’essermi imbattuta, nel solo quartiere storico di Alsancak, in chiese di varie confessioni e persino in una sinagoga. Soddisfatta, al termine di quella faticosa giornata mi sedetti di fronte al mare per godermi il primo tramonto a oriente, disposta ora a concederti una possibilità.




mercoledì 30 marzo 2016

21 grammi

Annunziata si alza sempre di buonumore. Le bastano otto ore di sonno per dimenticare incazzature e delusioni accumulate nelle ventiquattro precedenti.  Al risveglio è pronta a dare una nuova opportunità a tutti, soprattutto a sé stessa. Invece, poi, entrata nel bagno le tocca sottrarre il primo punto dal credito di felicità che ha investito nel nuovo giorno.
Prima ancora di guardarsi allo specchio, infatti, pensa al suo nome e perde il sorriso.
Tutto comincia sempre dal nome. Le aspettative dei genitori ad esempio. Quando sono liberi di farlo, ne scelgono sempre uno che assomiglia ad un investimento. Tradisce la loro ansia di spingerti a forza tra i vincenti. Anche le prime ferite dell’inconscio, come lei ben sa, a volte hanno  le  radici piantate lì. Se tornasse a nascere le   piacerebbe chiamarsi Desirè o Vittoria o Federica. Uno qualsiasi di quei nomi da cui traspare subito che sei signora. Altro che la Madonna popolana dell’odiosa “supponta” alla nonna  a cui è stata condannata.
Nessun inizio prodigioso con Annunziata. Come lo camuffi un obbrobrio del genere? Magari levando la a che rimanda al "buon annuncio" dell'etimologia? Macché. Nunziata risulta ancora più cafona. Sua madre, in pubblico la chiama Tina. Per lei è un ulteriore impoverimento. Non consola affatto un moncherino di nome. Quattro lettere non bastano per ricompensarti di quello che vorresti essere. Avesse avuto il coraggio di adattarlo a Titti, come alcune sue compagne. Un cambiamento troppo sfrontato che non si è mai sentita di tentare. Quel nome di merda è stata la sua falsa partenza. Le è costato un faticoso riscatto. A suon di sacrifici ha conquistato un titolo di studio che –a conti fatti- l’emancipa solo in parte: pure come professoressa si sente una nota stonata. Pare che l’italiano insegnato da una Annunziata, per quanto dietro la cattedra lei ci si sieda tale e quale alle sue colleghe, sia meno forbito, quasi una lingua di seconda scelta. Si è convinta che c’è sempre un sorriso beffardo sulla faccia dei genitori che vengono a colloquio.
Se si fosse chiamata Desirè avrebbe i capelli lisci e setosi e non quel pagliaio informe di ricci che, hai voglia a stirare, al minimo accenno di umido si increspano.
Se si fosse chiamata Vittoria sarebbe alta e non quel mezzone di uno e cinquanta di femmina.
Se si fosse chiamata Federica sarebbe magra, senza la minima ombra del  culone che nessun abito riesce a dissimulare.
Tutto sarebbe stato più facile.
E dopo quei pensieri i punti tolti al credito di felicità diventano tre.
Manca ancora un passo  verso il baratro della sua consueta vita interiore, dentro “sé stessa”. Ogni mattina, da quando ha memoria, Annunziata, dopo aver fatto pipì, si mette davanti alla bilancia. Si toglie la camicia da notte, si sfila le pantofole e monta sospirando sulla piccola piattaforma digitale, ultima porta d’accesso alla stanza più buia della sua anima. Il buon umore e i buoni propositi restano naturalmente chiusi fuori, ridotti ad una facciata con cui si presenta al mondo.
Ha battezzato l’operazione “pesa delle vacche”. Chissà perché al plurale se la vacca è  solo lei.
Quando scende dalla bilancia Annunziata, con il verdetto annotato bene in mente, comincia la sua silenziosa battaglia.   Una sporca guerra che la tiene impegna da tempo. Una vita di lotte per costringere l’uno e cinquantacinque di rotondità in cui si risolve la sua persona nei 54 chili massimo che si è imposta anni fa di non travalicare mai. Un esasperante duello contro se stessa per stare nella 42.
Non è immaginabile quanto possa essere opprimente una zavorra che non sta sui fianchi o sul giro vita ma grava sulla sua mente. Non è immaginabile   quanto possa essere ingombrante quel peso fantasma che la fa vivere da pachiderma. Annunziata è costretta a tirarselo dietro non solo sulla bilancia. Quel peso che la schiaccia è impastato di tanti altri pesi  che lei conosce per nome ad uno ad uno e che si porta dietro ad ogni passo: il rimpianto per un piatto di pasta non mangiato, il desiderio di gelato non comprato, il senso di colpa per ogni strappo che si è concessa e le tentazioni  cui ha ceduto. Sono chili invisibili agli altri che lei si sente sui fianchi enormi e sul sedere grosso. Le rendono goffi i  tentativi di corsa o di ballo,  le deformano il  corpo, le impediscono ogni attività fisica, le annullano tutte le ipotesi di disinvoltura e di scioltezza.  Lei sola sa quanto possa essere somigliante al fiele il sapore delle privazioni a cui è costretta. Annunziata pensa a quello che si dice sui guerrieri: combattendo si logorano al punto che pur non rimettendoci la vita  ci lasciano alla lunga l’anima. Seppure fosse -si rincuora- poco male,  21 grammi guadagnati.

giovedì 24 marzo 2016

La mennulara di Simonetta Agnello Hornby

Premetto:
1) le parole che seguiranno sono da prendersi come appunti personali privi della benché minima pretesa  di costituire una analisi critica del testo.
Al termine  della lettura di un libro sono solita buttare giù  qualche riga a futura memoria, che per comodità, non già perché ne integrino una fattispecie, etichetto sbrigativamente come recensione. Trattasi quindi di semplici considerazioni. Mi sovvengono mentre leggo e le trascrivo per consultarle in seguito quando la nitidezza delle pagine lette è ormai sbiadita.
2) La lettura è piacere e lavoro insieme, al pari della scrittura. In maniera simile ad essa -giova ribadirlo- è attività  certosina e personale. Ne consegue che il giudizio su un libro è sempre soggettivo. Risente dei gusti, della sensibilità, della preparazione del lettore e forse anche del periodo storico in cui il  testo viene affrontato. 
3) Mettere nero su bianco  le impressione negative e le perplessità  lasciatemi da un romanzo è  cosa molto più difficile del profondermi in lodi ed entusiasmi.
Mi occorrono maggiore ponderazione e più parole per farlo. Nel caso in cui   esprimo dubbi, infatti, sento la necessità prima di ogni cosa di esordire con delle scuse: verso l'autore -naturalmente- il cui lavoro non mi ha persuaso e di seguito verso quegli amici -a cui resto pur sempre grata per il suggerimento- che  me ne  hanno caldeggiato la lettura.
Dico:-" Il libro non è male, ma su di me non ha fatto  presa. Capita. Mea culpa, chiedo venia. In ogni caso non è stato tempo sprecato. La lettura non lo è mai".

La Mennulara, ovvero raccoglitrice di mandorle è la protagonista del romanzo di esordio, datato 2002, di Simonetta Agnello Hornby, autrice popolarissima.
La storia è ambientata in  Sicilia, terra di origine della scrittrice. Si apre con la morte della Mennulara, al secolo Rosalia Inzerillo,  amministratrice  patrimoniale di una nobile famiglia in decadenza di cui era stata per anni serva fedele ed è, in buona sostanza, la ricostruzione della  vita  della  donna attraverso la  cronaca dei fatti seguenti l'evento luttuoso, i pettegolezzi sul suo conto che circolano tra i compaesani nonché i ricordi di amici, parenti e conoscenti.
Sono una lettrice molto attenta alla scrittura, la qualcosa talvolta rappresenta un limite al pieno godimento delle storie.  Ho notato qui alcuni 
nei, quasi impercettibili, che mi hanno -per così dire- distolto dalla narrazione. Il libro è un'opera prima, come ho già sottolineato. Probabilmente le imperfezioni a cui mi riferisco sono frutto di una precisa scelta dell'autrice avallata dall'editor. Si è optato per  uno stile "sporco"  che  si  armonizzasse al meglio con  le molte espressioni dialettali utilizzate -soprannome della protagonista compreso- allo scopo di enfatizzarne al massimo l'ambientazione sicula.  
" Padre Arena, assistito dal giovane parroco, si stava vestendo per officiare il funerale nella sacrestia della chiesa di cui era stato prevosto per molti anni". Ecco un primo esempio di intoppo in cui mi sono imbattuta.  Mi sono lasciata sopraffare dal dubbio che il buon Padre Arena officiasse il rito in sacrestia. Quando mi sono poi arresa all'evidenza che in quel luogo semplicemente si cambiasse d'abito, la magia che accompagna di solito la lettura era svanita.
"Una volta, al matrimonio di una nipote, tre uomini avevano dovuto darsi da fare per disincagliarlo dal banco, in cui era caduto incastrandocisi dentro". Qui, ancora limite mio, ho faticato un po' a superare lo scioglilingua. 
Leggo in digitale: chiedo scusa agli amanti del cartaceo. Ciò impedisce di riferire le pagine incriminate con precisione. Segnalo però  che  nelle quaranta righe finali del capitolo 17° la parola "passìo" si ripete per ben 6 volte.
Più avanti:" Andava di nuovo nei campi da sola a raccogliere la frutta, ortaggi, verdura lasciati ai contadini dopo la raccolta."  Quel "raccogliere" e quella "raccolta", mi hanno fatto soffrire, lo ammetto, così come la "terrazza" ripetuta altrove nell'arco di sei righe per tre volte.
E' brutto fare le pulci, lo so. Ma il mio cervello così processa ciò che mi passa sotto gli occhi.
Veniamo alla storia.
Ho dato una scorsa alle recensioni di altri lettori prima di pronunciarmi. L'accostamento più frequente è a "I vicerè" di De Roberto. Dissento. "I vicerè" è un romanzo di una complessità e di uno spessore narrativo che "La mennulara" è lontano da sfiorare. Ricorda forse più " La lunga vita di Marianna Ucrìa" di Dacia Maraini, ma siamo ancora su piani distanti.
Come sempre, l'invito per quanti inciamperanno in questi appunti è di leggere il libro e farmi sapere il proprio parere.
Resto in attesa!

giovedì 17 marzo 2016

Soccavo State of mind ( memorie soccavesi)

Mi chiamo Antonietta. Venni alla luce il 30 giugno di un anno che non vi dirò presso la clinica “Villa Cinzia” di Via Epomeo a Soccavo, da genitori entrambi e da più generazioni paesani doc.
La vita, il destino o la divinità -fate voi- mi hanno portato lontano dal sacro suolo che mi dette i natali. Nonostante l’esilio dorato –mi sono fatta pure tre anni a Posillipo, asciugando ‘le pezze’ al soffio della più nobile fra le brezze marine - continuo a definirmi soccavese. La ragione è che Soccavo -Signori miei- non è un semplice quartiere. Soccavo è un presupposto. Soccavo è uno “state of mind.”
Dice che le memorie siano la morte dello scrittore. Se non si è votati al suicidio perché buttare giù queste righe? Per rendere giustizia a “sub cava”, l’antico agglomerato di scavatori di piperno. Per infrangere l’immeritato silenzio dell’anonimato. Per spingerla finalmente sotto i riflettori della gloria. Le sorti del Vomero furono magnificate da Starnone in “Via Gemito”. Posillipo fu cantata dal suo La Capria. Al nostro “Bronx minore” non restano che brutte menzioni in cronaca e fugaci apparizioni nei racconti pulp di Lanzetta. Eppure gente capace ne ha sfornato quest’ ultimo avamposto della frontiera occidentale cittadina. E’ ora che uno dei suoi figli si assuma l’onere di celebrarla.
Scorrendo la storia della fascia di terra acquattata sotto ai Camaldoli con pregevole vista sulla vomerese-Napoli-bene, si apprende che l’area dove oggi sorge il quartiere coincideva con la parte rurale di Neapolis detta in greco "kora". Signori miei, sono soddisfazioni. Noi autoctoni ci pigliamo finalmente la rivincita. Non è cosa da poco veder confermato dai libri, una volta e per tutte, ciò che da sempre e con orgoglio sosteniamo: “Soccavo è Kor ‘e Napoli”. E che cuore. Pulsante, palpitante, vibrante.
Vi siete mai concessi una capatina in zona il sabato pomeriggio o la mattina di una qualsiasi delle feste comandate? Non un filo di traffico lungo la rotta per l’agognata meta. Il resto della città è sonnacchiosa. Si crogiola in una calma tutta residenziale fino a quando non si arriva all’ingresso nord della strada dello scioppìng per antonomasia, Via dell’Epomeo, perennemente inzeppata di auto, brulicante di gente come nemmeno la più affollata Avenida brasiliana in pieno carnevale.
A questo punto per individuare “il tipo antropologico locale” è necessaria una precisazione.
I furastieri, sono quelli che commettono l’imperdonabile svarione di identificare Soccavo con Via dell’Epomeo. I paesani, invece, sempiterni vigili delle tradizioni locali, li riconosci perché si divertono a rimarcare il grossolano errore.
Un Soccavese doc farà sempre la differenza tra l’essere e l’abitare. Lui, nella fattispecie, abiterà pure in via dell’Epomeo ma sarà sempre prima di ogni cosa di Soccavo.
Essere stato generato dal ventre di questa madre significa portarsi dentro il know how per qualsiasi scenario la vita ti proponga.
Anche se la città, senza chiederti il permesso, s’è inglobata la campagna del nonno dove raccoglievi le arance da bambino, quella selvatica delle partite di pallone da adolescente e quella “dei monti” delle Pasquette a chilometro zero e tu ora ti atteggi a cittadino, la verità è che sei e sempre resterai campagnolo.
E’ con quello spirito cafone che sei emigrato per la prima volta, zaino in spalla, alla volta del Vomero per fare le scuole grosse, ché a Soccavo non ci stavano le superiori. Così quando più tardi ti sei trovato a mangiare il pane salato, trapiantato lontano per motivi di lavoro, sapevi già come andava la faccenda del distacco, del sentirsi un pesce fuor d’acqua, dell’essere straniero a casa altrui.
A Soccavo, per quanto fino agli anni ottanta non ci sia stata un’ autonoma rappresentanza di intellettuali –i laureati li importavamo sempre dalla stessa famigerata collina vomerese affinché, come missionari laici, ci istruissero o ci curassero alla bisogna - non ci è mancato nulla.
La grande musica, dal punk a Woodstock, partiva dall’Inghilterra e dall’America e veniva a illuminare i nostri pomeriggi delle estati senza mare. Tanto per dirne una abbiamo pianto la morte di Bob Marley come fosse uno di noi, imbrattando di scritte alla memoria parecchi dei più prestanti muri del quartiere.
Grazie a una coraggiosa avanguardia di cultori che facevano contrabbando letterario anche il Gabbiano Jonathan si è librato nell’azzurro dei cieli soccavesi regalandoci, sotto il segno delle sue cabrate, i primi aneliti verso una sconosciuta libertà.
Pure il pugno allo stomaco della droga ci ha colpiti. Proprio come nella Berlino di Cristiana F. abbiamo avuto il nostro piccolo zoo di anime fragili e ribelli. Dolore, lacrime e vite drammaticamente spente, che rimarranno nel cuore come una sanguinosa ferita permanente.
Soccavo, insomma, meglio di New York o Londra e -mettiamoci pure il Medioriente- anche di Istanbul. Soccavo paradigma e dagherrotipo di tutta la storia mondiale, nazionale, cittadina. Soccavo state of mind, appunto.
Non c’è un tempo sufficientemente lungo da cancellare le origini. Così, quando dici che vieni da Napoli e qualcuno, affidandosi a una frase fatta, ti chiede: - “sei nato all’ombra del Vesuvio?” - Ancora oggi tu sorridi e di rimando replichi: - “ma ‘qua Vesuvio: io sono nata all’ombra dei Camaldoli”

Fringe 7° parte "il ritorno"

L’insolito inizio di giornata cominciava ad essere cosa lontana.
Il senso di avventura già affievolitosi al ritorno a casa ora si andava definitivamente spegnendo. Non le rimaneva che tornare se stessa. Rimettersi in carreggiata nel tentativo di concludere qualcosa di buono prima che facesse notte.
Questo fu il primo pensiero sensato venutole in mente  fino ad allora. 
Tuttavia non se la sentì di mettersi a riordinare e rimandò le faccende  all’indomani.  Lo stomaco brontolò. Si ricordò allora di non aver toccato cibo e che il frigo era agli sgoccioli.  Di nuovo la prospettiva di applicarsi in una qualsiasi attività, fosse solo l’andare al supermercato, non l’allettò affatto. Rinviò anche la spesa al giorno successivo. Avrebbe provveduto di ritorno dall’ufficio.
Poche volte nella vita le era successo di ammutinarsi con tanta ostinazione contro sé stessa. Di sentire i buoni propositi e gli obblighi indebolirsi pian piano fino ad arrendersi completamente sotto i colpi della    svogliatezza.  
Procrastinare: un verbo che non le era mai piaciuto. Un inclinazione che aveva sempre condannato. 
Una volta nella vita –quel pensiero la sorprese- avrebbe battuto la fiacca.  Infondo non si trattava di pigrizia quanto piuttosto di  spossatezza: capita a volte, quando un imprevisto ci distoglie dalla solita routine, di far fatica a recuperare il giusto ritmo.   
Si concesse solo una breve telefonata al lavoro per giustificare l’assenza e pianificare gli impegni del giorno successivo.
Seduta davanti al televisore, un panino tra le mani e la birra sul tavolo in attesa della prima sorsata, si abbandonò al ricordo della mattinata.
Le bruciava di aver pensato, nel momento di difficoltà, a John. 
La infastidiva soprattutto di averlo fatto nel peggiore dei modi, sminuendo se stessa e riservando a lui il ruolo migliore. Si, le mancava. Si, rimpiangeva d’averlo lasciato. Tuttavia ragionando a mente fredda, ripercorrendo il passato, non poteva essere così ingiusta verso sé stessa. Doveva a John molto. Grazie a lui aveva smussato gli spigoli più vivi del proprio carattere, ma lui si era rivelato troppo egoista, pretendendo da lei sacrifici di carriera, anteponendo a quelle di lei le sue aspirazioni e ambizioni.  Non certamente lo aveva fatto per maschilismo, semplicemente per protagonismo. Era un leader che non avrebbe mai accettato di essere gregario.  Lei desiderava un rapporto alla pari. Così aveva deciso di rifondare sé stessa prendendo al volo l’incarico di responsabilità che l’aveva riportata a casa. 
Ora era stanca anche di quella vita.
Perché   doveva accontentarsi sempre di una singola porzione e non  poteva mai avere l’intera torta? Prima una fetta di un amore, ora una di realizzazione sul lavoro. Sentiva che da qualche parte c’era qualcosa di più che l’attendeva. 
Ancora una volta lo sfinimento la vinse: evidentemente non era il momento neppure di concedersi lunghi ragionamenti. Prima che se ne rendesse conto era di nuovo tra le braccia di Morfeo.  Il sonno tuttavia  fu tutt'altro che  tranquillo.
Sognò di essere sotto alla fringe nell’attimo prima di finire in terra centrata dallo zaino. Nel sogno ebbe la prontezza di schivarlo   non distogliendo lo sguardo dal buco. Vide un paio di gambe penzolanti verso  terra come nell’atto di acquistare la posizione più idonea a scivolare di sotto contenendo al minimo i danni dell’impatto. La parte superiore della sagoma maschile seduta sul bordo della fenditura teneva le braccia tese in corrispondenza del bacino sforzandosi di sostenere l’intero peso del corpo per darsi lo slancio necessario al salto.  Il ragazzo tratteneva il pezzetto di carta, che gli copriva perciò il volto, tra le labbra.  L’stinto di riempire i polmoni prima di buttarsi lo avevano costretto, gioco forza , ad aprire  seppure impercettibilmente le labbra e il pezzo di carta  gli era volato via. Quell'imprevisto aveva fatto perdere la concentrazione ad entrambe. Lei aveva seguito la traiettoria del foglio. Lui aveva esitato un attimo, incerto. Un istante dopo la frattura spaziale si era richiusa.
Questa volta il suono della sveglia risuonò in lontananza forte e chiaro. Ancora ad occhi chiusi si mise a sedere e cercò con i piedi le pantofole. Si rese conto di  non essere in pigiama e soprattutto di non essere nel suo letto. Ricordò allora che prima del sogno, appena interrotto bruscamente dal risveglio, la fringe nel cielo c’era stata davvero. 


 


giovedì 10 marzo 2016

Fringe (6 parte: indizi)

Così fu, infatti. Quando puntò il naso all’insù uscendo dall’abitacolo, dello spettacolare buco in direzione del quale aveva fin lì guidato non era rimasta quasi traccia. Si era rimpicciolito alle dimensioni di un foro troppo piccolo per spiarci attraverso ma sufficiente a lasciar cadere ancora qualcosa. Scattò in avanti per afferrare il foglio di carta che le svolazzava incontro ma non fece in tempo a schivare lo zaino. Non era grande e neppure pesante, come ebbe modo di constatare dopo che si fu rialzata, ma l’altezza da cui era arrivato glielo aveva fatto piombare addosso con la potenza di un gigantesco masso. Mentre lei era schiacciata al suolo senza respiro, la radio cominciò a ritrasmettere musica, il sole ricomparve al solito posto, uno stormo di uccelli volò all’orizzonte e il cielo tornò compatto. Sentì la stanchezza calarle addosso. Desiderò solo tornare a casa e ributtarsi a letto. Si ficcò il pezzo di carta in tasca, raccolse lo zaino e risalì in macchina con il pensiero focalizzato sulle quattro pareti domestiche in cui voleva correre a rifugiarsi.
Erano le 6. La strada in senso inverso come al solito sembrò più breve.
Una volta a destinazione assecondò l’unico suo bisogno. Si rificcò nel letto ancora tiepido con i vestiti in dosso. Avrebbe lasciato su anche le scarpe non fossero state così pesanti. Chiuse gli occhi e con quell’ultimo pensiero piombò nell’ incoscienza buia del sonno.
Si svegliò a pomeriggio inoltrato per la necessità di fare pipì. Era rincoglionita. Conati di vomito salivano dallo stomaco.
Non se ne stupì. La nausea non era una novità portata dall’avventura mattutina. Il malessere che la scuoteva ormai da tempore non era altro che il sintomo della  maledetta solitudine.
Era sola al mondo. Se non ci fosse stata l’urgenza della vescica null’altro  le avrebbe interrotto il  sonno. Non una telefonata di persone care o amici. Neppure di colleghi.
Lei era un’invisibile.
Scacciò i pensieri inutili e tornò, come sempre, presente a sè stessa. Cavò il biglietto dai pantaloni, prese lo zaino e se li portò in camera. Seduta al centro del letto si concentrò dapprima sulla pagina. Era stata strappata da un comune quaderno a quadretti. C’erano riportate delle date. Quella di oggi era cerchiata e sottolineata più volte, come a rimarcare quanto fosse importante. Fu il turno della zaino. Ne estrasse il contento e le venne da ridere. Le cose che tirava fuori erano di una banalità sconcertante. Si sarebbe aspettata oggetti che lasciassero presupporre 
nell'altra dimensione scenari   fantascientifici ,   la borsa  invece era stata fatta più o meno con gli stessi criteri con cui lei stessa aveva preparata poco prima la sua: acqua, viveri, soldi. Unico indizio che non fosse stata improvvisata bensì   frutto di una pianificazione accurata erano le due paia di mutante e il cambio d’abiti   ben compattati sul fondo. 
Il proprietario era un uomo, forse un ragazzo, alto ma di corporatura media a giudicare dalla taglia e dallo stile degli abiti. Basandosi sulla calligrafia avrebbe detto  non ordinatissimo, ma di carattere. Le cifre  erano chiare e essenziali, le lettere dei mesi prive di fronzoli. I tratti, in entrambi i casi, erano irregolari ma decisi e ben calcati.


mercoledì 9 marzo 2016

"La vita accanto" di Mariapia Veladiano.

Libro di questa settimana è nientepopodimeno che un "premio Calvino". Si tratta infatti di "La vita accanto " di Mariapia Veladiano vincitore nel 2010 del prestigioso riconoscimento, nonché finalista nel 2011 allo Strega.
Leggo parecchio e in una media da lettrice forte  statisticamente il romanzo che non mi lascia  pienamente entusiasta ci sta.
La Veladiano racconta  di una bambina  brutta in modo inconsueto  che a causa di tale deformità  vive nascosta tra le pareti domestiche fino all'età scolare, sottratta agli sguardi malevoli del mondo. Affidata alle cure di una balia tuttofare e della gemella del padre  non conosce l'affetto della madre, vittima di un esaurimento nervoso che l' imprigiona in un'ostinato silenzio, rendendola incapace di interagire con lei.  Il padre medico, uomo irreprensibile, veglia sulla creatura e sulla moglie   tiepidamente, mostrando di non possedere  grande forza di carattere.   Rebecca, questo è il nome della sventurata creaturina,  scoprirà un innato talento per la musica grazie prima alla zia, anch'ella pianista e poi ad un professore di conservatorio che la guiderà nella carriera artistica.
Oltre alla protagonista, tutti i personaggi  che le ruotano intorno  sono creature   a diverso titolo  dolenti.
Lo è la balia, che si strugge in lacrime al ricordo del marito e figli prematuramente scomparsi, lo è la zia, animo tormentato, lo è il padre prigioniero a sua volta delle tre figure femminili della sua vita. Il professore di piano vive in  segreto  il suo dramma, così come sua madre che da anni finge una malattia della memoria. Segnate sono anche le esistenze   dell'amichetta di scuola di Rebecca e della sua mamma, costrette a lasciare la città.
Non è la concentrazione di afflizioni in una così ristretta cerchia di vite che mi  ha turbato.
Il linguaggio della Veladiano non è mai sovrabbondante. E' anzi moderato e si tiene entro rigidi confini non debordando mai in eccesso di piagnisteo. Rebecca non verrà mai colta in lacrime, neppure nelle scene più drammatiche.
Mi  ha lasciato perplessa il fatto che il libro tradisca nella fase conclusiva le attese create in preparazione di un epilogo nel quale si poteva osare di più e invece si è optato, a parer mio, per l' eccessiva semplificazione. L'autrice, in altre parole, ha disseminato il libro di piccoli indizi che lasciano immaginare storie torbide e scenari inquietanti, tuttavia alla fine i nodi si dipanano in modo  quasi elementare.  Le ipotesi a cui ci aveva costretti  la scrittrice, cioè, si sciolgono, lasciando delusi, come neve al sole ( mi concedo anche io una immagine abusata  ). Le soluzioni offerte  sono  prive di  consistenza. Le ragioni che hanno ispirato le condotte di alcuni  personaggi  fin troppo banali. Confesso il mio limite ma  mi è sfuggito persino  se ci fossero reali e plausibili motivi dietro la  pazzia che conduce la madre di Rebecca al suicidio.
Al di là dei miei rilievi  da invasata, il libro naturalmente si legge tutto di un fiato.
Il mio consiglio naturalmente è di farlo.
Resto in attesa di vostri riscontri.

martedì 8 marzo 2016

8 Marzo


oggi è l'otto marzo.
Non ci sarebbe da aggiungere nulla.
Sono nata che la giornata della donna timidamente si faceva spazio tra gli altri giorni del calendario.
Sono cresciuta che era assurta già a dignità di vera e propria celebrazione.
Mi sono ritrovata, nella mezza età, a dovermene quasi vergognare, a disdegnarla. Mi riferisco a quando, negli scorsi anni, tale giorno è divenuto pretesto, ( ad opera di persone che si sono riempite la bocca della parola femminismo, di cui ignorano tuttavia il senso e le implicazioni),  per festeggiamenti brutti, beceri, dal sapore di cibo fortemente avariato, maleodoranti di maschilismo spinto, camuffato da pensiero progressista.
Oggi molti scelgono di evitare la retorica.
Certo, che sia bandita la pura retorica. Ma non rimanga, nello spazio sottratto  agli affabulatori, ai venditori di parole, ai narratori di professione che null'altro sono se non imbonitori di folle, il silenzio.
Il tacere è più vuoto della più vuota retorica.
Non sono mai parole sprecate quelle dirette a chi deve ancora essere educato, sensibilizzato su certi temi, su taluni argomenti.
Presupporre che tutto sia noto a tutti, produce danno e ingiustizia sociale. Comporta il rinunciare ad un ruolo  formativo e didattico che dovrebbe essere   funzione sociale di tutti noi.
Essere donna non è condizione di nascita.
Essere donna è una costruzione. E' un'operazione fondante  rigorosa,  che implica energia, fatica, determinazione, coraggio.
Un lavoro coinvolgente  ogni soggetto che entri nell'orbita di un essere umano di genere femminile.
Fare retorica è sostenere che i discorsi sull'uguaglianza di genere siano superflui.
Fare retorica è dire che l'argomento debba essere affrontato ogni giorno, che la donna debba essere celebrata ogni giorno, dimenticando che l'argomento è vilipeso ogni sacrosanto giorno e la donna è offesa ed oltraggiata ogni santo giorno, ad ogni angolo di mondo.
Fare retorica significa sottovalutare il potere di una giornata della memoria.
La giornata dedicata alle donne è una giornata dedicata alla memoria passata, presente e futura di tutte coloro che lottano ogni giorno per costruire la propria dignità di genere , tentando di coinvolgere in questo lavoro quanti ( uomini e donne ) sono ancora restii a recepire il concetto di uguaglianza

domenica 6 marzo 2016

Dove troverete un altro padre come il mio. Di Rossana Campo

“E ora voglio sapere –urlò a un tratto la donna con una forza terribile- voglio sapere dove troverete in tutta la terra un altro padre come il mio!” (Isaac Babel’).
Il libro di oggi è “Dove troverete un altro padre come il mio” di Rossana Campo, edizione Ponte alla Grazie.
Rossana Campo è una scrittrice di grande talento. L’avevo apprezzata già nel “Il posto delle donne” edito, sempre da Ponte alle Grazie, nel 2013. Confermo la mia ammirazione, mille volte moltiplicatasi dopo la lettura di questo ultimo lavoro, già candidato al Premio Strega, prima ancora che dalla Parrella e Riccardi  da Umberto Eco, e scusate se è poco.
L’anno scorso, di questi tempi, teneva banco un articolo uscito su The Stranger (rivista americana che si occupa di letteratura) dal titolo “Cose che posso dire dei master di scrittura adesso che non insegno più.” L’autore, Alain Boudinot, scrittore nonché ex insegnante di scrittura creativa, si pronunciava contro i memoir ,  cavallo di battaglia dei suoi studenti, facendo notare che
 a nessuno frega niente dei  problemi altrui soprattutto se sì è mediocri nel raccontarli. Aggiungeva che, salve poche eccezioni, tutti coloro che  vi si cimentano sono dei narcisisti che usano il genere come terapia  volendo che gli altri si sentano dispiaciuti per loro. Al contrario, le migliori prove di scrittura, secondo Boudinot, derivano proprio dalla volontà di regalare al lettore un’esperienza piacevole.
Dopo la morte del padre, Rossana Campo ne trasporta il ricordo nelle 160 pagine di questo piccolo gioiello. Non è, lo diciamo subito, un memoir. E’ piuttosto, per il lettore, l’esperienza piacevole di cui sopra. Attraverso i ricordi la Campo mira, riavvolgendo il nastro della storia di famiglia , a ritrovare  prima di tutto sé stessa.
C’è tanta vita in “Dove troverete un altro padre come il mio”. C’è delicatezza. Affetto. Un filo di tristezza che non è mai dolore pulsante. La narrazione è fatta di parole reali, concrete. Direi pensate, non inventate. Mai, in ogni caso, svenevoli o pietose. Ci sono una pulizia e una lucidità che catturano chi legge conducendolo all’ultima riga pienamente pacificati con Renatino, il padre squinternato che ferisce per poi curare i tagli  con la medesima inconsapevolezza con cui li  ha inflitti.
La Campo ha aspettato il giusto tempo per esporre la sua ferita. Ha scelto di mostrarla quando non c’è più sangue, quando la sofferenza è un ombra che si lascia solo  intravedere -pari come intensità alle gioie- quando sulla carne un tempo lacerata ci può passare il dito per tastarne la presenza. Ha atteso che il passato divenisse  una cicatrice che però non è sfregio ma  parte di sè,  suo segno di riconoscimento.






sabato 5 marzo 2016

"On writing" di Stephen King

Ho finito “On writing” di Stephen King, traduzione di Giovanni Arduino, edizione Frassinelli.
Appena chiuso l’ho sistemato nella pila dei libri da “perenne consulto”, quelli cioè che stanno sempre sul comodino o mi porto in giro per casa spulciandoli ogni tre e quattro.
Provo a prenderlo dalla parte inversa, questo “Sulla scrittura”. No, tranquilli. Non comincerò a parlarvene partendo dall’ultima pagina.
Tenterò piuttosto di vendervelo come un testo imprescindibile “On reading”, vale a dire come un manuale sulla lettura.
A me, quando arrivo per la prima volta in una città –lo confesso- non piace andare per musei esclusivamente per smarcare la visita dall’elenco delle cose obbligatorie da fare. Chiarisco il punto. E’ che i musei non sono centri commerciali, con vetrine davanti alle quali sfilare passivamente. Bisogna andarci preparati. Il massimo sarebbe accompagnati da una guida. Che senso ha fermarsi due minuti davanti a quella –tutto sommato- minuscola figura di donna che sorride enigmatica e che non è neppure poi tanto bella, se non lo si fa per valutare la mano e la mente del pittore? Così per i libri. Si, è vero. Leggiamo “per legittima difesa”, per ritrovare pezzi di noi stessi, per conoscere altre realtà, per vivere più vite, ma dovremmo leggere anche per imparare qualcosa sulla scrittura. L’obiettivo del mio suggerimento è di andare oltre le ore di piacevole evasione che una storia ci fornisce. Non pretendo che si abbia tutti un approccio da analisi semiotica -dopo la morte di Eco il termine non è del tutto ignoto- con il testo. Semplicemente sostengo che per apprezzare ciò che c’è sulla pagina e   gratificare –perché no- l'autore, riconoscendone non solo il talento ma anche il lavoro fatto per piegare alla propria volontà l’istinto, occorre saperne un minimo di tecnica di scrittura. King è – lo dico senza tema di smentite- un ottimo maestro. Regalatevi un giro tra le pagine di “on writing” come fosse la visita in una negozio di gemme dove vi spiegano le basi della faccenda. E’ probabilissimo, anzi certo che continuerete a non saper riconoscere ad occhio un diamante puro da uno di seconda scelta, ma almeno avrete imparato la differenza tra il brillante e lo zircone. Cosa non da poco, non credete?


martedì 1 marzo 2016

Fringe ( 5 Il passato)

Riconsiderò le due opzioni iniziali e scartò l'ipotesi tangenziale. Si dette della deficiente per il semplice fatto di averla presa in considerazione. Pensava forse di trovare lungo il tragitto l'indicazione  " buco nel cielo procedere dieci chilometri e poi svoltare a destra"? 
L'unica era imboccare il lungomare e proseguire dritto improvvisando.
Le strade erano deserte: niente auto o pullman in circolazione. Nessun altro essere umano. Alzò gli occhi verso il cielo: neanche uccelli. La città era immersa in un pesante sonno, benché l'ora -aveva buttato uno sguardo al cellulare- avrebbe presunto già un certo movimento. 
Con un altro gesto istintivo accese la radio. 
Silenzio anche da quel fronte.
La Fringe era più vicina ma si rimpiccioliva.
L'astronomia e la fisica non le  tornavano utili, ma la storia avrebbe potuto fornirle qualche indizio.
Cento anni prima che lei nascesse la scienza si era spinta  molto oltre le soglie dei consolidati criteri di gestione umani. Era stato quasi obbligatorio resettare la civiltà, rinunciare alle innovazioni e alle  ibridazioni tecnologiche  più avanzate  per tornare alla età in cui i progressi fornivano aiuto all'uomo senza le   irrisolvibili complicazioni etiche e  le implicazioni giuridiche seguite poi.
Il punto di non ritorno era stata la legalizzazione delle unioni tra uomini e androidi  seguita al riconoscimento dei matrimoni tra umani e cyborg.
Quando, contro ogni previsione e aspettativa, dalle coppie erano stati generati i primi "discendenti" le cose erano precipitate. Persino il nome per la progenie aveva dato problemi:  la parola figlio infatti designava la creatura umana e non era riferibile agli ibridi.
Per scongiurare una guerra civile la soluzione migliore fu aprire una fringe e, invertendo le onde gravitazionali, confinare nell'altra dimensione tutte le forme di intelligenza antropomorfe primarie, le ibride e quelle derivate, insieme naturalmente ai coniugi umani che avessero scelto quella opzione.
Era  calato l'oblio sulle esistenze dei confinati, cui  era seguito l' occultamento  degli accadimenti degli ultimi decenni. Per convenzione era stata asportata dalla storia del pianeta l'intera sezione ad essi relativa . 
Chi o che cosa aveva riaperto la frontiera tra i due mondi? E soprattutto perché?
La strada era disseminata dagli oggetti che la spaccatura nel cielo, ormai ridotta a una centinaio di metri, continuava a sputare. 
Lo slalom a cui era costretta le imponeva una velocità moderata.
Temeva di arrivare troppo tardi, di non riuscire ad osservare il fenomeno in attività.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...