mercoledì 12 dicembre 2018

La settima funzione del linguaggio di Laurent Binet

Quello di oggi sarà un Consiglio di lettura per tappe. Arriverò al romanzo, infatti, solo dopo avervi suggerito due soste preliminari.
La prima è questa: un articolo de "Il libraio.it", nel quale si conferma quanto molti di noi, che ci adoperiamo nel web parlando di letteratura, narrativa e scrittura, avevamo già compreso, ovvero che:" Diventa importante il peso di social e blog (le community) come strumenti di comunicazione più significativi nella spinta all’acquisto/scelta di un libro".
La seconda sosta  è questa spumeggiante recensione di Alessandra Chiàppori, collega blogger, entusiasta di semiotica ( studiosa mi sembra riduttivo), alla quale rivolgo il pubblico ringraziamento ( a conferma delle affermazioni contenute nel link precedente) per avermi attirata nel vortice de "La settima funzione  del linguaggio".
A mia volta mi assumo la responsabilità di rilanciare l'invito a leggere il romanzo.
A chi lo consiglio: chiaramente a quanti apprezzano la semiotica.
A chi, al contrario, della materia è completamente a digiuno ma è curioso del mondo indagato e divulgato in Italia da Umberto Eco.
A chi è appassionato di gialli e abbia voglia di seguire un'indagine sui generis.
Lo spunto per la trama è l'assassinio di Ronald Barthes Una inedita e male assortita coppia di investigatori, Bayard, commissario conservatore nell'animo, e Simon Herzog, accademico di idee  progressiste, porta il lettore, nel tentativo di risolvere il mistero, in giro per il mondo, Francia, America, Italia, ma anche nella storia, catapultandolo nei giorni della tenzone  tra Giscard d'Estaing e Mitterrand o della strage di Bologna.
Un romanzo intelligente, interessante, imperdibile per chi si riconosce nelle categorie di cui sopra.
Binet ha firmato un'avventura grazie alla quale si ha modo di incontrare i più grandi protagonisti della disciplina semiotica,  con leggerezza, evitando il peso e le difficoltà del canonico saggio.
Buona lettura! 




martedì 11 dicembre 2018

Di niente e di nessuno di Dario Levantino

Cosa qualifica un romanzo, dal punto di vista del lettore, come “riuscito”? Senza dubbio la capacità di rapire chi sta al di là delle pagine, assoggettarlo senza concedergli requie, renderlo incapace di pensare ad altro che non sia la conclusione della storia, perché dentro quella storia lo fa muovere come se si fosse, tanto le è aderente, nella vita vera: incassando colpi, schivandoli, odiando, amando e sperando bene.
Per scrivere un racconto così occorrono talento e coraggio, che – a rifletterci bene – vanno a braccetto, si sostengono a vicenda. Il talento di puntare, per recuperare l’autenticità smarrita da molta letteratura contemporanea, su una lingua tascìa (neologismo palermitano traducibile con l’ormai italiano tamarro), facendosi bastare poche parole, talvolta «violente e in putrefazione» per eludere «l’inganno degli orditi che esse tramano». Il coraggio di lasciare il protagonista libero, conferirgli l’autonomia di agire senza paura di niente e di nessuno, consentirgli di fare, contro logica e morale, tutto quello verso cui lo spinge l’istinto primordiale di ragazzo solo e ferito. 
Estro e audacia di cui Dario Levantino  dà ampia e compiuta prova, nel suo Di niente e di nessuno (159 pagine, 17,50 euro), edito da Fazi. Il trentaduenne professore palermitano, trapiantato al nord per ragioni sentimentali, nell’arco apparentemente striminzito di 159 pagine, ha realizzato un avvincente romanzo di formazione. Rosario, nome che sa di devozione ai santi e obbligatorie omonimie tramandate da generazioni, quando lo incontriamo per la prima volta, è intento a marciare sui binari della retta via, con l’ostinazione e lo zelo di chi aspira a cambiare il futuro cui lo destinerebbe la storia familiare. Sotto la cura della madre, prigioniera di un rapporto coniugale che le assegna il ruolo di vittima sacrificale, e la sorveglianza del padre, ambizioso intrallazzatore dalla doppia vita, fa la spola tra Brancaccio, quartiere «aborto umano, non luogo», dove è nato, e la zona bene di Palermo in cui frequenta il liceo, consapevole che il suo andirivieni è cosa più complessa del mero percorrere un tragitto cittadino.
È un funambolismo tra paesaggi urbani, la periferia imbarbarita e il centro ben curato, antitetici; tra codici linguistici, il palermitano domestico e l’italiano scolastico, su piani comunicativi incompatibili; tra paradigmi umani, modelli sociali e strutture familiari inconciliabili. È soprattutto una spedizione senza ritorno dall’adolescenza all’età adulta. Un viaggio durante il quale gli restiamo al fianco sebbene delusi, increduli e a tratti arrabbiati, mentre lui, il nostro Rosario, smarrito, afflitto, emarginato, deraglia nel tentativo di restare a galla. Romanzo di pura fantasia, assicura Levantino in questa intervista a LuciaLibri. Nessun riferimento autobiografico, dice l’autore. A maggior ragione, già apprezzato innanzi lo stato di grazia della sua penna e il coraggio, tocca qui complimentarsi per la sua sensibilità di uomo che gli ha dettato un simile distillato di autentica fragile giovinezza, ancorché solo immaginata.
Questa recensione è apparsa su LuciaLibri che ringrazio. 

lunedì 10 dicembre 2018

"Loro sono Caino". Presentazione


Cose da non fare: scrivere di getto. Scrivere di getto, non rileggere.  Scrivere di getto, non rileggere e "pubblicare" sul blog.

Visto che quella appena trascorsa è stata la settimana del "mi butto", non voglio rompere l'incantesimo e continuo: occhi chiusi, apnea e lo faccio, provo la terna di cui sopra. Quindi sorbitevi questo post frienno mangianno su come è andata venerdì.
Breve spiegone per quelli che se lo fossero perso ( credo veramente pochi, dato che vi ho bersagliato di memorandum): Venerdì ero insieme allo scrittore Flavio Ignelzi a Caserta per presentare il suo primo romanzo "Loro sono Caino".
Con il presente voglio prima di tutto ringraziare Flavio per avermi voluta come madrina della serata. Essendo stata tra coloro che lo hanno istigato a delinquere, lo hanno cioè spinto a scrivere il romanzo, volentieri ho condiviso con lui l'emozione dell' esordio di fronte al pubblico.
Mi sono molto divertita, lo ammetto. Quindi doppio grazie per l'opportunità che mi ha dato di fare una cosa che mi piace fare, parlare di libri belli, e praticare quello che io chiamo "apostolato culturale".
 Sono di parte, troppo coinvolta per uno dei "miei consigli di lettura" su "Loro sono Caino". Vi dico solo che è un romanzino ( ma solo per numero di pagine, badate bene!) pregno, in quanto alla scrittura, al genere e al tema. Flavio ha fatto un gran bel lavoro.
Leggetelo. Poi mi direte. :D

giovedì 6 dicembre 2018

Passione


Cosa significa esattamente essere appassionati di letteratura contemporanea? Passare dallo stato di aviatore ( i classici bene o male sono un cielo finito, esauribile, almeno potenzialmente) a quello di astronauta in volo nello spazio che ricerca mondi dove si annidano germi di future classicità.
Ogni nuova uscita in libreria una possibile scoperta. Ma l'universo è infinito e pur innestando la velocità di curvatura non si potrà mai esaurire l'inesauribile. Allora leggi " a carotaggio". Di ogni romanzo, libro, saggio, titolo che richiama la tua attenzione ti concedi, prima dell'acquisto, il dieci per cento omaggio delle case editrici. Non è sufficiente e spesso lasciare, rinunciare per scarso interesse, poco coinvolgimento, giudizio di mediocrità o insufficienza su quelle poche pagine significa innestare sensi di colpa e timori che il meglio arrivasse più avanti. Riponi il libro ma non rinunci alla possibilità di riprenderlo quando avrai quel tempo libero che in realtà non avrai - per questo perverso gioco di curiosità- mai.
Di questi abbandoni non parli mai, quasi fossero figli della vergogna.

Siamo tutti politici Sanguineti

Siamo tutti politici (e animali):
premesso questo, posso dirti che
odio i politici odiosi: (e ti risparmio anche soltanto un parco abbozzo di catalogo
esemplificativo e ragionato): (puoi sceglierti da te cognomi e nomi, e sparare
nel mucchio): (e sceglierti i perché, caso per caso)
ma, per semplificare,
ti aggiungo che, se è vero che, per me (come dico e ridico) è politica tutto,
a questo mondo, non è poi tutto, invece, la politica: (e questo mi definisce,
sempre per me, i politici odiosi, e il mio perché:
amo, così, quella grande politica
che è viva nei gesti della vita quotidiana, nelle parole quotidiane (come ciao,
pane, fica, grazie mille): (come quelle che ti trovi graffite dentro i cessi,
spraiate sopra i muri, tra uno slogan e un altro, abbasso, viva):
(e poi, lo so che non si dice, ma, alla fine, mi sono odiosi e uomini e animali)
Edoardo Sanguineti

mercoledì 5 dicembre 2018

Il Tizio

Ho conosciuto un tizio, una volta, in un libro.
Uno di quelli bislacchi, a cui, loro malgrado, succedono cose strane. Per volontà del narratore, si intende. Non gli succedevano cose rocambolesche. Su questo punto voglio essere chiara. Niente sparatorie, inseguimenti, e nessuna vicenda con “sfumatura di colori annessa”, se mi spiego. Uno che, quando all'inizio leggi la sua vita, partendo dal punto in cui lo scrittore decide di buttartelo tra i piedi, pensi che sia un povero sfigato, tanto che ti rigiri tra le mani le duecento pagine del libro e ti chiedi come farai a superare tutta quella esistenza normale, piana, comunissima per arrivare al finale.
Poi quel tizio, ad un certo punto, fa una cosa e tu cominci a capire che un po’ ti assomiglia. Ne fa un’altra e  confermi l’impressione. Allora prosegui nella lettura perché lo capisci fino in fondo, ormai ti sei identificato. Ma gli scrittori a volte sono malvagi. Ad un certo punto il mio -o meglio quello del mio libro- ha fatto capitare una cosa al suo personaggio -che ormai è anche il mio- che a me non mi è mai successa, o almeno così mi sembrava. Allora il mio spirito   è declassato da forte identificazione a semplice interesse nella storia e così sono arrivata all'ultimo rigo.
Però a questo tizio io ho pensato molto, dopo. Quando ti hanno fatto compagnia per un po’ è vero quello che si dice sui protagonisti delle storie: diventano amici. E naturalmente sugli amici, o meglio sulle loro vicende non smetti di rimuginare .
Gli scrittori a volte vanno di metafora . E ci vanno giù duro. Non rimandi semplici e oggettivi da una cosa ad un’altra. A volte ti dicono “razzi”, ma parlano di cazzi  o di pazzi.  E tu fatichi a capire che quel razzo sei tu. Tu sai di essere più esplicitamente un cazzo o un pazzo e ci metti tempo a dedurre che la storia del razzo è anche la tua.
Quel tizio che ho conosciuto nel libro, leggeva libri. Li ha letti fino a che non è stato aggredito, per strada e senza una ragione, da alcuni bulli ignoranti. Per il solo fatto che camminasse con la testa ficcata tra le pagine quei trogloditi lo hanno pestato a sangue mandandolo in ospedale. Allora da bulimico è diventato anoressico. Niente. Non riesce più a leggere una riga che gli sale su il vomito. E così fino alla fine.
Personalmente non sono stata mai picchiata a sangue da trogloditi. Ma fate conto che.
Quel razzo è diventato un cazzo o un pazzo quando ho capito di essere stata malmenata anche io da tanti pseudo scrittori al punto che spesso, ultimamente, ho sentito salirmi il vomito davanti a certe pagine. Sono stata aggredita con pesanti errori di grammatica, di sintassi. Con   storie prive di interesse, con prose pesanti come macigni. Con ipertrofie avverbiali recidivanti, aggravate e reiterate. Basta. Ho giurato, vedendo la fine che ha fatto il tizio che ho conosciuto nel libro, che cambierò, nel caso, marciapiede. Ma basta farsi bullizzare dai falsi scrittori.
  

"Un valore è andato perduto: la vergogna". L'ultimo appello di Ernesto Sábato

Uno dei miei autori preferiti. Poco letto purtroppo. Se vi capita fate vostro quel libro geniale dal titolo " Sopra eroi e tombe" che ne contiene a sua volta un altro di altrettanta bellezza mozzafiato " rapporto sui ciechi".



"Certi giorni mi alzo con una speranza demenziale, momenti in cui sento che la possibilità di una vita più umana è a portata di mano. Questo è uno dei giorni. Allora mi metto a scrivere quando ancora è l’alba, quasi con cautela, ma con l’ urgenza di chi scende in strada per chiedere aiuto di fronte al pericolo di un incendio, o come un battello che, nel momento di affondare, lancia un ultimo e accorato segnale ad un porto che sa vicino, purtroppo assordato dai rumori della città e dalle insegne che confondono lo sguardo.



Ma possiamo ancora aspirare alla grandezza. Troviamo questo coraggio. Tutti, una volta o l’altra, ci siamo arresi. Però, se qualcosa non tradisce è la convinzione che solo i valori dello spirito possono salvarci dal terremoto che minaccia la condizione umana…

Un valore è andato perduto: la vergogna. La gente non si vergogna più. Succede che, mescolate alle persone per bene, possiamo incontrare con ampi sorrisi, certi tipi accusati della peggiore corruzione. In passato le famiglie di questi tipi si seppellivano in casa, mentre i corrotti oggi vengono trattati come ogni altra persona, e le televisioni li invitano e li intervistano col garbo una volta riservato ai signori.

Nel nostro Paese tanti uomini e tante donne si vergognano nelle grandi città. Non ne capiscono i rituali. Tragicamente il mondo sta perdendo l’originalità dei suoi popoli, la ricchezza delle differenze, nel desiderio di clonare gli esseri umani per meglio dominarli. Ma quando tutto è desacralizzato si precipita nel caos e l’esistenza viene rattristata dall’amaro sentimento dell’assurdità…

Il degrado dei tribunali e la sfiducia nella giustizia danno la sensazione che la democrazia sia un sistema incapace di cercare e condannare i colpevoli. Il risultato è un clima favorevole alla corruzione con l’amarezza che sarebbe possibile denunciarla perchè solo nei sistemi non democratici non si può fare. Sistemi dove la corruzione esiste fino ad essere più corrotta e degradante, se diamo per buona la definizione di Lord Acron: «Il potere corrompe, ma il potere assoluto corrompe assolutamente». Eppure anche nella democrazia succede e spesso. Non è sempre stato così. C’erano persone dignitose, mai intascavano beni dei quali non avevano diritto. Non rubavano. Ricordo che mio padre si è mangiato il suo mulino per un credito nel quale era impegnato solo con la parola. Niente di scritto. Ne è seguito un immenso dolore. Ma era indegno per un vero uomo tradire la propria responsabilità, sentimento d’onore che dava la forza del vivere in pace. E che dire di cos’erano una volta i sindacati. Con candore ricordo la storia di quel signore svenuto per strada e quando lo rianimano i soccorritori vogliono sapere come abbia potuto perdere i sensi per fame con tanti soldi nel portafogli. Sbalordito per la domanda ha risposto: “ma i soldi non sono miei, sono soldi del sindacato”. Non che allora non esistesse la corruzione, ma la maggioranza delle persone difendeva l’onore con l’ esempio quotidiano. E rubare un bene comune era il peccato peggiore. Continuo a pensarla così.

Chiunque ruba i soldi che servono ad educare, chiunque ruba a mutue e pensioni, o infila in tasca il denaro dei contratti pubblici, non deve essere salutato. Non possiamo far finta di niente con i corrotti. Non possiamo far apparire nelle televisioni personaggi che hanno seminato il malcostume, contribuendo alla miseria; non possiamo mostrarli come gente normale ai bambini. Questa è l’oscenità. Come educare le nuove generazioni lasciandole nell’incertezza: sono eroi o criminali? Si dirà che esagero, ma non è forse un crimine che milioni di persone vivano nella povertà se si rubi loro il poco del quale hanno diritto? A quanti scandali abbiamo presenziato eppure tutto va avanti come prima e nessuno – con i soldi in tasca – finisce in galera. Certe persone continuano a mentire alla radio, alla televisione, sui giornali, e un’onda gigantesca che ci avvolge e non lo si può impedire. Fa sentire la gente impotente: alla fine scoppia così la violenza. Dove arriveremo?

martedì 4 dicembre 2018

Panorama di Tommaso Pincio

Ci sono casi, come questo, in cui i giudizi vanno espressi senza giri di parole e un superlativo va speso senza timore di esagerazioni.
Tommaso Pincio, pseudonimo di Massimo Colapietro, è uno dei nostri scrittori di maggior talento. Il nome d’arte, italianizzazione di Thomas Pynchon (mostro sacro della letteratura postmoderna americana) dice molto del suo legame con l’America. Fresco di studi all’Accademia di Belle Arti, infatti, il nostro autore si trasferì a New York, dove ha maturato la vena letteraria.
Con Panorama, recentemente vincitore del Sinbad, premio internazionale dei librai indipendenti, ne salutiamo il ritorno in libreria. Affermazione, quest’ultima, da prendersi alla lettera, poiché su espressa indicazione dello scrittore il libro è disponibile esclusivamente in edizione cartacea.
Ottavio Tondi, il protagonista del romanzo in cui Tommaso Pincio fa da voce narrante, è un lettore: sua unica velleità” sbirciare e origliare nelle vite altrui” seduto su un divano.  Il padre, commercialista da generazioni, lo avrebbe voluto erede della tradizione di famiglia. Ottavio, invece, si trincera con ostinazione nella sua passione, che il caso trasforma in un vero e proprio lavoro. Legge manoscritti per conto di un importante editore indicando quelli da pubblicare. Grazie ad una delle sue fortunate intuizioni è dato alle stampe il più grande caso letterario di sempre. Comincia così una lunga sequela di traversie che gli segneranno irreparabilmente la sorte. Per sottrarsi ad un progressivo isolamento,  Tondi, accogliendo  il  suggerimento dell’amico Mario Esquilino , approda al social Panorama. Concepito sul modello del Panopticon, la prigione ideale del filosofo Jeremy Bentham, progettata in modo da consentire ad un unico carceriere di sorvegliare tutti i detenuti, Panorama, diversamente da Fb, prevede che ciascun utente abbia una telecamera sempre in funzione fissa su un punto della casa. Soluzione necessaria per creare ad ogni iscritto l’illusione di poter osservare tutti.   Tondi divenuto nel frattempo incapace di leggere, annota sul social le citazioni dei libri che gli affiorano alla memoria, lasciandone però ignoto lo scrittore. Puntuale l’utente Ligeia, anch’ella lettrice, il cui profilo rimanda l’immagine di un letto disfatto ingombro di oggetti personali e una “canna” fumata per metà, ne indica l’autore. Dal fugace contatto alla quotidiana corrispondenza di messaggi privati, via via più personali, il passo è breve.  Ottavio e Ligeia intratterranno, fino a quando la ragazza sparirà nel silenzio, un rapporto d’amore virtuale lungo ben quattro anni.
Il romanzo di Pincio ha la cifra stilistica, il ritmo narrativo e il contenuto dei grandi classici. Ha, di questi ultimi, soprattutto la semplicità e l’eleganza. Si divora con la malinconia mista al rammarico di dovere, alla fine, congedarsi dal proprio beniamino, tipica dei racconti che ti conquistano fin dalle prime battute e ti tengono per sempre.
I libri, pur quando pretendono di essere narrazione del contemporaneo, spesso falliscono l’obbiettivo di plasmare protagonisti che siano  archetipi dell’uomo figlio di quel contesto. L’Ottavio uscito dalla penna di Pincio  ne è, invece, a tutti gli effetti e -come suggerisce pesino il nome- a tutto tondo un autentico esemplare. E’ uomo del suo tempo quando in qualità di semplice lettore -appassionato ma al contempo disincantato- dimostra di avere piena coscienza dello stato del mondo editoriale e letterario, di cui dice: “Gli aspiranti scrittori volevano diventare scrittori, gli scrittori volevano diventare scrittori di successo, gli scrittori di successo volevano diventare scrittori apprezzati dalla critica”. E’ uomo del suo tempo quando non dubita che un rapporto sentimentale  nato e consumato su un social sia amore a pieno titolo. “Era il 7 aprile del primo anno di corrispondenza con Ligeia Tissot. Già l’amava”, scrive a tal proposito Pincio. E’ infine uomo del suo tempo quando intuisce il futuro della letteratura: “Ebbe dunque la seguente illuminazione: non era morta la letteratura, erano morti loro, i letterati.  La letteratura esisteva ancora, ma in una forma nuova, non più cartacea, non più scritta per essere letta. (…) Le parole e le cose che vedeva scorrere su Panorama non erano forse un racconto in continuo rifacimento? In quel piacere spasmodico di osservare le vite degli altri non si realizzava forse la sua idea di letteratura, origliare e sbirciare?  L’unico nostro rammarico, leggendo le sue parole è di trovarci in disaccordo con Pincio: finché ci saranno scrittori della  sua levatura  –per nostra fortuna- nulla è perduto. Nessun requiem, ne’ per la letteratura, ne’ per i letterati che ne restano i superbi cultori.
Questo consiglio di lettura è apparso sulla rivista  
Itali@Magazine 
il 30 novembre 2015 con il titolo " Sempre bellissimo il Panorama del Pincio… anche quando si tratta di un libro!"

lunedì 3 dicembre 2018

Terminus Radioso di Antoine Volodine

Oltre le colonne d’Ercole della letteratura nostrana non c’è solo quella americana. Tutt'altro. Il vecchio continente regala ancora scrittori di razza e perle d’inestimabile valore: Antoine Volodine e il suo Termius Radiosus ( edizioni 66thand2nd, traduzione Anna D’Elia) ne sono un esempio. 
“Terminus radioso” non è un libro per tutti. Non mi si fraintenda: credo nel canone e santifico Harold Bloom. Credo in una scrittura alta (letteraria) e una bassa ( di intrattenimento) che possono nascere entrambe vive e vitali da ogni sottogenere ( fantascientifico, horror, giallo) . Credo anche che i libri, appartengano alla prima o alla seconda categoria, sono dal canto loro democratici e nel destinarsi ad un pubblico non facciano differenza tra lettori colti e lettori poco o mediamente istruiti. E’ tuttavia vero che, affinché l’alchimia tra chi legge e il testo si compia, è necessario che ciascuno scelga il libro più calzante per . Come un paio di scarpe comode per percorrere lunghe distanze, come un cappotto della giusta misura e consistenza per proteggersi dal freddo così il libro deve essere della nostra taglia. 
Terminus radioso ha una costruzione non convenzionale. Non c’è un’evoluzione organica della trama. Alterna flussi di racconto a farneticazioni poetiche in cui spesso il lettore si perde, così come si perdono gli stessi protagonisti. Neppure la successione temporale del racconto è agevole. Proprio per questa potenza immaginifica, per questi continui strappi onirici a me è piaciuto. Dubito, però, che possa coinvolgere un lettore non appassionato di « letteratura che viene dal nulla e va verso il nulla» ( definizione di post- esotismo, la corrente di cui Voladine è rappresentante), dacché il romanzo non giunge neppure a una conclusione certa. Naturalmente il consiglio di lettura resta qui, a disposizione di tutti. Se decidete di prendervi il rischio del fuori pista, ripassate a raccontarmi, magari, come è andata l'escursione.

domenica 2 dicembre 2018

Impiegato

- " Qua non è un problema di software, Signora mia, . Direi piuttosto che è nell'Hardware, dove per Hardware intendo quel personaggio lì seduto dietro la tastiera, che c'è il difetto. Lui è la parte più dura e vecchia di questo sistema informatico"-
-" Voi vi intendete di computer, Signorina?"
-" No, Signora, affatto. Più che di computer qua si tratta di esseri umani. Quell' impiegato là si crede minimo minimo Bill Gates. Da quando una decina di anni fa gli hanno tolto di mano la penna e gliel'hanno sostituita con quel coso , lui si è immedesimato nei panni di chissà quale scienziato. Nel vecchio edificio dove era prima la ASL, stava in piedi dietro a uno sportello , mo' che lo hanno messo addirittura seduto alla scrivania, si sente un ingegnere della NASA.
Guardate che boria, che arroganza, che prosopopea.
Quello il nome di un medico su una tessera sanitaria deve stampare.
Non deve fare altro che riempire due spazi vuoti, due, signora mia, e a lui gli pare di fare un'arca 'e scienza. Venti minuti ci mette, venti come minimo, per digitare un nome e un cognome sopra, e un codice fiscale sotto.
Quel "dito digitale" che ha sviluppato, quell'unico dito medio, che rigido come fosse un cacciavite di precisione, imprime con forza e puntiglio sui tasti delle lettere, è il suo orgoglio e il mio terrore.
Lo solleva ogni volta prima di mezzo metro e poi lo assesta da quell'altezza sul bottone della tastiera , per ogni singola lettera, quasi con metrica precisione, impegnandoci più di un minuto. E se per caso deve fare un "copia-incolla", Signora cara, allora è la fine. Si riassetta sulla sedia, si irrigidisce sano sano, si concentra, afferra il mouse e compie il miracolo.
Infine alza lo sguardo tronfio sulla vittima che gli siede davanti e sorride in attesa del ringraziamento solenne. Il rituale è preciso. E in verità, ogni utente il ringraziamento lo tributa. Ma non a lui, come egli erroneamente immagina. Non è per lui l'espressione di gratitudine che illumina il viso dello sventurato. E' per quella bella Madonna, che pure questa volta ci consente di tornare a casa in tempo per il Natale."

giovedì 29 novembre 2018

Litania per la sopravvivenza di Audre Lorde ( traduzione di M. Giacobino)

 Per quelle di noi che vivono sul margine
Ritte sull’orlo costante della decisione
Cruciali e sole
Per quelle di noi che non possono lasciarsi andare
Al sogno passeggero della scelta
Che amano sulle soglie mentre vanno e vengono
Nelle ore fra un’alba e l’altra
Guardando dentro e fuori
E prima o poi allo stesso tempo
Cercando un adesso che dia vita
A futuri
Come pane nelle bocche dei nostri figli
Perché i loro sogni non riflettano
La fine dei nostri

Per quelle di noi
Che sono state marchiate dalla paura
Come una ruga leggera al centro delle nostre fronti
Imparando ad aver paura con il latte di nostra madre
Perché con questa arma
Questa illusione di poter essere al sicuro
Quelli dai piedi pesanti speravano di zittirci
Per noi tutte
Questo istante e questo trionfo
Non era previsto che noi sopravvivessimo

E quando il sole sorge abbiamo paura
Che forse non resterà
Quando il sole tramonta abbiamo paura
Che forse non si alzerà domattina
Quando abbiamo la pancia piena abbiamo paura
Dell’indigestione
Quando abbiamo la pancia vuota abbiamo paura
Di non poter mai più mangiare
Quando siamo amate abbiamo paura
Che l’amore svanirà
Quando siamo sole abbiamo paura
Che l’amore non tornerà
E quando parliamo abbiamo paura
Che le nostre parole non verranno udite
O ben accolte
Ma quando stiamo zitte
Anche allora abbiamo paura

Perciò è meglio parlare
Ricordando
Che non era previsto che noi sopravvivessimo

martedì 27 novembre 2018

E' tutto qui, tutto si riduce al corpo di Diane Lockward

E' tutto qui, tutto si riduce al corpo,



mi manca il suo volto, la sua voce, la sua pelle.

Immagino mia figlia mentre balla a Madrid, Barcellona

e Siviglia. La vedo scalare le montagne dell'Andalusia.

Non avevo immaginato quanto sarebbe stato lontano il lontano.



Felicità e infelicità sono la stessa cosa,

sostiene il mio soave maestro zen:

e allora mi chiedo se la mia testa

stia sostenendo il cielo, o se è un'emicrania

quella che sale.



Allora, giro in tondo, torno al luogo dove esattezza e

estasi si incontrano, allora ricordo come ho portato in me il girino

del suo corpo, molto prima del primo fremito, trattenendola

come un segreto dentro di me.



Mi sveglio la notte perchè mi manca

una parte del corpo, il braccio si tende attraverso l'oceano,

agganciato al passato, e mi chiedo,

come la madre di Achille deve aver fatto,

Quale parte di te non ho tuffato in acqua?



Appesantita dall'assenza, appendo le tende alle sue finestre,

metri e metri di delicato pizzo irlandese .

Mi nascondo dietro la porta, pressando l'orecchio al legno,

e osservo la sua corsa serale, spio la vita di mia figlia.

le sue cene notturne a Saragozza.

La stanza si riempie del profumo di gazpacho, di paella, di sangria.



Qualcosa simile al dolore cola dentro di me, qualcosa simile alla gioia.

Mi infilo tra le onde, mi perdo nella risacca,

il mio folletto d'acqua, la mia ninfa marina, ricordo il modo

in cui scivola attraverso la stanza, la bassa marea

della sua voce. Il modo in cui ci lascia,

senza fiato, come pesci ai suoi piedi.

domenica 25 novembre 2018

Ritratto di signora

Mi chiamo Giuseppina Esposito, nata a Napoli il 24 giugno del 1952. Per tutti sono Peppina.Ho letto su una rivista del vostro concorso letterario.Non mi sono mai concessa colpi di testa. Considero queste due cartelle che vi invio, il primo, in una intera vita fatta esclusivamente di gesti ragionevoli, necessari e dignitosi.Non sono una scrittrice, non sono al di sotto dei trent'anni, non aspiro a vincere la vostra borsa di studio. Ciascuno dei requisiti da voi indicati escluderebbe  la mia partecipazione, eccetto quello principale: richiedete un “Ritratto di signora”. Io il ritratto ce l’ho: è il mio e ve lo invio, con la speranza che possa essere utile a qualcuno.Sono una signora di sessantuno anni, non di quelle belle, brune, con i capelli sempre a posto e le unghie curate, che hanno realizzato nella loro esistenza la maggior parte delle cose che si erano proposte da giovani. Il colore castano dei miei capelli, tagliati in un caschetto facile da gestire, è frutto delle tinture che mi ingegno a fare in casa da me per coprire i capelli bianchi. Le mie unghie sono semplicemente rese più lucide da una sola , sbrigativa, passata di smalto trasparente anche quella opera mia.
Sono alta poco più di un metro e mezzo. Posseggo il fisico ordinario di chi non si è mai potuta concedere nulla di più delle creme anticellulite a buon mercato dei grandi magazzini. Delle diete fai da te costituite essenzialmente da digiuni lette sulle riviste femminili. Di lunghe camminate sotto il peso grave delle buste della spesa, nell'illusione che sostituiscano la palestra, che per una questione di soldi non mi sono mai potuta permettere.Il mio aspetto è quello ordinato e composto della madre di famiglia attenta alle apparenze. Fingo una “finezza”che non posseggo per nascita e spero che l’occhio altrui non colga la fatica di comporre, con estenuanti giri tra i banchi del mercato, un abbigliamento distinto e decoroso, versione economica di quella idea di lusso rubata alle vetrine dei ricchi.Il mio papà era un mite artigiano. La mia mamma una donna volitiva e a suo modo ambiziosa. Voleva fornire alla figlia, oltre alla dote classica di gioielli, masserizie e biancheria, anche un titolo di studio che ne accrescessero il valore , rendendola un partito migliore delle altre concorrenti agli occhi di eventuali candidati al matrimonio. Mi fecero studiare da segretaria alla scuola di avviamento professionale. Non erano grandi studi, - lo so bene-, ma certamente quella uscita di casa, negli anni 60, rappresentava una rivoluzione per una ragazza nella mia condizione sociale. Anche il passo seguente fu considerato estremamente moderno: al termine dei tre anni pretesi di andare a lavorare. Me lo concessero a condizioni che – ora mi rendo conto- erano tutte sbagliate e inammissibili, ma che io accettai. Acconsentii che fosse un impiego “part time”,-come si dice oggi-, in un luogo vicino casa , dove le colleghe fossero tutte donne e soprattutto che quest’avventura si concludesse alla vigilia di un eventuale matrimonio. Per me non finire in un laboratorio di sartoria o tra apprendiste ricamatrici, -il destino di tutte le mie coetanee- era comunque una conquista, e non mi opposi.
Perché dovrebbe interessarvi il mio ritratto monocromatico e piatto, privo del tutto di talento artistico, così scialbo e usuale?Perché le soffitte sono colme di tele dove il volto della sofferenza ha le sembianze moderate e disciplinate della normalità , ed è forse giunto il momento che questi visi vengano alla luce . Il buon partito arrivò, come sperava mamma. La differenza di età che c’era tra noi non mi impedì di innamorarmi di lui. Era bello, distinto, aveva modi compiti e mi corteggiava molto rispettosamente.
Gestiva insieme alla madre una merceria che avrebbe ereditato “a babbo morto”, come si usava dire allora.Ne rimanemmo entrambe affascinate, la mamma ed io. Nel turbinio emozionale dei 17 anni regalai senza riserve il mio cuore, carico dei sogni e delle ambizioni di ragazza moderna, a quel giovanotto. Lo stesso fece mia madre, che aprì il suo, senza che alcun dubbio la sfiorasse, per accogliere colui che incarnava i suoi desideri: un bravo marito per l’amata figlia, benestante e di buona famiglia. L’unico che colse gli indizi della brutalità, tenuta a bada con maestria dietro quell'apparenza pacata e bonaria, fu il mio papà, nella sua mitezza. Proprio mio padre orfano di madre dalla nascita, a cui dunque nessuno aveva insegnato il dogma della superiorità maschile e che quindi si era affidato pacatamente (non da debole, bensì da pari) alla moglie, colse la rozzezza del mio futuro marito, tanto da propormi, mentre attraversavamo insieme la navata verso l’altare nel giorno delle nozze, di tornare a casa con lui. Il ritratto di signora che vi porgo, il mio , è un puzzle composto da un numero incalcolabile di bugie. Invenzioni a cui sono ricorsa per costruire la rispettabile facciata di una vita normale.Una menzogna, il ripetere che mi bastasse essere “solo sangue prestato” –come sentenziava mia suocera- allo scopo di dare a mio marito dei figli, perpetuare il cognome di famiglia.Una menzogna, l’ accogliere i suoi rimproveri e sopportare i suoi insulti, considerandoli meritati.Una menzogna, il ritenere che i soldi contati al centesimo, che lui mi concedeva, fossero sufficienti, mentre lottavo per far quadrare i conti e sfamare i figli.Una menzogna, il ribadire che fossi felice di essere seduta al tavolo insieme ai miei bambini, mentre ogni giorno sognavo di essere altrove.Una menzogna, il rifugiarmi nell'illusorio piccolo orgoglio di saper dattilografare, stenografare, far computi di ragioneria, per consolarmi di un' esistenza così sofferta, e sostenere il paragone con quelle evidentemente più serene delle amiche mie.Una menzogna, il convincermi di non aver voglia di parlare a mia madre, cercando di ignorare il lucchetto inserito nel disco dei numeri, che mi impediva di telefonarle .Una menzogna, infine, il negare che desiderassi ascoltare parole d’amore, mentre lui mi parlava con l’unico linguaggio che conoscesse: mani pesanti e dure che mi schiaffeggiavano il viso, l’ orgoglio, l’ animo.Ancora oggi, a distanza di 10 anni dalla morte di mio marito, causata da un infarto che lo stecchì sul colpo, lasciandogli una metà del corpo cupa e livida, quasi che la sua anima cattiva si fosse finalmente palesata, io mi ostino a fingere di essere stata felice con lui, di essere stata una moglie come le altre, di essere stata una donna, come le altre.

sabato 24 novembre 2018

L’ultima notte di Willie Jones

Questo consiglio è apparso su LuciaLibri, giornale online di approfondimenti culturali legati al mondo letterario ed editoriale.  
New Iberia, Louisiana, anno del Signore 1943. Dopo otto mesi di carcere il diciottenne di colore Willie Jones è al suo ultimo giorno di pena. Accusato da un uomo bianco di averne stuprato la figlia, suicidatasi poi per timore dello scandalo, alla mezzanotte andrà sulla sedia elettrica. Questa la sintesi de L’ultima notte di Willie Jones (302 pagine, 18 euro), tradotto da Silvia Rota Sperti, titolo originale The Mercy Seat, con cui l’editore Solferino introduce ai lettori italiani Elizabeth Winthorp.
Ispirandosi alle storie di Willie McGee e Willie Francis, entrambi di colore, giustiziati negli anni cinquanta sulla Feroce Gertie, la sedia elettrica su cui sono morte ottantasette persone, Elizabeth Winthorp intinge la penna nel calamaio d’inchiostro corvino e vischioso dell’odio razziale e dei linciaggi, per scrivere dell’America rurale dove essere di colore costituiva colpa indelebile e la sanzione capitale presupposto non negoziabile della giustizia legale. Ci regala, souvenir del viaggio a ritroso nel tempo, un romanzo sostanzioso, complesso, attuale, nel quale è tratteggiato, con impressionante forza evocativa, il clima che ristagna laddove allignino intolleranza razziale e giustizialismo. Un romanzo che, per il forte valore simbolico, meriterebbe di essere letto dalle scolaresche, suonando come un monito contro la seduzione di quelle brutali convinzioni tornate purtroppo a far proseliti. La Mercy Seat del titolo originario e Willie Jones di quello italiano, pur essendo, in quanto protagonisti, all’apice dell’architettura narrativa del libro, non possono dare voce alla propria storia, per la ragione oggettiva di consistere in un ammasso di legno e cavi elettrici la sedia, e per essere in uno stato di sospesa incredulità il condannato. Viene loro in soccorso un originale tessuto connettivo di ottanta sezioni, in cui sette uomini bianchi e due di colore danno corpo alla cronaca dei fatti e alla descrizione del clima generale al margine dell’evento. Una pianificazione strutturale felice, che agendo come una centrifuga, separa il tema politico, elemento solido del romanzo, dall’altro, liquido, attinente alla sfera dei sentimenti. Winthorp carica, in questo modo, le questioni sociali sulle spalle della Feroce Gertie e di Wille, strumento e vittima dell’iniquo sistema penale, per cristallizzarne l’empietà e il dolore in un monolite che schiacci il lettore. Al contrario, frammenta le emozioni tra i vari personaggi affinché, trasformate in un caleidoscopio, investano e trapassino chi legge con ognuna delle loro possibili sfumature.
«L’affluire dei sentimenti non è quello specchio d’acqua uniforme» dice, in Elvira di Brigitte Jaques, Jouvet istruendo l’allieva. «È proprio in quest’affluire (…) che c’è il ribollire della sensibilità». Dubito che Winthorp avesse presente tali parole mentre scriveva, ma mi pare che, seppur inconsapevolmente, le abbia attuate attraverso la sua composizione. La disperazione per il figlio in guerra della coppia che aiuta il padre di Willie a trasportarne la lapide. La caparbia ostinazione dell’anziano genitore di tenere fede alla promessa di seppellirlo degnamente. La solitudine del prete al fianco di Willie, che, in preda ad una crisi di vocazione, fronteggia l’antico demone dell’alcolismo. La famiglia del giudice responsabile della sentenza, che soggiace ai ricatti dei razzisti. Infine i razzisti, che attendono di godersi lo spettacolo del diciottenne “fritto” sulla macchina infernale: il coinvolgimento è tale che l’amore, la pietà, l’odio non restano confinate alle pagine. «Recitare è l’arte di smuovere la propria sensibilità per trovare nuove voci, nuove strade, nuovi punti di partenza» – rubo ancora a Jouvet – affinché lo spettatore provi sempre ciò che prova l’attore. Se alla fine di un libro siamo totalmente compenetrati con l’autore vuol dire che la lezione vale anche in letteratura e il romanzo di Elizabeth Winthorp ne costituisce una prova: con L’ultima notte di Willie Jones è riuscita a dare una bella, forte e appassionante interpretazione alle parole

venerdì 23 novembre 2018

L'importanza della condivisione culturale

In tutta onestà riconosco di essere una persona ordinaria nel pensiero e nelle azioni.
Sono ordinata e diligente. Due caratteristiche da cui discende, quasi come naturale corollario, una terza: l'essere ortodossa.
Tendo ad accettare ciò che mi si impone dall'alto, sia essa legge, norma, regola generale o consuetudine.
Mi sarebbe piaciuto nascere "libera pensatrice". Mi sarebbe piaciuto nascere ribelle. Mi sarebbe piaciuto nascere dotata di autonomo senso critico.
Niente, non mi è capitato nessuno di questi talenti.
Mi considero però fortunata e molto. La mia vita è costellata di incontri con persone che mi hanno insegnato ad essere, con buona approssimazione, "libera pensatrice", ribelle, critica.
Ho avuto insegnanti che con pazienza e passione mi hanno suggerito la necessità di uscire, a volte, fuori dagli schemi, indicandomene la strada e gli strumenti. Ho amici e conoscenti che consapevolmente o inconsapevolmente mi hanno dimostrato che la verità ha tante facce, che il concetto di giusto, di normale, di necessario sono oggetti di revisione costante. 
Se fossi rimasta nel mio isolamento culturale, probabilmente avrei inorridito al pensiero del divorzio. Sicuramente lo avrei fatto dinanzi al bacio tra due individui dello stesso sesso. Prima ancora sarei stata razzista, forse classista. Avrei sostenuto che non c'è parità tra uomo e donna. 
Per mia fortuna, lo ribadisco ancora, c'è chi mi ha insegnato a pensare, a vedere, a capire.
La cultura rende liberi. . Non smettiamo mai di crederci. E di condividerla.

martedì 20 novembre 2018

Asso spariglia tutto ( contributo al progetto Criature)

Quello che segue è un mio vecchio racconto confluito nel progetto di scrittura collettiva Criature.
Dopo aver letto e studiato il saggio di M. Fisher " The Weird and the Eeire" pubblicato da Minimum fax, i limiti della mia narrazione  mi risultano più evidenti. Mi sono incaponita a dare all'agentività una connotazione  che non andava esplicitata. E' che nella mia scrittura io sono il vero elemento weird, sono la porta d'accesso ai due mondi: la narrativa descrittiva classica e quella perturbante. Il punto è che la porta avrebbe bisogno di un buon falegname!

Illustrazione di Alessandra Gioia
A quel Signora! sopraggiuntole alle spalle con una certa perentorietà, aveva risposto il corpo prima ancora del cervello. Con la prontezza dei soldati, che si piegano agli ordini senza neppure processarli mentalmente, i piedi di Aurora si erano inchiodati al suolo e la testa si era rivolta in direzione della voce femminile che, forse più mansueta per l’esito sortito, passava ora dal tono imperativo a quello di preghiera.
L’anziana fissò interrogativa la brunetta alle sue spalle, truccata con zelo eccessivo per l’ora mattutina, realizzando che probabilmente se l’era portata alle calcagna, senza accorgersene, fin dall’uscita della messa. Quindi spostò gli occhi sul microfono che la ragazza, fattasi più vicina, le puntava alla bocca e, scuotendosi di dosso lo stupore, tornò in sé.

Prevedibile che la notizia si sarebbe sparsa oltre i confini di San Cupo ai Monti, che giornalisti e curiosi sarebbero comparsi a ficcare il naso, ma quel primo faccia a faccia con l’intrusa l’aveva comunque colta alla sprovvista. La sparizione dei bambini, che il giorno prima aveva sconvolto il paese, precipitava tutti loro in una dimensione surreale; e come sempre accade quando si vive in un clima onirico, la realtà sembrava realizzarsi o in anticipo sui tempi d’attesa, cogliendoli impreparati, o in maniera incoerente, lasciandoli attoniti, trasecolati, spesso incapaci di reagire. “Signora, non scappi!”, ripeteva con tono suadente quella, lo sguardo fisso nella camera dell’operatore materializzatosi di fronte.“Siamo la televisione! La RAI! Può raccontare ai nostri amici a casa cosa succede in paese? Sono vere le voci sulla sparizione dei bambini? Lei conosce le famiglie colpite dalla tragedia?”.
A risvegliarla dall’inebetimento ci pensò, grazie a uno schiaffo assestatole in piena faccia per il tramite di una foglia, l’Oria, il vento della zona, fattosi insolente nelle ultime quarantotto ore. Aurora scansò il microfono e la cinepresa, rigirò sui tacchi e riprese la via di casa senza badare alle rimostranze dell’inseguitrice, nuovamente molesta. L’unica cosa saggia era rispettare la consegna del silenzio cui tutti i paesani erano stati vincolati da Don Michele. Quella mattina in chiesa avevano stabilito, infatti, di rilasciare dichiarazioni e testimonianze solo agli inquirenti. “Evitate le chiacchiere”, si era raccomandato il prete, senza che in fondo ce ne fosse bisogno, data la natura schiva, al limite dell’asociale, della gente. “Ciascuno ripensi a quello che ha visto e ciò che ha fatto quel giorno, ma mantenga la bocca chiusa anche con i propri famigliari. Va a finire che a parlarne tra noi rischiamo di confonderci, di influenzarci a vicenda, di suggestionarci e di alterare i fatti”. Nulla però — rifletté l’anziana — aveva aggiunto in merito al sacramento della confessione. Poteva ben succedere che qualcuno, proprio in virtù o a causa di quell’animo reticente di cui si è detto, scegliesse di confidare al prete indizi rilevanti, mettendolo in una posizione di privilegio.
Giunta a destinazione, mentre si frugava le tasche in cerca delle chiavi, con la coda dell’occhio notò la porta dei vicini richiudersi alle spalle di due uomini in divisa. I detective erano già all’opera e la prossima — pensò — sarebbe stata lei.
Con il fare automatico delle casalinghe, che appena mettono piede in casa e mentre si infilano le ciabatte cominciano pure a rassettare, Aurora prese a rifare il letto e ad organizzare i suoi ricordi secondo un metro logico, così da non affrontare impreparata gli agenti.

Due notti prima aveva dormito malissimo, tanto che l’indomani si era attardata tra le lenzuola saltando l’abituale messa mattutina. Le era venuta in sogno in più occasioni la defunta nonna. La prima volta, un repentino quanto inopportuno risveglio aveva impedito l’abbraccio tra le due. Sebbene rammaricata per l’occasione perduta, era riuscita comunque a riprender sonno. L’antenata si era ripresentata una seconda volta e dopo aver eluso il suo tentativo di baci — con il chiaro intento di sottrarla ai presagi funesti di cui questi scambi d’affetto sono portatori in sogno — prima di dileguarsi le aveva posato in grembo un bambino. Nel linguaggio che nonna e nipote utilizzavano per parlarsi da un capo all’altro dei loro mondi, messo a punto in anni di simili dialoghi, il gesto significava che qualcosa di grosso sarebbe successo.

Dovere di buona creanza imponeva di offrire ai due ospiti, alla cui attesa si era così predisposta, almeno una tazza di caffè. Fece appena in tempo ad apparecchiare un vassoietto con il servizio buono che quelli bussarono.“Vi siete sbrigati in fretta”, esordì, abbozzando solo in un secondo momento un saluto. Senza neppure attendere che si qualificassero, li indirizzò in salotto invitandoli ad accomodarsi.La schiettezza di quell’accoglienza indusse gli investigatori a essere altrettanto spicci.
Venivano a chiederle conto del perché non si fosse recata a Messa il giorno prima — come loro riferito dal Parroco — e soprattutto per quali ragioni la sua presenza era stata segnalata all’ingresso della scuola già prima che si spargesse la notizia dei bambini.
Se erano stati già da Don Michele — pensò Aurora — e le cose erano andate come lei aveva ipotizzato, il compito dei due si riduceva a verificare le indicazioni avute dal prete.
Non intendeva coprirsi di ridicolo e dunque non avrebbe né accennato all’incontro notturno con l’antenata, né confessato che tutto era partito dal turbamento generato in lei dall’episodio.
Quelle le ragioni che le avevano allertato i sensi, spinto a presidiare la finestra in attesa non sapeva neppure lei bene di cosa, e resa spettatrice — niente affatto casuale quindi — degli strani accadimenti, preludio e indizio della iattura calata sul paese.
“Sono stata poco bene durante ‘a nuttata”, esordì con una mezza verità.
“Quando mi sono susuta mi sentivo di mancare o’ ciato, il respiro, e sono andata alla finestra pe’ piglia’ aria. Tempo una mezz’ora ed è comparso Manlio, o’ meccanico, che ha aperto l’officina molto anticipatamente. Agg’ subito pensatoche qualcuno teneva bisogno e perciò l’ha scitat’. Allora magg’ mis’ a guarda’ p’ ‘a curiosità e sape’ chi era rimasto a per’.”
Un impercettibile fremito delle froge scompose il volto del più giovane dei due uomini, tradendo insofferenza verso gli inconcludenti preamboli della padrona di casa. Lo colse il collega, che abbassate le palpebre e strette le labbra in una sorta di sorriso mal riuscito, lo esortò con quel cenno ad aver pazienza. Lo colse anche Aurora, avvezza a leggere le espressioni sulle facce altrui, che annuendo a sua volta in direzione del ragazzo, s’inserì nel duetto rafforzando il tacito invito del più anziano.
“A un certo punto”, riprese, “Manlio è sciut for’ co’ o’ cellulare in mano, come se nun riusciva a piglia’ ‘a linea e là so’ accuminciate le stranezze”.
Il tono della voce divenne a quel punto greve.
Aurora raccontò con parole non sue, come sull’onda di una misteriosa ispirazione, che “l’Oria si è fatto sferzata violenta, il tempo un cristallo di istanti inerti e il silenzio quasi materia solida”.
Due passeri, abbozzato un tentativo di volo, erano caduti stecchiti ai suoi piedi. Un fracasso, proveniente dalla cucina, l’aveva poi richiamata in casa, ponendo fine a quel momento di artefatta quiete.
Lì, tredici calamite della sua collezione di souvenir, alla quale avevano contribuito negli anni un po’ tutti i paesani, stavano ammassate sul pavimento davanti al frigo.
C’erano, tra le altre, la giapponesina della coppia di sposi avventuratasi a Tokio in viaggio di nozze, l’Empire State Building dei vicini andati oltreoceano in visita ai cugini emigrati, la foglia d’acero della nipote cui aveva finanziato la vacanza studio in Canada. Nel raccoglierle, ricomponendo quelle andate in pezzi, passò in rassegna le facce e i nomi di coloro che gliele avevano portate: erano proprio i genitori dei tredici bambini sfrecciati davanti casa, prima, a bordo dello scuolabus di Evaristo.
Il racconto accusò una pausa, breve ma intensa, come la boccata di fiato che s’incamera prima di un’immersione. Non c’era un modo appropriato per dire, senza rischiare diffidenza o sarcasmo, che si era subito angosciata per quelleanime di Dio sul cui destino avrebbe interrogato le carte.
Malgrado i prevedibili preconcetti degli agenti — immaginava la presentazione poco lusinghiera del prete, apertamente ostile alla veggenza — e a dispetto di come l’avrebbero giudicata — se con ostilità o ironia — era l’ora della verità e la verità era che l’Oria — sì, proprio quello dello schiaffo! — l’aveva inseguita tra le mura domestiche.
Si toccò il fianco con un gesto inconscio — quasi le bruciasse ciò che teneva in tasca — e continuò. Il vento si era insinuato nelle stanze determinato a raggiungere il tavolino da cartomante prima di lei.
Puntate le carte le aveva scompaginate con violenza, lasciandone sul banchetto solo ventisei. L’intento era di indirizzarle un messaggio che, lei intuì, si celava nelle quattordici finite a terra. Cominciò a raccoglierle e contemporaneamente a decifrarle: il quattro e il cinque di spade annunciavano imprevisti e ostacoli, il tre di coppe lacrime e dolore, e i fanti, di tutti i semi, mettevano al centro della profezia i bambini. L’ultima carta, il cinque di coppe, che recuperò accanto alle calamite smagnetizzate, prediceva un ritorno.
Rimise insieme il mazzo e lo contò per verificare che fosse completo. Una carta, invece, mancava. La quarantesima, quella che segnava la sorte dei tredici scolari, se l’era portata con sé l’Oria, deciso a tenersi l’ultima, definitiva parola sulla faccenda.
Aurora doveva assolutamente riprendersela, anche a costo di affrontare lo storico nemico nel cortile della scuola, il covo dove s’era andato a rifugiare. Così, quando la voce della scomparsa de’ criature aveva cominciato a circolare, e le mamme prima e i padri poi, e i nonni e via via tutto il paese si era riversato, sgomento e con la lingua contratta in gola, in quel luogo, lei era già là, a chiedere conto del malfatto al vento, a esigere indietro l’ unica garanzia che tutto sarebbe tornato a posto. Davanti al portone del plesso, muto di voci e deserto di presenze infantili, aveva infine recuperato il rettangolo di carta per lei vitale: l’asso di bastoni, quasi del tutto abraso dalla forza del vento, tanto malconcio che a stento si riconosceva.
“È questione di tempo e tutto torna in ordine. Iss’ nun sa mangia ‘a parola data”. Disse, estraendo dalla tasca la carta e aggiungendo: “Chesta è ‘a chiù bella, chella do’ gusto. Chella che port’ ‘e nutizie bone. Pigliatavella vuie e quando torneranno ‘e criature, quando chiuderete il caso, aggiungetela agli atti!”
Di storie, negli anni, i due agenti ne avevano raccolte tante. Quella di Aurora l’avrebbero archiviata nel cumulo delle bislacche. Senza scomporsi, come d’abitudine, finsero interesse per il reperto che la vecchia porgeva loro e il più l’anziano dei due, con ben simulata solerzia, s’incaricò di riporlo nella propria tasca.
Più tardi, mentre tiravano le somme del caso, un refolo capriccioso danzò intorno al naso dell’uomo fino a sollecitargli uno starnuto che lo costrinse all’uso del fazzoletto. L’asso di bastone profittò del gesto e evase dalla sua improvvisata custodia, finendo, con la complicità dall’onnipresente Oria, all’angolo del marciapiede tra le grinfie di un branco di mici randagi. Aurora l’avrebbe voluto al sicuro in un faldone stipato di atti. Il vento, ancora una volta non facendo carte se la prese vinta e l’affidò a quei gatti

martedì 13 novembre 2018

Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman



    Potrei cambiare il titolo della mia rubrica ne " il bipolarismo del consigliere".

Alterno, me ne rendo conto, suggerimenti letterari impegnativi ad altri più leggeri, non disdegnando  romanzi di genere o addirittura young adult.

Qualcuno potrebbe accusarmi di avere poco gusto, di non essere strutturata abbastanza da discernere il buono dal cattivo, l'alto dal basso, il che inficerebbe la credibilità dei miei consigli. Piuttosto, credo fermamente che in lettura, rimanere ancorati alle etichette faccia molto, molto male. Lo snobismo letterario, insomma, non è mai bello. Potrebbero sfuggire, per una presa di posizione velleitaria, ottime occasioni.  E' il caso di "Eleanor Oliphant sta benissimo" di Gail Honeyman, edito da Garzanti, tradotto da S. Beretta, romanzo che agli occhi di alcuni ha una aprioristica pecca: l'essere stato immediatamente risucchiato dal clamore delle classifiche. Elemento sufficiente per diffidarne, visto che il mainstream è male.

A costo di passare per una banderuola alla mercé del puro piacere della lettura, io ve lo propongo. Una storia pesante come un piombo. Indigeribile se... Se la Honeyman non avesse trovato una chiave narrativa  tanto piacevolmente delicata, tanto fresca. Un azzardo naïf che non compromette l'intensità della storia, dei sentimenti e finanche della lezione di vita che si trae dal romanzo. Che abbia vinto, in questi giorni, la prima edizione del premio "Amo questo libro" attribuito dai librai di Giunti al Punto, per i sospettosi costituirà un'aggravante, un motivo ulteriore per saltarlo a piè pari.

Io vi dico provare per credere. Finirà per diventare una strenna Natalizia su cui puntare senza margine di errore.

venerdì 9 novembre 2018

L’amore prima della fine del mondo di Jacopo Masini

Come raccontare, senza spoilerare il finale,“L’amore prima della fine del mondo” di Jacopo Masini, Epika Edizioni? Cominciando magari dalla copertina, illustrata da Ombretta Tavano, che già rivela indizi sulla storia. Due giovani amanti. Lui inerme, è immerso in tumultuose onde scure. Lei si sporge a prendergli il volto tra le mani. Lui è relegato, dal grigio tenue di cui è colorato, in una dimensione incorporea. Lei, al contrario, nonostante sembri fluttuare, per via delle tinte decise, ha una consistenza reale. Lui si chiama Vanni Martini ed è il protagonista del romanzo. Lei Alice Bia, ed è la fidanzata. Si sono conosciuti per caso, a Bologna, davanti ad un'edicola della stazione, un giorno in cui i rispettivi treni erano in ritardo. 
Perché mai, se il romanzo ripercorre, attraverso i ricordi di Vanni, l’estate in cui stava con Alice, è poi proprio la sua immagine, vale a dire del protagonista, ad essere evanescente? Forse perché ai tempi, il nostro ventisettenne di Parma era una stupida, cocciuta, tonta parvenza di uomo della quale è sopravvissuta quell’ombra grigia che, a più di quindici anni di distanza, quando cioè Masini ne narra, intralcia, con i suoi rimpianti, e lo farà per sempre, l’adulto di oggi. 
Prima della fine del mondo Vanni, in attesa del responso di un colloquio di lavoro a Torino, si guadagna da vivere accudendo due “matti” come collaboratore di una cooperativa sociale. Spesso e volentieri va fuori a bere con l’amico di sempre Giacomo, passa a pranzo dalla nonna e soprattutto non si lascia sfuggire l’occasione di tradire Alice, ripetutamente e con due diverse amanti, di cui una è la migliore amica di lei. Stando alla sua filosofia è esente da colpe, dato che non crede nella forza della volontà. “Ogni sentimento, ogni cosa che accade è proprio come una corrente e non possiamo far altro che lasciarci portare senza andare a fondo o andare a sbattere contro una scogliera” e lui si lascia portare. Però poi arriva la fine del mondo a scompigliare le carte, a impedirgli di riparare agli errori, a negargli la possibilità di prendere il timone della sua vita e dirigerla verso il lido da cui si è allontanato, al quale sente ora di appartenere. “Una volta che conosciamo il finale di una storia tragica, siamo sempre tentati di chiedere perché il protagonista non si sia impegnato di più per cambiare il corso del suo destino”, scrive in Asimmetria, Lisa Halliday. Un interrogativo che sembra formulato dal Vanni adulto, perché è quella la radice della sua inguaribile malinconia, il nodo del suo struggimento: non aver impedito che andasse come è andata.
Realismo, equilibrio e originalità sono le parole chiave del romanzo. 
Colpi di testa, insoddisfazioni, sbandate, bestemmie, sesso, noia, bevute e infedeltà: Masini lo vuole verace questo suo protagonista, desidera che esprima la sua palpitante giovinezza senza falsificazioni, ne’ censure o patinature e Vanni è infatti realissimo, tanto che, si finisce, senza alcuna difficoltà, a immaginarlo parlare con la caratteristica erre di Parma. Il tutto scandito da un'impeccabile armonia tra leggerezza e drammaticità, tra ironia e serietà, che Masini mantiene con rigore. 
In quanto all’originalità, ha a che fare con “la fine del mondo” del titolo. 
Elemento narrativo difficilissimo da gestire, che espone al pericolo di paragoni con mostri sacri del calibro di Franzen o Doctorow, ad esempio, che dalla stessa materia hanno tratto romanzi imprescindibili. Masini si è assunto un grandissimo rischio a farne la chiave della sua narrazione, dunque è doveroso riconoscergliene il merito.
Un piccolo romanzo, duecentodieci pagine in tutto, “L’amore prima della fine del mondo” conquista per la semplicità con cui Masini fa irrompere la Storia nella storia di Vanni, e la rende, in qualche modo, un po' più a nostra misura. 

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...