Annunziata si alza sempre di buonumore. Le bastano otto ore
di sonno per dimenticare incazzature e delusioni accumulate nelle ventiquattro precedenti. Al risveglio
è pronta a dare una nuova opportunità a tutti, soprattutto a sé stessa. Invece, poi, entrata nel bagno le tocca sottrarre il primo punto dal credito di
felicità che ha investito nel nuovo giorno.
Prima ancora di guardarsi allo specchio, infatti, pensa al suo nome e perde il sorriso.
Tutto comincia sempre dal nome. Le aspettative dei genitori ad esempio. Quando sono liberi di farlo, ne scelgono sempre uno che assomiglia ad un investimento. Tradisce la loro ansia di spingerti a forza tra i vincenti. Anche le prime ferite dell’inconscio, come lei ben sa, a volte hanno le radici piantate lì. Se tornasse a nascere le piacerebbe chiamarsi Desirè o Vittoria o Federica. Uno qualsiasi di quei nomi da cui traspare subito che sei signora. Altro che la Madonna popolana dell’odiosa “supponta” alla nonna a cui è stata condannata.
Prima ancora di guardarsi allo specchio, infatti, pensa al suo nome e perde il sorriso.
Tutto comincia sempre dal nome. Le aspettative dei genitori ad esempio. Quando sono liberi di farlo, ne scelgono sempre uno che assomiglia ad un investimento. Tradisce la loro ansia di spingerti a forza tra i vincenti. Anche le prime ferite dell’inconscio, come lei ben sa, a volte hanno le radici piantate lì. Se tornasse a nascere le piacerebbe chiamarsi Desirè o Vittoria o Federica. Uno qualsiasi di quei nomi da cui traspare subito che sei signora. Altro che la Madonna popolana dell’odiosa “supponta” alla nonna a cui è stata condannata.
Nessun inizio prodigioso con Annunziata. Come lo camuffi un obbrobrio del
genere? Magari levando la a che rimanda al "buon annuncio" dell'etimologia? Macché. Nunziata risulta ancora più
cafona. Sua madre, in pubblico la chiama Tina. Per lei è un ulteriore
impoverimento. Non consola affatto un moncherino di nome. Quattro lettere non
bastano per ricompensarti di quello che vorresti essere. Avesse avuto il
coraggio di adattarlo a Titti, come alcune sue compagne. Un cambiamento troppo
sfrontato che non si è mai sentita di tentare. Quel nome di merda è stata la sua
falsa partenza. Le è costato un faticoso riscatto. A suon di sacrifici ha
conquistato un titolo di studio che –a conti fatti- l’emancipa solo in parte:
pure come professoressa si sente una nota stonata. Pare che l’italiano
insegnato da una Annunziata, per quanto dietro la cattedra lei ci si sieda tale
e quale alle sue colleghe, sia meno forbito, quasi una lingua di seconda scelta.
Si è convinta che c’è sempre un sorriso beffardo sulla faccia dei genitori che
vengono a colloquio.
Se si fosse chiamata Desirè avrebbe i capelli lisci e setosi e non quel pagliaio informe di ricci che, hai voglia a stirare, al minimo accenno di umido si increspano.
Se si fosse chiamata Vittoria sarebbe alta e non quel mezzone di uno e cinquanta di femmina.
Se si fosse chiamata Federica sarebbe magra, senza la minima ombra del culone che nessun abito riesce a dissimulare.
Tutto sarebbe stato più facile.
E dopo quei pensieri i punti tolti al credito di felicità diventano tre.
Manca ancora un passo verso il baratro della sua consueta vita interiore, dentro “sé stessa”. Ogni mattina, da quando ha memoria, Annunziata, dopo aver fatto pipì, si mette davanti alla bilancia. Si toglie la camicia da notte, si sfila le pantofole e monta sospirando sulla piccola piattaforma digitale, ultima porta d’accesso alla stanza più buia della sua anima. Il buon umore e i buoni propositi restano naturalmente chiusi fuori, ridotti ad una facciata con cui si presenta al mondo.
Ha battezzato l’operazione “pesa delle vacche”. Chissà perché al plurale se la vacca è solo lei.
Quando scende dalla bilancia Annunziata, con il verdetto annotato bene in mente, comincia la sua silenziosa battaglia. Una sporca guerra che la tiene impegna da tempo. Una vita di lotte per costringere l’uno e cinquantacinque di rotondità in cui si risolve la sua persona nei 54 chili massimo che si è imposta anni fa di non travalicare mai. Un esasperante duello contro se stessa per stare nella 42.
Non è immaginabile quanto possa essere opprimente una zavorra che non sta sui fianchi o sul giro vita ma grava sulla sua mente. Non è immaginabile quanto possa essere ingombrante quel peso fantasma che la fa vivere da pachiderma. Annunziata è costretta a tirarselo dietro non solo sulla bilancia. Quel peso che la schiaccia è impastato di tanti altri pesi che lei conosce per nome ad uno ad uno e che si porta dietro ad ogni passo: il rimpianto per un piatto di pasta non mangiato, il desiderio di gelato non comprato, il senso di colpa per ogni strappo che si è concessa e le tentazioni cui ha ceduto. Sono chili invisibili agli altri che lei si sente sui fianchi enormi e sul sedere grosso. Le rendono goffi i tentativi di corsa o di ballo, le deformano il corpo, le impediscono ogni attività fisica, le annullano tutte le ipotesi di disinvoltura e di scioltezza. Lei sola sa quanto possa essere somigliante al fiele il sapore delle privazioni a cui è costretta. Annunziata pensa a quello che si dice sui guerrieri: combattendo si logorano al punto che pur non rimettendoci la vita ci lasciano alla lunga l’anima. Seppure fosse -si rincuora- poco male, 21 grammi guadagnati.
Se si fosse chiamata Desirè avrebbe i capelli lisci e setosi e non quel pagliaio informe di ricci che, hai voglia a stirare, al minimo accenno di umido si increspano.
Se si fosse chiamata Vittoria sarebbe alta e non quel mezzone di uno e cinquanta di femmina.
Se si fosse chiamata Federica sarebbe magra, senza la minima ombra del culone che nessun abito riesce a dissimulare.
Tutto sarebbe stato più facile.
E dopo quei pensieri i punti tolti al credito di felicità diventano tre.
Manca ancora un passo verso il baratro della sua consueta vita interiore, dentro “sé stessa”. Ogni mattina, da quando ha memoria, Annunziata, dopo aver fatto pipì, si mette davanti alla bilancia. Si toglie la camicia da notte, si sfila le pantofole e monta sospirando sulla piccola piattaforma digitale, ultima porta d’accesso alla stanza più buia della sua anima. Il buon umore e i buoni propositi restano naturalmente chiusi fuori, ridotti ad una facciata con cui si presenta al mondo.
Ha battezzato l’operazione “pesa delle vacche”. Chissà perché al plurale se la vacca è solo lei.
Quando scende dalla bilancia Annunziata, con il verdetto annotato bene in mente, comincia la sua silenziosa battaglia. Una sporca guerra che la tiene impegna da tempo. Una vita di lotte per costringere l’uno e cinquantacinque di rotondità in cui si risolve la sua persona nei 54 chili massimo che si è imposta anni fa di non travalicare mai. Un esasperante duello contro se stessa per stare nella 42.
Non è immaginabile quanto possa essere opprimente una zavorra che non sta sui fianchi o sul giro vita ma grava sulla sua mente. Non è immaginabile quanto possa essere ingombrante quel peso fantasma che la fa vivere da pachiderma. Annunziata è costretta a tirarselo dietro non solo sulla bilancia. Quel peso che la schiaccia è impastato di tanti altri pesi che lei conosce per nome ad uno ad uno e che si porta dietro ad ogni passo: il rimpianto per un piatto di pasta non mangiato, il desiderio di gelato non comprato, il senso di colpa per ogni strappo che si è concessa e le tentazioni cui ha ceduto. Sono chili invisibili agli altri che lei si sente sui fianchi enormi e sul sedere grosso. Le rendono goffi i tentativi di corsa o di ballo, le deformano il corpo, le impediscono ogni attività fisica, le annullano tutte le ipotesi di disinvoltura e di scioltezza. Lei sola sa quanto possa essere somigliante al fiele il sapore delle privazioni a cui è costretta. Annunziata pensa a quello che si dice sui guerrieri: combattendo si logorano al punto che pur non rimettendoci la vita ci lasciano alla lunga l’anima. Seppure fosse -si rincuora- poco male, 21 grammi guadagnati.