A quel Signora! sopraggiuntole alle spalle con una certa perentorietà, aveva risposto il corpo prima ancora del cervello. Con la prontezza dei soldati, che si piegano agli ordini senza neppure processarli mentalmente, i piedi di Aurora si erano inchiodati al suolo e la testa si era rivolta in direzione della voce femminile che, forse più mansueta per l’esito sortito, passava ora dal tono imperativo a quello di preghiera.
L’anziana fissò interrogativa la brunetta alle sue spalle, truccata con zelo eccessivo per l’ora mattutina, realizzando che probabilmente se l’era portata alle calcagna, senza accorgersene, fin dall’uscita della messa. Quindi spostò gli occhi sul microfono che la ragazza, fattasi più vicina, le puntava alla bocca e, scuotendosi di dosso lo stupore, tornò in sé.
Prevedibile che la notizia si sarebbe sparsa oltre i confini di San Cupo ai Monti, che giornalisti e curiosi sarebbero comparsi a ficcare il naso, ma quel primo faccia a faccia con l’intrusa l’aveva comunque colta alla sprovvista. La sparizione dei bambini, che il giorno prima aveva sconvolto il paese, precipitava tutti loro in una dimensione surreale; e come sempre accade quando si vive in un clima onirico, la realtà sembrava realizzarsi o in anticipo sui tempi d’attesa, cogliendoli impreparati, o in maniera incoerente, lasciandoli attoniti, trasecolati, spesso incapaci di reagire. “Signora, non scappi!”, ripeteva con tono suadente quella, lo sguardo fisso nella camera dell’operatore materializzatosi di fronte.“Siamo la televisione! La RAI! Può raccontare ai nostri amici a casa cosa succede in paese? Sono vere le voci sulla sparizione dei bambini? Lei conosce le famiglie colpite dalla tragedia?”.
A risvegliarla dall’inebetimento ci pensò, grazie a uno schiaffo assestatole in piena faccia per il tramite di una foglia, l’Oria, il vento della zona, fattosi insolente nelle ultime quarantotto ore. Aurora scansò il microfono e la cinepresa, rigirò sui tacchi e riprese la via di casa senza badare alle rimostranze dell’inseguitrice, nuovamente molesta. L’unica cosa saggia era rispettare la consegna del silenzio cui tutti i paesani erano stati vincolati da Don Michele. Quella mattina in chiesa avevano stabilito, infatti, di rilasciare dichiarazioni e testimonianze solo agli inquirenti. “Evitate le chiacchiere”, si era raccomandato il prete, senza che in fondo ce ne fosse bisogno, data la natura schiva, al limite dell’asociale, della gente. “Ciascuno ripensi a quello che ha visto e ciò che ha fatto quel giorno, ma mantenga la bocca chiusa anche con i propri famigliari. Va a finire che a parlarne tra noi rischiamo di confonderci, di influenzarci a vicenda, di suggestionarci e di alterare i fatti”. Nulla però — rifletté l’anziana — aveva aggiunto in merito al sacramento della confessione. Poteva ben succedere che qualcuno, proprio in virtù o a causa di quell’animo reticente di cui si è detto, scegliesse di confidare al prete indizi rilevanti, mettendolo in una posizione di privilegio.
Giunta a destinazione, mentre si frugava le tasche in cerca delle chiavi, con la coda dell’occhio notò la porta dei vicini richiudersi alle spalle di due uomini in divisa. I detective erano già all’opera e la prossima — pensò — sarebbe stata lei.
Con il fare automatico delle casalinghe, che appena mettono piede in casa e mentre si infilano le ciabatte cominciano pure a rassettare, Aurora prese a rifare il letto e ad organizzare i suoi ricordi secondo un metro logico, così da non affrontare impreparata gli agenti.
Due notti prima aveva dormito malissimo, tanto che l’indomani si era attardata tra le lenzuola saltando l’abituale messa mattutina. Le era venuta in sogno in più occasioni la defunta nonna. La prima volta, un repentino quanto inopportuno risveglio aveva impedito l’abbraccio tra le due. Sebbene rammaricata per l’occasione perduta, era riuscita comunque a riprender sonno. L’antenata si era ripresentata una seconda volta e dopo aver eluso il suo tentativo di baci — con il chiaro intento di sottrarla ai presagi funesti di cui questi scambi d’affetto sono portatori in sogno — prima di dileguarsi le aveva posato in grembo un bambino. Nel linguaggio che nonna e nipote utilizzavano per parlarsi da un capo all’altro dei loro mondi, messo a punto in anni di simili dialoghi, il gesto significava che qualcosa di grosso sarebbe successo.
Dovere di buona creanza imponeva di offrire ai due ospiti, alla cui attesa si era così predisposta, almeno una tazza di caffè. Fece appena in tempo ad apparecchiare un vassoietto con il servizio buono che quelli bussarono.“Vi siete sbrigati in fretta”, esordì, abbozzando solo in un secondo momento un saluto. Senza neppure attendere che si qualificassero, li indirizzò in salotto invitandoli ad accomodarsi.La schiettezza di quell’accoglienza indusse gli investigatori a essere altrettanto spicci.
Venivano a chiederle conto del perché non si fosse recata a Messa il giorno prima — come loro riferito dal Parroco — e soprattutto per quali ragioni la sua presenza era stata segnalata all’ingresso della scuola già prima che si spargesse la notizia dei bambini.
Se erano stati già da Don Michele — pensò Aurora — e le cose erano andate come lei aveva ipotizzato, il compito dei due si riduceva a verificare le indicazioni avute dal prete.
Non intendeva coprirsi di ridicolo e dunque non avrebbe né accennato all’incontro notturno con l’antenata, né confessato che tutto era partito dal turbamento generato in lei dall’episodio.
Quelle le ragioni che le avevano allertato i sensi, spinto a presidiare la finestra in attesa non sapeva neppure lei bene di cosa, e resa spettatrice — niente affatto casuale quindi — degli strani accadimenti, preludio e indizio della iattura calata sul paese.
“Sono stata poco bene durante ‘a nuttata”, esordì con una mezza verità.
“Quando mi sono susuta mi sentivo di mancare o’ ciato, il respiro, e sono andata alla finestra pe’ piglia’ aria. Tempo una mezz’ora ed è comparso Manlio, o’ meccanico, che ha aperto l’officina molto anticipatamente. Agg’ subito pensatoche qualcuno teneva bisogno e perciò l’ha scitat’. Allora magg’ mis’ a guarda’ p’ ‘a curiosità e sape’ chi era rimasto a per’.”
Un impercettibile fremito delle froge scompose il volto del più giovane dei due uomini, tradendo insofferenza verso gli inconcludenti preamboli della padrona di casa. Lo colse il collega, che abbassate le palpebre e strette le labbra in una sorta di sorriso mal riuscito, lo esortò con quel cenno ad aver pazienza. Lo colse anche Aurora, avvezza a leggere le espressioni sulle facce altrui, che annuendo a sua volta in direzione del ragazzo, s’inserì nel duetto rafforzando il tacito invito del più anziano.
“A un certo punto”, riprese, “Manlio è sciut for’ co’ o’ cellulare in mano, come se nun riusciva a piglia’ ‘a linea e là so’ accuminciate le stranezze”.
Il tono della voce divenne a quel punto greve.
Aurora raccontò con parole non sue, come sull’onda di una misteriosa ispirazione, che “l’Oria si è fatto sferzata violenta, il tempo un cristallo di istanti inerti e il silenzio quasi materia solida”.
Due passeri, abbozzato un tentativo di volo, erano caduti stecchiti ai suoi piedi. Un fracasso, proveniente dalla cucina, l’aveva poi richiamata in casa, ponendo fine a quel momento di artefatta quiete.
Lì, tredici calamite della sua collezione di souvenir, alla quale avevano contribuito negli anni un po’ tutti i paesani, stavano ammassate sul pavimento davanti al frigo.
C’erano, tra le altre, la giapponesina della coppia di sposi avventuratasi a Tokio in viaggio di nozze, l’Empire State Building dei vicini andati oltreoceano in visita ai cugini emigrati, la foglia d’acero della nipote cui aveva finanziato la vacanza studio in Canada. Nel raccoglierle, ricomponendo quelle andate in pezzi, passò in rassegna le facce e i nomi di coloro che gliele avevano portate: erano proprio i genitori dei tredici bambini sfrecciati davanti casa, prima, a bordo dello scuolabus di Evaristo.
Il racconto accusò una pausa, breve ma intensa, come la boccata di fiato che s’incamera prima di un’immersione. Non c’era un modo appropriato per dire, senza rischiare diffidenza o sarcasmo, che si era subito angosciata per quelleanime di Dio sul cui destino avrebbe interrogato le carte.
Malgrado i prevedibili preconcetti degli agenti — immaginava la presentazione poco lusinghiera del prete, apertamente ostile alla veggenza — e a dispetto di come l’avrebbero giudicata — se con ostilità o ironia — era l’ora della verità e la verità era che l’Oria — sì, proprio quello dello schiaffo! — l’aveva inseguita tra le mura domestiche.
Si toccò il fianco con un gesto inconscio — quasi le bruciasse ciò che teneva in tasca — e continuò. Il vento si era insinuato nelle stanze determinato a raggiungere il tavolino da cartomante prima di lei.
Puntate le carte le aveva scompaginate con violenza, lasciandone sul banchetto solo ventisei. L’intento era di indirizzarle un messaggio che, lei intuì, si celava nelle quattordici finite a terra. Cominciò a raccoglierle e contemporaneamente a decifrarle: il quattro e il cinque di spade annunciavano imprevisti e ostacoli, il tre di coppe lacrime e dolore, e i fanti, di tutti i semi, mettevano al centro della profezia i bambini. L’ultima carta, il cinque di coppe, che recuperò accanto alle calamite smagnetizzate, prediceva un ritorno.
Rimise insieme il mazzo e lo contò per verificare che fosse completo. Una carta, invece, mancava. La quarantesima, quella che segnava la sorte dei tredici scolari, se l’era portata con sé l’Oria, deciso a tenersi l’ultima, definitiva parola sulla faccenda.
Aurora doveva assolutamente riprendersela, anche a costo di affrontare lo storico nemico nel cortile della scuola, il covo dove s’era andato a rifugiare. Così, quando la voce della scomparsa de’ criature aveva cominciato a circolare, e le mamme prima e i padri poi, e i nonni e via via tutto il paese si era riversato, sgomento e con la lingua contratta in gola, in quel luogo, lei era già là, a chiedere conto del malfatto al vento, a esigere indietro l’ unica garanzia che tutto sarebbe tornato a posto. Davanti al portone del plesso, muto di voci e deserto di presenze infantili, aveva infine recuperato il rettangolo di carta per lei vitale: l’asso di bastoni, quasi del tutto abraso dalla forza del vento, tanto malconcio che a stento si riconosceva.
“È questione di tempo e tutto torna in ordine. Iss’ nun sa mangia ‘a parola data”. Disse, estraendo dalla tasca la carta e aggiungendo: “Chesta è ‘a chiù bella, chella do’ gusto. Chella che port’ ‘e nutizie bone. Pigliatavella vuie e quando torneranno ‘e criature, quando chiuderete il caso, aggiungetela agli atti!”
Di storie, negli anni, i due agenti ne avevano raccolte tante. Quella di Aurora l’avrebbero archiviata nel cumulo delle bislacche. Senza scomporsi, come d’abitudine, finsero interesse per il reperto che la vecchia porgeva loro e il più l’anziano dei due, con ben simulata solerzia, s’incaricò di riporlo nella propria tasca.
Più tardi, mentre tiravano le somme del caso, un refolo capriccioso danzò intorno al naso dell’uomo fino a sollecitargli uno starnuto che lo costrinse all’uso del fazzoletto. L’asso di bastone profittò del gesto e evase dalla sua improvvisata custodia, finendo, con la complicità dall’onnipresente Oria, all’angolo del marciapiede tra le grinfie di un branco di mici randagi. Aurora l’avrebbe voluto al sicuro in un faldone stipato di atti. Il vento, ancora una volta non facendo carte se la prese vinta e l’affidò a quei gatti