domenica 25 novembre 2018

Ritratto di signora

Mi chiamo Giuseppina Esposito, nata a Napoli il 24 giugno del 1952. Per tutti sono Peppina.Ho letto su una rivista del vostro concorso letterario.Non mi sono mai concessa colpi di testa. Considero queste due cartelle che vi invio, il primo, in una intera vita fatta esclusivamente di gesti ragionevoli, necessari e dignitosi.Non sono una scrittrice, non sono al di sotto dei trent'anni, non aspiro a vincere la vostra borsa di studio. Ciascuno dei requisiti da voi indicati escluderebbe  la mia partecipazione, eccetto quello principale: richiedete un “Ritratto di signora”. Io il ritratto ce l’ho: è il mio e ve lo invio, con la speranza che possa essere utile a qualcuno.Sono una signora di sessantuno anni, non di quelle belle, brune, con i capelli sempre a posto e le unghie curate, che hanno realizzato nella loro esistenza la maggior parte delle cose che si erano proposte da giovani. Il colore castano dei miei capelli, tagliati in un caschetto facile da gestire, è frutto delle tinture che mi ingegno a fare in casa da me per coprire i capelli bianchi. Le mie unghie sono semplicemente rese più lucide da una sola , sbrigativa, passata di smalto trasparente anche quella opera mia.
Sono alta poco più di un metro e mezzo. Posseggo il fisico ordinario di chi non si è mai potuta concedere nulla di più delle creme anticellulite a buon mercato dei grandi magazzini. Delle diete fai da te costituite essenzialmente da digiuni lette sulle riviste femminili. Di lunghe camminate sotto il peso grave delle buste della spesa, nell'illusione che sostituiscano la palestra, che per una questione di soldi non mi sono mai potuta permettere.Il mio aspetto è quello ordinato e composto della madre di famiglia attenta alle apparenze. Fingo una “finezza”che non posseggo per nascita e spero che l’occhio altrui non colga la fatica di comporre, con estenuanti giri tra i banchi del mercato, un abbigliamento distinto e decoroso, versione economica di quella idea di lusso rubata alle vetrine dei ricchi.Il mio papà era un mite artigiano. La mia mamma una donna volitiva e a suo modo ambiziosa. Voleva fornire alla figlia, oltre alla dote classica di gioielli, masserizie e biancheria, anche un titolo di studio che ne accrescessero il valore , rendendola un partito migliore delle altre concorrenti agli occhi di eventuali candidati al matrimonio. Mi fecero studiare da segretaria alla scuola di avviamento professionale. Non erano grandi studi, - lo so bene-, ma certamente quella uscita di casa, negli anni 60, rappresentava una rivoluzione per una ragazza nella mia condizione sociale. Anche il passo seguente fu considerato estremamente moderno: al termine dei tre anni pretesi di andare a lavorare. Me lo concessero a condizioni che – ora mi rendo conto- erano tutte sbagliate e inammissibili, ma che io accettai. Acconsentii che fosse un impiego “part time”,-come si dice oggi-, in un luogo vicino casa , dove le colleghe fossero tutte donne e soprattutto che quest’avventura si concludesse alla vigilia di un eventuale matrimonio. Per me non finire in un laboratorio di sartoria o tra apprendiste ricamatrici, -il destino di tutte le mie coetanee- era comunque una conquista, e non mi opposi.
Perché dovrebbe interessarvi il mio ritratto monocromatico e piatto, privo del tutto di talento artistico, così scialbo e usuale?Perché le soffitte sono colme di tele dove il volto della sofferenza ha le sembianze moderate e disciplinate della normalità , ed è forse giunto il momento che questi visi vengano alla luce . Il buon partito arrivò, come sperava mamma. La differenza di età che c’era tra noi non mi impedì di innamorarmi di lui. Era bello, distinto, aveva modi compiti e mi corteggiava molto rispettosamente.
Gestiva insieme alla madre una merceria che avrebbe ereditato “a babbo morto”, come si usava dire allora.Ne rimanemmo entrambe affascinate, la mamma ed io. Nel turbinio emozionale dei 17 anni regalai senza riserve il mio cuore, carico dei sogni e delle ambizioni di ragazza moderna, a quel giovanotto. Lo stesso fece mia madre, che aprì il suo, senza che alcun dubbio la sfiorasse, per accogliere colui che incarnava i suoi desideri: un bravo marito per l’amata figlia, benestante e di buona famiglia. L’unico che colse gli indizi della brutalità, tenuta a bada con maestria dietro quell'apparenza pacata e bonaria, fu il mio papà, nella sua mitezza. Proprio mio padre orfano di madre dalla nascita, a cui dunque nessuno aveva insegnato il dogma della superiorità maschile e che quindi si era affidato pacatamente (non da debole, bensì da pari) alla moglie, colse la rozzezza del mio futuro marito, tanto da propormi, mentre attraversavamo insieme la navata verso l’altare nel giorno delle nozze, di tornare a casa con lui. Il ritratto di signora che vi porgo, il mio , è un puzzle composto da un numero incalcolabile di bugie. Invenzioni a cui sono ricorsa per costruire la rispettabile facciata di una vita normale.Una menzogna, il ripetere che mi bastasse essere “solo sangue prestato” –come sentenziava mia suocera- allo scopo di dare a mio marito dei figli, perpetuare il cognome di famiglia.Una menzogna, l’ accogliere i suoi rimproveri e sopportare i suoi insulti, considerandoli meritati.Una menzogna, il ritenere che i soldi contati al centesimo, che lui mi concedeva, fossero sufficienti, mentre lottavo per far quadrare i conti e sfamare i figli.Una menzogna, il ribadire che fossi felice di essere seduta al tavolo insieme ai miei bambini, mentre ogni giorno sognavo di essere altrove.Una menzogna, il rifugiarmi nell'illusorio piccolo orgoglio di saper dattilografare, stenografare, far computi di ragioneria, per consolarmi di un' esistenza così sofferta, e sostenere il paragone con quelle evidentemente più serene delle amiche mie.Una menzogna, il convincermi di non aver voglia di parlare a mia madre, cercando di ignorare il lucchetto inserito nel disco dei numeri, che mi impediva di telefonarle .Una menzogna, infine, il negare che desiderassi ascoltare parole d’amore, mentre lui mi parlava con l’unico linguaggio che conoscesse: mani pesanti e dure che mi schiaffeggiavano il viso, l’ orgoglio, l’ animo.Ancora oggi, a distanza di 10 anni dalla morte di mio marito, causata da un infarto che lo stecchì sul colpo, lasciandogli una metà del corpo cupa e livida, quasi che la sua anima cattiva si fosse finalmente palesata, io mi ostino a fingere di essere stata felice con lui, di essere stata una moglie come le altre, di essere stata una donna, come le altre.

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