domenica 4 dicembre 2016
"L'uomo che non fu giovedì" di Juan Esteban Constaìn
Spulcio le nuove proposte editoriali e l'occhio mi cade su un libro pubblicato da Fazi: " L'uomo che non fu giovedì", scritto da Juan Esteban Constaìn, tradotto in italiano da Andrea Rigato.
Mi basta leggere l'incipit della presentazione: " Un irresistibile romanzo umoristico", per deciderne l'acquisto. Sono sempre a caccia di storie spassose, che mi regalino un paio d'ore di intelligente spensieratezza e quando uso queste espressioni penso alle risate di " Una Banda di Idioti" di J. K. Toole, o a "Una cosa divertente che non farò mai più" di D.F. Wallace, o ancora a "Il cuore è idiota" di Davy Rothbart, tanto per citarne alcuni.
Lo leggo tutto d'un fiato, lo metto da parte in attesa di scriverci sopra uno dei miei appunti, ma la cosa cade nel dimenticatoio fino a quando non scovo, in un' intervista rilasciata da Nicola Lagioia, il riferimento alla biblioteca di Aby Warburg. Mi si accende, allora, la classica lampadina, perchè proprio a quello stesso bibliotecario tedesco e alle sorti della sua collezione di libri fa un circostanziato riferimento anche " L'uomo che non fu giovedì".
Al netto di questa curiosità, mi tocca dire, a proposito del libro di Costaìn, che ha deluso purtroppo le aspettative. Si tratta di una storia scritta con un apprezzabile tono leggero, uno scorrevole ritmo colloquiale, ma che rivela, a mio parere, diversi limiti. Il primo e più grave, verso il lettore, poichè, ben tenendo presente che "umoristico" non coincide necessariamente con "comico", ma lo stesso vale con "brioso", il romanzo tradisce la promessa di divertimento fatta dall'editore. A questo va aggiunto che la narrazione risulta in certi tratti caotica, e non ultimo che quel filino di suspense utilizzato dall'autore, nel comprensibile tentativo di catturare il lettore, riguardo allo svelamento del plot, spesso lo porta ad incartarsi in lungaggini e ripetizioni al limite del fastidioso.
Levatomi il dente doloroso delle critiche, passo ora ai pregi del romanzo, che ha -tutto sommato- un suo perchè.
Il nodo centrale del racconto è un vecchio processo per la canonizzazione di G.K. Chesterton, ritirato fuori dai vertici vaticani. Da contorno una piacevole aneddotica, molto variegata nei temi, che spazia dall'evasione di Casanova dai "Piombi" di Venezia, alla storia di Aby Warburg, di cui si è detto, passando per accenni ai più recenti scandali vaticani nonchè puntate nella letteratura britannica delle origini.
L'effervescenza e la vivacità del ritmo narrativo, congiuntamente alle molte curiosità -comprese quelle sulla biografia di Chesterton-di cui è disseminato, fanno di questo libro comunque una gradevole passeggiata, che vi suggerisco di non scartare, come ipotesi, a priori.
venerdì 2 dicembre 2016
Una storia sotto l'albero
Odiava la fretta. Detestava corrompere i riti quotidiani con la velocità
imposta dal ritardo. Preferiva muoversi con calma e rigorosamente a piedi.
Macinava chilometri e mentre camminava pensava. Di tanto in tanto stralci di
conversazioni altrui si intrufolavano nelle sue meditazioni. Chiacchiere
telefoniche, alterchi tra coppie, battibecchi tra genitori e figli. Voci di strada
che le si infilavano casualmente in testa spingendo le sue riflessioni
lontanissime dai punti di partenza. Proprio da quei deragliamenti generavano le
storie che poi scriveva. Così erano nati molti dei suoi racconti.
Fare le cose di corsa implicava, viceversa, accelerare i passi e i pensieri.
Comportava concentrazione per guadagnare minuti . E concentrazione significava isolamento. I richiami dalla strada giungevano alla mente smussati, annebbiati, spenti. Inutilizzabili per creare trame.
Niente, così proprio non andava. La storia Natalizia tardava a farsi strada.
D'altronde la frenesia non era solo sua. Tutta la città era in preda alla medesima agitazione e così deconcentrata non dava certo il meglio di sé. Mancavano più di 20 giorni a Natale eppure dal grado di fermento percepibile si sarebbe detto piuttosto che si fosse già alla vigilia.
Con il corso normale dell’esistenza sospeso “causa di festa maggiore,” di discorsi ordinari, quelli di vita quotidiana non se ne facevano. D’altro canto, non essendo ancora scattato ufficialmente il periodo di “bontà forzata natalizia”, non c’era neppure ancora l’ispirazione per le belle frasi di circostanza, intrise di spirito di fratellanza, che pure potevano dare l’illuminazione. Da quella terra di mezzo non poteva venire fuori nulla.
La speranza di trovare spunti definitivamente persa tra fame e stanchezza, desiderosa di affrettare i tempi del rientro, si infilò nell'ultimo vagone semivuoto della funicolare.
Ogni volta che si è sulle spine non solo i pensieri, pure i comportamenti si fanno spinosi.
Perciò davanti alla mano tesa ad elemosinare della zingarella con bambino in braccio che le si parò davanti, lei non accennò neppure un gesto di diniego come era invece solita fare per prassi di gentilezza. Inizialmente rimase del tutto indifferente, consapevole che da loro non avrebbe tratto alcun materiale utile per uno scritto. Che storia avrebbe potuto, infatti,cucire addosso alla ragazza e al suo bambino se non il solito racconto di luoghi comuni e pregiudizi? Cominciare descrivendone la bellezza acerba ma già sfruttata di donna-ragazzina, rimarcare l’anacronismo di agghindarsi a quel tipico modo delle gitane, porre infine l’accento sul molesto tono querulo della voce. Poi sarebbe passata al bambino, sottolineando lo scempio di rubare infanzie spensierate ad anime innocenti sottoposte al supplizio di imparare, fin da subito, il mestiere d’accattone.
Scavare a fondo nel cliché del nomadismo estraendone rincrescimento, rammarico, fastidio per la palese inerzia delle istituzioni. Solo questo, null’altro ne poteva venire e non era di certo ciò di cui aveva bisogno.
Controvoglia, quindi, si arrese all’invito tacito della vicina, che con un’alzata di spalle e un’espressione d’insofferenza sulla faccia, aveva girato la testa nella loro direzione sollecitandola a condividere il proprio disgusto, e spostò lo sguardo sui due.
Si sorprese allora a ripensare che sul seggiolino dove ore sedeva il piccolino, sistemato lì dalla madre, meno di una settimana prima ci aveva visto un altro di bambino.
Stessa corporatura e apparentemente stessa età.
L’altro, quello della settimana prima, ben vestito, ben pettinato, naso ben pulito, guantini alle mani, sedeva tra i genitori remissivo, sottomesso, costretto a forza di aspri rimproveri a rimanere fermo.
Questo invece, vestito con i suoi abiti da zingarello, spettinato, moccolo al naso, manine rosse per il freddo, occupava con gran compostezza, quasi con solennità, il posto che la mamma gli aveva ceduto, arrangiandosi lei sul gradone centrale del vagone-
Le due immagini si sovrapponevano nella sua testa, ma non c’era verso di farle coincidere. Confliggevano, ma non nel senso che la nostra spettatrice si sarebbe atteso.
C’era un elemento, una nota dissonante: la felicità.
La gioia, l’allegria, o comunque lo si voglia chiamare quel certo sentimento di piacere che illumina la gente contenta, assente nella scena della settimana precedente, dove pure ci sarebbero stati tutti gli elementi per ipotizzarla, era invece percepibile chiaramente in questa, dove a rigor di logica ne sarebbero mancati del tutto i presupposti.
Ognuno svolge il proprio lavoro recitando pubblicamente un ruolo. Infondo chiedere l’elemosina è per i nomadi una professione come un’altra.
Con tutta evidenza la zingara, smesso di mendicare, era ritornata ora ad essere una mamma. Su quel gradino, ignara dei presenti, si godeva il suo bambino con una spensieratezza che dava piacere a guardarli.
Lui farfugliava parole nel tentativo di imitare la madre e lei a sua volta gli rifaceva il verso. Gli stava insegnando a dire: “per piacere e grazie” in lingua italiana, a tendere la manina in cerca di monete, ma non c’era la benché minima bruttura. Nessun piglio autoritario, ne’ durezza o atto di prepotenza. Al contrario solo reciproche carezze e tenerezze. La ragazza continuava a mangiarsi di baci il suo bambino in un intreccio di risate e complicità.
Poteva interessare a qualcuno quel ribaltamento radicale nella prospettiva della narrazione?
Valeva la pena raccontare che la sacralità del vincolo materno le si era rivelato in un luogo, in circostanze e in un contesto tanto inconsueti? Decise per il sì.
Zingari felici: bello spunto per la sua prossima storia di Natale.
Fare le cose di corsa implicava, viceversa, accelerare i passi e i pensieri.
Comportava concentrazione per guadagnare minuti . E concentrazione significava isolamento. I richiami dalla strada giungevano alla mente smussati, annebbiati, spenti. Inutilizzabili per creare trame.
Niente, così proprio non andava. La storia Natalizia tardava a farsi strada.
D'altronde la frenesia non era solo sua. Tutta la città era in preda alla medesima agitazione e così deconcentrata non dava certo il meglio di sé. Mancavano più di 20 giorni a Natale eppure dal grado di fermento percepibile si sarebbe detto piuttosto che si fosse già alla vigilia.
Con il corso normale dell’esistenza sospeso “causa di festa maggiore,” di discorsi ordinari, quelli di vita quotidiana non se ne facevano. D’altro canto, non essendo ancora scattato ufficialmente il periodo di “bontà forzata natalizia”, non c’era neppure ancora l’ispirazione per le belle frasi di circostanza, intrise di spirito di fratellanza, che pure potevano dare l’illuminazione. Da quella terra di mezzo non poteva venire fuori nulla.
La speranza di trovare spunti definitivamente persa tra fame e stanchezza, desiderosa di affrettare i tempi del rientro, si infilò nell'ultimo vagone semivuoto della funicolare.
Ogni volta che si è sulle spine non solo i pensieri, pure i comportamenti si fanno spinosi.
Perciò davanti alla mano tesa ad elemosinare della zingarella con bambino in braccio che le si parò davanti, lei non accennò neppure un gesto di diniego come era invece solita fare per prassi di gentilezza. Inizialmente rimase del tutto indifferente, consapevole che da loro non avrebbe tratto alcun materiale utile per uno scritto. Che storia avrebbe potuto, infatti,cucire addosso alla ragazza e al suo bambino se non il solito racconto di luoghi comuni e pregiudizi? Cominciare descrivendone la bellezza acerba ma già sfruttata di donna-ragazzina, rimarcare l’anacronismo di agghindarsi a quel tipico modo delle gitane, porre infine l’accento sul molesto tono querulo della voce. Poi sarebbe passata al bambino, sottolineando lo scempio di rubare infanzie spensierate ad anime innocenti sottoposte al supplizio di imparare, fin da subito, il mestiere d’accattone.
Scavare a fondo nel cliché del nomadismo estraendone rincrescimento, rammarico, fastidio per la palese inerzia delle istituzioni. Solo questo, null’altro ne poteva venire e non era di certo ciò di cui aveva bisogno.
Controvoglia, quindi, si arrese all’invito tacito della vicina, che con un’alzata di spalle e un’espressione d’insofferenza sulla faccia, aveva girato la testa nella loro direzione sollecitandola a condividere il proprio disgusto, e spostò lo sguardo sui due.
Si sorprese allora a ripensare che sul seggiolino dove ore sedeva il piccolino, sistemato lì dalla madre, meno di una settimana prima ci aveva visto un altro di bambino.
Stessa corporatura e apparentemente stessa età.
L’altro, quello della settimana prima, ben vestito, ben pettinato, naso ben pulito, guantini alle mani, sedeva tra i genitori remissivo, sottomesso, costretto a forza di aspri rimproveri a rimanere fermo.
Questo invece, vestito con i suoi abiti da zingarello, spettinato, moccolo al naso, manine rosse per il freddo, occupava con gran compostezza, quasi con solennità, il posto che la mamma gli aveva ceduto, arrangiandosi lei sul gradone centrale del vagone-
Le due immagini si sovrapponevano nella sua testa, ma non c’era verso di farle coincidere. Confliggevano, ma non nel senso che la nostra spettatrice si sarebbe atteso.
C’era un elemento, una nota dissonante: la felicità.
La gioia, l’allegria, o comunque lo si voglia chiamare quel certo sentimento di piacere che illumina la gente contenta, assente nella scena della settimana precedente, dove pure ci sarebbero stati tutti gli elementi per ipotizzarla, era invece percepibile chiaramente in questa, dove a rigor di logica ne sarebbero mancati del tutto i presupposti.
Ognuno svolge il proprio lavoro recitando pubblicamente un ruolo. Infondo chiedere l’elemosina è per i nomadi una professione come un’altra.
Con tutta evidenza la zingara, smesso di mendicare, era ritornata ora ad essere una mamma. Su quel gradino, ignara dei presenti, si godeva il suo bambino con una spensieratezza che dava piacere a guardarli.
Lui farfugliava parole nel tentativo di imitare la madre e lei a sua volta gli rifaceva il verso. Gli stava insegnando a dire: “per piacere e grazie” in lingua italiana, a tendere la manina in cerca di monete, ma non c’era la benché minima bruttura. Nessun piglio autoritario, ne’ durezza o atto di prepotenza. Al contrario solo reciproche carezze e tenerezze. La ragazza continuava a mangiarsi di baci il suo bambino in un intreccio di risate e complicità.
Poteva interessare a qualcuno quel ribaltamento radicale nella prospettiva della narrazione?
Valeva la pena raccontare che la sacralità del vincolo materno le si era rivelato in un luogo, in circostanze e in un contesto tanto inconsueti? Decise per il sì.
Zingari felici: bello spunto per la sua prossima storia di Natale.
mercoledì 30 novembre 2016
"Quando la storia finisce" di Alessandro Piperno
"Dove la storia finisce" di Alessandro Piperno, edizioni Mondadori è il consiglio di lettura di oggi.
La difficoltà a parlarne sta nel fatto che, essendo il romanzo di un equilibrio esemplare, di una bellezza sobria, di un'eleganza asciutta, non vorrei che troppe parole e/o eccessivamente enfatiche gli rendessero un cattivo servigio. Non è mia intenzione, infatti, complicare una storia e una scrittura che hanno nella semplicità il proprio punto di forza e di pregio, "sovrastrutturandole" inutilmente -per il piacere narcisistico del commentatore logorroico- con giudizi sovrabbondanti. Mi rendo conto, tuttavia, che anche la laconicità ha i suoi rischi, quindi converà aggiungere qualche ulteriore indizio al generico:-" Leggetelo!" per essere più incisiva nell'invito alla lettura.
Protagonista del romanzo è Matteo Zevi, che, dopo la morte dell'usuraio al quale deve dei soldi, può finalmente tornare a Roma, lasciando il suoi rifugio di Los Angeles. Ad attenderlo la moglie Federica e i figli Giorgio e Martina, che gli riserveranno accoglienze molto differenti. Il piacere del ritorno dovrà misurarsi quindi con la gestione delle differenti personalità e degli umori dei tre, ciascuno impegnato, con modalità ed esiti diversi, ad affrontare le proprie difficoltà esistenziali. Sullo sfondo la Roma dei salotti borghesi in odor di decadenza, le radici ebraiche famigliari, i tentativi di omologazione e di rottura con i clichè del caso nello sforzo perenne verso la felicità, e infine l'irruzione inaspettata della storia, quella con la S maiuscola.
Alessandro Piperno dà prova di essere un grande scrittore, mantenendo la narrazione entro i binari di una linearità che non esito a definire ristoratrice per il lettore spesso frastornato dalla prosa di romanzi dove tutto è "gridato", sospettato di essere esageratamente e insopportabilmente finto. I conflitti personali e interpersonali dei protagonisti di Piperno sono pressanti, dilanianti. Rubano loro il sonno, complicano loro l'esistenza eppure la penna dell'autore riesce a "tenerli calmi", a farli tornare sempre alla ragione dopo ogni "sragionamento" senza ricorrere -o meglio- incorrere in un campionario di frasi sensazionali, alla ricerca spudorata dell'effetto.
Quanto al messaggio, Piperno pare voler dire che la storia non finisce quando sembra finire perchè l'uomo trova sempre il modo di gestire sè stesso, a dispetto della storia stessa.
Quanto al messaggio, Piperno pare voler dire che la storia non finisce quando sembra finire perchè l'uomo trova sempre il modo di gestire sè stesso, a dispetto della storia stessa.
Mi permetto, come ultima notazione, senza alcun intento di esprimere il mio favore per l'uno piuttosto che per l'altro, di segnalare che " Quando la storia finisce" ha degli elementi in comune con "Eccomi" di Jonathan Safran Foer : i conflitti coniugali dei protagonisti, il rapporto con l'ebraismo, perfino un dettaglio del finale a sorpresa, simile in entrambi i romanzi. E' interessante constatare come la mano di un autore plasmi la stessa materia su cui lavora anche un altro giungendo ad esiti così diversi. La possibilità di fare rilievi simili resta poi uno dei tanti piaceri della lettura.
giovedì 24 novembre 2016
"La paranza dei bambini" di Roberto Saviano
Ho concluso la lettura del nuovo libro di Saviano " La paranza dei bambini", edito da Feltrinelli, da qualche giorno.
Come procedere allora per dissipare dubbi di malafede e scongiurare accuse di malevolenza? Affidarsi alla solita premessa:
1) che il mio non sarà mai uno "sconsiglio di lettura", poichè, in ogni caso e con ostinazione, consiglio sempre di leggere i libri, anche quelli -e non è questo il caso- meno riusciti.
2) che, per un lettore serio e coscienzioso, imperativo è dimenticarsi dell'autore, lasciar perdere i "personalismi" per immergersi nel testo avendo unicamente riguardo a ciò che è scritto.
3) che naturalmente si tratta sempre di impressioni personali da cui ciascuno liberamente e a pieno titolo potrà dissentire.
Siedo davanti alla tastiera avendo in mente il lusinghiero giudizio di Asor Rosa
(http://www.repubblica.it/cultura/2016/11/11/news/saviano_la_paranza_dei_bambini-151778437/) e con il mio malloppo di appunti accanto.
Decido di profanare il foglio di world con la prima riflessione che mi viene di getto, la prima cosa che con urgenza sento di dover mettere nero su bianco: “La paranza dei bambini" è un romanzo che, sotto il profilo narrativo, funziona e alla grande. Saviano ha fatto un gran bel lavoro. Ha realizzato, cioè, alla lettera quello che chiedo ad ogni buon romanziere: afferrarmi per la collottola, trascinarmi nella storia, tenermi in apnea con la capa sotto l'acqua, rubarmi il sonno, costringendomi a tirare fino quasi all'alba per scoprire "come va a finire il fatto".
Eppure.
Eppure, con il timore reverenziale mirabilmente sintetizzato nella famosa: la mia" faccia sotto i suoi piedi, senza chiedere nemmeno di sfar fermo", dovuto ad Asor Rosa, mi permetto di notare che questa partita -per me- non si gioca ne' sulla perfezione dei meccanismi narrativi, ne' sulla sapienza con cui viene commisto l'italiano con il dialetto napoletano, ne' su quanto il romanzo stia "sul pezzo" riguardo al tema di scottante attualità, ne' tanto meno sulla simpatia o antipatia per l'autore.
Intendo dire che , al di là di ogni analisi testuale e giudizio di merito, personalmente mi arrovella il quesito sulle finalità di un romanzo che mi ha precipitato in una disturbante e straniante dimensione diabolica.
I personaggi della storia sono bambini talmente perduti che sulla loro salvezza o redenzione non è dato farsi illusioni. L'unico esito che mi sono ritrovata, non già ad immaginare, bensì a desiderare fortemente è stato la loro morte violenta, detestandomi per questo.
Se è vero che, diversamente a quanto accade nel mondo della finzione cinematografica dove, grazie al filtro oggettivo dello schermo dinanzi al quale si siede, non si realizza mai una compenetrazione totalizzante tra chi guarda e chi recita, nel mondo dei libri invece l'elemento di massima fascinazione consiste proprio nella possibilità di immedesimazione assoluta del lettore -sprofondato nelle pagine dimentico di sé- con il personaggio scritto, allora, sciogliere il nodo sugli intenti dello scrittore è determinante per formulare il giudizio definitivo sul gradimento del libro.
E' necessario quindi il riferimento a "Gomorra la serie" : là Saviano ci fa vedere, per la prima volta, una porzione di mondo sconosciuta a molti. Qui, nel romanzo, entra di nuovo in quello stesso universo attraverso la porta maestra della coscienza negata di un bambino diabolico, ingiustificabile per nessuna delle scelte che compie. Il giovane protagonista, Maraja, è reso come un novello Achille, schiavo consenziente del fato, che aspira non già alla ricchezza ma alla gloria. Ma a che scopo non contrapporgli ne' un Dio ne' un Ettore, a riscattare un frammento, una possibilità di bene? A che scopo instillare il dubbio, come sembra fare Saviano, che la delinquenza camorristica sia percorso di vita che attinge trasversalmente nel tessuto sociale? A che scopo prospettare un unico inesorabile epilogo, rinunciando a ogni tentativo di spiegazione sociologica o psicologica?
"La paranza" resta un romanzo avvincente, ma paradossalmente, se si pensa al ruolo di divulgatore, moralizzatore e anche di maestro assunto da Saviano presso " la paranza" di giovani fans -grande il successo ottenuto ad "Amici di Maria De Filippi" negli anni scorsi e folta la presenza di ragazzi alla presentazione del libro al rione Sanità- in merito all'argomento che fa da sfondo e da molla alla vicenda, scarsamente arricchente, quasi deludente.
Contravvenendo alla consuetudine di chiacchierarne a caldo, ho preferito lasciare decantare le mie impressioni per un po'. Scriverne è, infatti, impresa ardimentosa, come spesso risulta il manifestare le proprie opinioni su cose venute al mondo già con fama di leggenda. Sempre rischioso fare le pulci ad un libro predestinato ad essere best seller. Perfino audace, sotto certi aspetti, la scelta di commentare il romanzo di un autore percepito dal pubblico più che come scrittore come personaggio, divo amato o odiato tout court, e che per tanto induce sostenitori e detrattori a guardarsi con reciproca acrimonia.
Come procedere allora per dissipare dubbi di malafede e scongiurare accuse di malevolenza? Affidarsi alla solita premessa:
1) che il mio non sarà mai uno "sconsiglio di lettura", poichè, in ogni caso e con ostinazione, consiglio sempre di leggere i libri, anche quelli -e non è questo il caso- meno riusciti.
2) che, per un lettore serio e coscienzioso, imperativo è dimenticarsi dell'autore, lasciar perdere i "personalismi" per immergersi nel testo avendo unicamente riguardo a ciò che è scritto.
3) che naturalmente si tratta sempre di impressioni personali da cui ciascuno liberamente e a pieno titolo potrà dissentire.
Siedo davanti alla tastiera avendo in mente il lusinghiero giudizio di Asor Rosa
(http://www.repubblica.it/cultura/2016/11/11/news/saviano_la_paranza_dei_bambini-151778437/) e con il mio malloppo di appunti accanto.
Decido di profanare il foglio di world con la prima riflessione che mi viene di getto, la prima cosa che con urgenza sento di dover mettere nero su bianco: “La paranza dei bambini" è un romanzo che, sotto il profilo narrativo, funziona e alla grande. Saviano ha fatto un gran bel lavoro. Ha realizzato, cioè, alla lettera quello che chiedo ad ogni buon romanziere: afferrarmi per la collottola, trascinarmi nella storia, tenermi in apnea con la capa sotto l'acqua, rubarmi il sonno, costringendomi a tirare fino quasi all'alba per scoprire "come va a finire il fatto".
Eppure.
Eppure, con il timore reverenziale mirabilmente sintetizzato nella famosa: la mia" faccia sotto i suoi piedi, senza chiedere nemmeno di sfar fermo", dovuto ad Asor Rosa, mi permetto di notare che questa partita -per me- non si gioca ne' sulla perfezione dei meccanismi narrativi, ne' sulla sapienza con cui viene commisto l'italiano con il dialetto napoletano, ne' su quanto il romanzo stia "sul pezzo" riguardo al tema di scottante attualità, ne' tanto meno sulla simpatia o antipatia per l'autore.
Intendo dire che , al di là di ogni analisi testuale e giudizio di merito, personalmente mi arrovella il quesito sulle finalità di un romanzo che mi ha precipitato in una disturbante e straniante dimensione diabolica.
I personaggi della storia sono bambini talmente perduti che sulla loro salvezza o redenzione non è dato farsi illusioni. L'unico esito che mi sono ritrovata, non già ad immaginare, bensì a desiderare fortemente è stato la loro morte violenta, detestandomi per questo.
Se è vero che, diversamente a quanto accade nel mondo della finzione cinematografica dove, grazie al filtro oggettivo dello schermo dinanzi al quale si siede, non si realizza mai una compenetrazione totalizzante tra chi guarda e chi recita, nel mondo dei libri invece l'elemento di massima fascinazione consiste proprio nella possibilità di immedesimazione assoluta del lettore -sprofondato nelle pagine dimentico di sé- con il personaggio scritto, allora, sciogliere il nodo sugli intenti dello scrittore è determinante per formulare il giudizio definitivo sul gradimento del libro.
E' necessario quindi il riferimento a "Gomorra la serie" : là Saviano ci fa vedere, per la prima volta, una porzione di mondo sconosciuta a molti. Qui, nel romanzo, entra di nuovo in quello stesso universo attraverso la porta maestra della coscienza negata di un bambino diabolico, ingiustificabile per nessuna delle scelte che compie. Il giovane protagonista, Maraja, è reso come un novello Achille, schiavo consenziente del fato, che aspira non già alla ricchezza ma alla gloria. Ma a che scopo non contrapporgli ne' un Dio ne' un Ettore, a riscattare un frammento, una possibilità di bene? A che scopo instillare il dubbio, come sembra fare Saviano, che la delinquenza camorristica sia percorso di vita che attinge trasversalmente nel tessuto sociale? A che scopo prospettare un unico inesorabile epilogo, rinunciando a ogni tentativo di spiegazione sociologica o psicologica?
"La paranza" resta un romanzo avvincente, ma paradossalmente, se si pensa al ruolo di divulgatore, moralizzatore e anche di maestro assunto da Saviano presso " la paranza" di giovani fans -grande il successo ottenuto ad "Amici di Maria De Filippi" negli anni scorsi e folta la presenza di ragazzi alla presentazione del libro al rione Sanità- in merito all'argomento che fa da sfondo e da molla alla vicenda, scarsamente arricchente, quasi deludente.
sabato 12 novembre 2016
" Scherzetto" di Domenico Starnone
Nel
mese di ottobre, mentre fuori rinfocolava la discussione sulla identità di
Elena Ferrante a causa dell’inchiesta di Claudio Gatti per il “Sole 24 ore”, Domenico Starnone (del quale si era
indagato anche il conto corrente bancario) “usciva in libreria” con lo “Scherzetto”(titolo
quasi maliziosamente allusivo), Einaudi
editore.
Starnone, che ha all’attivo un Premio Strega, vinto con “Via Gemito” nel 2001, è uno dei migliori scrittori italiani contemporanei e con questo libro conferma l’ottima reputazione di cui gode.
Il soggetto del romanzo è semplice: un nonno ormai anziano, artista di una certa fama da decenni trapiantato a Milano, nonostante sia convalescente da una recente malattia, è richiamato dalla figlia a Napoli, luogo natale, per badare al nipotino di pochi anni durante l’assenza di entrambe i genitori, costretti fuori città da un impegno di lavoro. Tra le pareti della vecchia casa d’infanzia, ereditata dalla figlia, Daniele Mallarico, il protagonista della storia, dovrà tenere a bada contemporaneamente Mario, l’arguto e vivace nipotino, i fantasmi di famiglia che riprendono vita dalle antiche stanze, nonché la duplice ombra del sé stesso giovane, riemerso prepotente dai ricordi e di quello vecchio, con il quale non sembra aver ancora del tutto familiarizzato.
La linearità della trama di questo “ scherzetto” si armonizza perfettamente con la complessità caratteriale dei due protagonisti, dei quali Starnone, con una scrittura che rimane leggera e agevole, gradevole e fluida anche quando l’indagine introspettiva si fa puntigliosa –quasi fastidiosa per il limite a cui si spinge- realizza ritratti del tutto verosimili.
La
contrapposizione che porta nonno e nipote a brevi ma continue scaramucce, a
momenti di collera reciproca anche di grande intensità con i quali si concludono le -in verità brevi - parentesi di gioco,
è molto di più di uno scontro generazionale. Non è semplicemente la saggezza dell’anziano che tiene testa alla
saccenza ingenua del bambino. Ciascuno a suo modo e con aspettative diverse, i due sentono
di avere un conto aperto con il tempo che li rende però similmente tracotanti e
impazienti. Entrambi lottano con le fragilità legate alle rispettive età. Il nonno prende coscienza che il tempo
continua a eroderlo, sottraendogli pezzi di sé, dalla posizione sociale, a
quella lavorativa, alla forza fisica, divenendo umbratile. Il nipote al contrario sa che con
l’alleanza del tempo diventerà quello che ora talvolta finge di essere nei giochi di bimbo, facendosi sfrontato e
capriccioso. Starnone, che ha all’attivo un Premio Strega, vinto con “Via Gemito” nel 2001, è uno dei migliori scrittori italiani contemporanei e con questo libro conferma l’ottima reputazione di cui gode.
Il soggetto del romanzo è semplice: un nonno ormai anziano, artista di una certa fama da decenni trapiantato a Milano, nonostante sia convalescente da una recente malattia, è richiamato dalla figlia a Napoli, luogo natale, per badare al nipotino di pochi anni durante l’assenza di entrambe i genitori, costretti fuori città da un impegno di lavoro. Tra le pareti della vecchia casa d’infanzia, ereditata dalla figlia, Daniele Mallarico, il protagonista della storia, dovrà tenere a bada contemporaneamente Mario, l’arguto e vivace nipotino, i fantasmi di famiglia che riprendono vita dalle antiche stanze, nonché la duplice ombra del sé stesso giovane, riemerso prepotente dai ricordi e di quello vecchio, con il quale non sembra aver ancora del tutto familiarizzato.
La linearità della trama di questo “ scherzetto” si armonizza perfettamente con la complessità caratteriale dei due protagonisti, dei quali Starnone, con una scrittura che rimane leggera e agevole, gradevole e fluida anche quando l’indagine introspettiva si fa puntigliosa –quasi fastidiosa per il limite a cui si spinge- realizza ritratti del tutto verosimili.
Sullo sfondo il dubbio, il flebilissimo dubbio, che Daniele Mallarico , il quale ostinatamente ascrive i difetti caratteriali di Mario ad un’ odiosa eredità paterna, tema che quel bimbo, da un insolito e precocissimo talento, sia invece la sua naturale nemesi
giovedì 10 novembre 2016
" Lo schiavista" di Paul Beatty"
Premessa:
Talvolta, come ebbe a dire Flaiano, “ la linea più breve tra due punti è l'arabesco”. E’ questo uno di quei casi, laddove, prima di giungere al consiglio di non lasciarsi scappare un libro molto, molto piacevole, ho ritenuto importante aprire una parentesi sulla letteratura afroamericana. L’esito è un pezzo insolitamente lungo, che spero non scoraggi i lettori.
“The Sellout ”, dello statunitense Paul Beatty, ha vinto l’edizione 2016 del prestigioso premio letterario britannico “Man Booker Prize”.
In Italia il libro, intitolato “Lo
Schiavista”, tradotto da Silvia
Castoldi, è uscito il 6 Ottobre per Fazi
Editore .
Amanda Foreman, presidente di giuria, a proposito dei sei candidati alla vittoria aveva dichiarato che essi riflettono “ciò che è centrale nel romanzo moderno – la sua capacità di difendere ciò che non è convenzionale, di esplorare l’ignoto e di affrontare tematiche spinose”.
Ho considerato tali parole come un suggerimento circa gli elementi di cui tenere conto, tra gli altri, durante la lettura. Ho ritenuto, cioè, imperativo valutare se “ Lo Schiavista” rispetti i parametri della scelta per poi riferire quanto di non convenzionale, di nuovo, di spinoso effettivamente contenga.
Inverto per comodità la terna e comincio da quell’ultimo “spinoso”.
Paul Beatty, classe 1962 è uno scrittore di colore che affronta - qui, come in tutta la sua precedente produzione fatta di poetry slam (poesia orale), romanzi e racconti- il tema razziale, ancora oggi tra i più spinosi per la letteratura americana.
L’opportunità di dare voce ai problemi dei neri ma soprattutto la necessità di stabilire se abbiano titolo a scriverne solo gli autori di colore o anche quelli bianchi, sono, infatti, argomenti molto discussi. Interessante, a tal proposito, la voce di Jonathan Franzen:- “Ho pensato di farlo ma non ho molti amici neri. Non sono mai stato innamorato di una nera. Scrivo di personaggi, e per scriverne devo amarli. Se non hai mai amato direttamente una categoria di persone –una persona di un’altra razza, o una profondamente religiosa– penso sia molto difficile azzardarsi, o inevitabilmente anche aspirare, a scrivere dal loro punto di vista”.
L’autore de “ Le correzioni” sembrerebbe in perfetta linea con le due posizioni assunte a capisaldi della diatriba, sintetizzabili con l’idea di ascrivere alla “letteratura afroamericana” una prerogativa politica non accollata a quella bianca, alla quale invece compete “registrare il presente per uno spirito di esplorazione, generosità, curiosità, audacia, compassione, ma non di dibattito, ne’ critica” (così Lionel Shriver), e di sconsigliare “agli scrittori bianchi” certi argomenti più consoni ai colleghi afroamericani, per evitare -dato l’attuale popolarità dei temi razziali- l’accusa di ricercare solo il successo.
Amanda Foreman, presidente di giuria, a proposito dei sei candidati alla vittoria aveva dichiarato che essi riflettono “ciò che è centrale nel romanzo moderno – la sua capacità di difendere ciò che non è convenzionale, di esplorare l’ignoto e di affrontare tematiche spinose”.
Ho considerato tali parole come un suggerimento circa gli elementi di cui tenere conto, tra gli altri, durante la lettura. Ho ritenuto, cioè, imperativo valutare se “ Lo Schiavista” rispetti i parametri della scelta per poi riferire quanto di non convenzionale, di nuovo, di spinoso effettivamente contenga.
Inverto per comodità la terna e comincio da quell’ultimo “spinoso”.
Paul Beatty, classe 1962 è uno scrittore di colore che affronta - qui, come in tutta la sua precedente produzione fatta di poetry slam (poesia orale), romanzi e racconti- il tema razziale, ancora oggi tra i più spinosi per la letteratura americana.
L’opportunità di dare voce ai problemi dei neri ma soprattutto la necessità di stabilire se abbiano titolo a scriverne solo gli autori di colore o anche quelli bianchi, sono, infatti, argomenti molto discussi. Interessante, a tal proposito, la voce di Jonathan Franzen:- “Ho pensato di farlo ma non ho molti amici neri. Non sono mai stato innamorato di una nera. Scrivo di personaggi, e per scriverne devo amarli. Se non hai mai amato direttamente una categoria di persone –una persona di un’altra razza, o una profondamente religiosa– penso sia molto difficile azzardarsi, o inevitabilmente anche aspirare, a scrivere dal loro punto di vista”.
L’autore de “ Le correzioni” sembrerebbe in perfetta linea con le due posizioni assunte a capisaldi della diatriba, sintetizzabili con l’idea di ascrivere alla “letteratura afroamericana” una prerogativa politica non accollata a quella bianca, alla quale invece compete “registrare il presente per uno spirito di esplorazione, generosità, curiosità, audacia, compassione, ma non di dibattito, ne’ critica” (così Lionel Shriver), e di sconsigliare “agli scrittori bianchi” certi argomenti più consoni ai colleghi afroamericani, per evitare -dato l’attuale popolarità dei temi razziali- l’accusa di ricercare solo il successo.
Tentativi di “invasioni di campo” di grande livello
letterario, tuttavia e per nostra fortuna, ci sono. Penso all’ottima prova di Philip Roth ne “ La macchia umana”, dove
Coleman Silk, il protagonista, decide di subire un’ infondata accusa di
razzismo pur di preservare l’inconfessabile segreto sulla propria identità, o a
quella che valse a J. R. Moehringer nel 1999 il premio Pulitzer con “Oltre il fiume”, un documento sui neri
della Gee’s Bend, piccola comunità di ex schiavi rimasta isolata nell’omonima
striscia di terra a ridosso del fiume Alabama.
Così pure non mancano gli esempi di scrittori afroamericani che hanno rivendicato un’autonomia dai temi classici di riferimento, attirandosi perciò il biasimo per aver rinnegato le proprie origini. Obbligatorio citare Everett Percival il quale ha replicato alle critiche rilevando che“ essere neri non significa scrivere solamente di segregazione e schiavitù. Così come non scriverne non significa essere a favore della segregazione e della schiavitù”. Gli scrittori possono “semplicemente essere attivisti silenziosi, coscienziosi romanzieri”.
Paul Beatty si inserisce, con “ Lo schiavista”, meritatamente tra gli scrittori del calibro di Toni Morrison (Prima afroamericana insignita del Nobel), Alice Walker ( autrice de “il colore viola”), Maya Angelou , Jamaica Kincaid, che hanno fatto grande la letteratura “afroamericana”. Altrettanto meritatamente si è aggiudicato il “Man Booker Prize” per aver scritto un libro non convenzionale con riguardo alla trama, al genere, nonché alla lingua, che gli hanno consentito di affrontare in maniera avvincente, attraverso prospettive inesplorate, lo spinoso tema razziale.
Protagonista del romanzo è “Bonbon”, uomo di colore della piccola borghesia, che vive a Dickens, sobborgo della periferia di Los Angeles. Allevato da un padre single, studioso di scienze sociali, che lo usa come cavia per sperimentare le proprie teorie sociologiche sulla razza, dopo l’omicidio del genitore per mano della polizia, “sembra prendere coscienza delle tribolazioni della razza nera “ e si sente pronto “ a realizzare qualcosa nella vita” . Quasi che il cadavere del padre gli “dicesse:- Lo vedi, negro, se una cosa del genere può capitare al nero più intelligente del mondo, immagina cosa potrebbe succedere a un deficiente come te. Solo perché il razzismo è morto, non significa che non sparino più ai neri a vista”.
Insieme a Hominy Jenkins, vecchio attore di colore, un tempo tra i protagonisti de “ Le Simpatiche Canaglie” autoproclamatosi suo schiavo, reintroduce la segregazione razziale nel ghetto per spronare i neri a ricompattarsi e a rivendicare il proprio ruolo sociale. L’ avventura si concluderà davanti alla Corte Suprema, punto a partire dal quale comincia la narrazione.
La condizione dei negri in America è simile ad un disagio cronico.
La scelta dell’autore di affrontare l’argomento affidandolo alla satira, escogitando una soluzione paradossale che origina situazioni di grande comicità, fa de “ Lo Schiavista” un libro che si legge spedito e con la risata, sempre a fior di labbra, pronta a prorompere. Beatty è quello che si definisce un uomo colto, che conosce il latino:spassosissime sono le pagine sui motti tatuati nell’ antica lingua. Apprezzabile che non ricorra ne’ ad un linguaggio eccessivamente aulico, ne’ alla finzione del gergo come capita ai negri che tra loro “parlano in gergo, con la pronuncia del ghetto e quando” vanno “invece in televisione sembrano Kelsey Grammer con il bastone nel culo”. L’uso della lingua è sapiente: vi si mescolano il parlato, il forbito, il gergale, perfino lo scurrile con un risultato di verosimiglianza e autenticità da cui il romanzo trae grande vantaggio . Che cosa dire poi delle metafore? Originalissime, divertenti e contemporaneamente efficacissime.
“ Lo Schiavista” è decisamente un romanzo piacevole, irriverente, divertente, profondo: in una parola, imperdibile.
P.S:
Scrivere
de “ Lo schiavista” all’indomani della elezione di Donald Trump a
presidente degli Stati Uniti D’America conferisce alla cosa un non so che
di surreale. La recensione di un
libro non è certo il “luogo” adatto ad analisi politiche e sociologiche, ne’
tantomeno per formulare auspici. Le eccezioni sono però talvolta ammesse. La genialità di Beatty, oltre al
linguaggio e all’ironia di cui si è detto, si concretizza nell’idea “ blasfema”
di riproporre la segregazione razziale per infondere negli afroamericani di
Dickens l’orgoglio dell’identità etnica, per istillare loro il desiderio di
partecipazione, per incoraggiarne le rivendicazioni di equità e uguaglianza.
Chissà che l’ America non tragga
dalla rappresentanza di Trump lo stimolo per imboccare la strada verso la
definitiva integrazione. Così pure non mancano gli esempi di scrittori afroamericani che hanno rivendicato un’autonomia dai temi classici di riferimento, attirandosi perciò il biasimo per aver rinnegato le proprie origini. Obbligatorio citare Everett Percival il quale ha replicato alle critiche rilevando che“ essere neri non significa scrivere solamente di segregazione e schiavitù. Così come non scriverne non significa essere a favore della segregazione e della schiavitù”. Gli scrittori possono “semplicemente essere attivisti silenziosi, coscienziosi romanzieri”.
Paul Beatty si inserisce, con “ Lo schiavista”, meritatamente tra gli scrittori del calibro di Toni Morrison (Prima afroamericana insignita del Nobel), Alice Walker ( autrice de “il colore viola”), Maya Angelou , Jamaica Kincaid, che hanno fatto grande la letteratura “afroamericana”. Altrettanto meritatamente si è aggiudicato il “Man Booker Prize” per aver scritto un libro non convenzionale con riguardo alla trama, al genere, nonché alla lingua, che gli hanno consentito di affrontare in maniera avvincente, attraverso prospettive inesplorate, lo spinoso tema razziale.
Protagonista del romanzo è “Bonbon”, uomo di colore della piccola borghesia, che vive a Dickens, sobborgo della periferia di Los Angeles. Allevato da un padre single, studioso di scienze sociali, che lo usa come cavia per sperimentare le proprie teorie sociologiche sulla razza, dopo l’omicidio del genitore per mano della polizia, “sembra prendere coscienza delle tribolazioni della razza nera “ e si sente pronto “ a realizzare qualcosa nella vita” . Quasi che il cadavere del padre gli “dicesse:- Lo vedi, negro, se una cosa del genere può capitare al nero più intelligente del mondo, immagina cosa potrebbe succedere a un deficiente come te. Solo perché il razzismo è morto, non significa che non sparino più ai neri a vista”.
Insieme a Hominy Jenkins, vecchio attore di colore, un tempo tra i protagonisti de “ Le Simpatiche Canaglie” autoproclamatosi suo schiavo, reintroduce la segregazione razziale nel ghetto per spronare i neri a ricompattarsi e a rivendicare il proprio ruolo sociale. L’ avventura si concluderà davanti alla Corte Suprema, punto a partire dal quale comincia la narrazione.
La condizione dei negri in America è simile ad un disagio cronico.
La scelta dell’autore di affrontare l’argomento affidandolo alla satira, escogitando una soluzione paradossale che origina situazioni di grande comicità, fa de “ Lo Schiavista” un libro che si legge spedito e con la risata, sempre a fior di labbra, pronta a prorompere. Beatty è quello che si definisce un uomo colto, che conosce il latino:spassosissime sono le pagine sui motti tatuati nell’ antica lingua. Apprezzabile che non ricorra ne’ ad un linguaggio eccessivamente aulico, ne’ alla finzione del gergo come capita ai negri che tra loro “parlano in gergo, con la pronuncia del ghetto e quando” vanno “invece in televisione sembrano Kelsey Grammer con il bastone nel culo”. L’uso della lingua è sapiente: vi si mescolano il parlato, il forbito, il gergale, perfino lo scurrile con un risultato di verosimiglianza e autenticità da cui il romanzo trae grande vantaggio . Che cosa dire poi delle metafore? Originalissime, divertenti e contemporaneamente efficacissime.
“ Lo Schiavista” è decisamente un romanzo piacevole, irriverente, divertente, profondo: in una parola, imperdibile.
P.S:
mercoledì 2 novembre 2016
Il pacco di farina e la nonna
Ogni volta che compro un pacco di farina sorrido pensando a mia nonna. Era una donna semplice come il nome che portava: Anna.
Cresciuta durante i duri anni della seconda guerra, quando la vita offriva alle persone pochissime alternative e divenuta madre nel dopoguerra, tempo in cui valevano unicamente le necessità , lei tradusse entrambi, i bisogni e la mancanza di scelte , in certezze; non saprei dire se per un eccesso di ingenuità o di scaltrezza.
La nonna non conosceva sicuramente Amleto e se gliene avessero parlato avrebbe sorriso dell’interrogativo che egli si poneva, non comprendendone soprattutto la ragione. Piuttosto avrebbe risposto, con risolutezza, che tra essere o non essere si era obbligati unicamente e con tutta evidenza ad essere! Non ha mai avuto dubbi sulla condotta da tenere in ogni contingenza e questo valeva per i sentimenti da provare come per le azioni da compiere. Ad esempio, se il tempo era incerto, mia nonna assolutamente non lo era sulla necessità di uscire con l’ombrello. Di fronte ad un dolore bisognava piangere, così come in caso felicità si doveva gioire, senza sfumature o zone grigie.
Ho sempre immaginato che custodisse, nel grosso secretaire dove stipava le cose importanti, compresi gli abiti con i quali un giorno voleva essere sepolta, un libro ereditato dalle sue antenate, costituito da un lungo elenco dei dispiaceri e delle gioie. Mi pareva, infatti, che i moti dell’anima, in lei non fossero generati spontaneamente da un sentimento personale, quanto piuttosto dalle indicazioni contenute in questa sorta di fantomatica enciclopedia.
Nei momenti di grande pericolo per l’umanità o semplicemente per la nostra nazione, spento il televisore e dopo un breve consulto con la sua vicina e amica fedele, nonna correva a far scorta di generi di prima necessità. Se tornando da scuola trovavo la famiglia intenta alle grandi manovre, senza dubbio, mi preoccupavo e l’intensità della mia ansia dipendeva dalla serietà dei preparativi.
La guerra fredda imponeva che in casa vi fosse sempre una scorta fissa di pochi chili di farina, ma ogni volta che lo scoppio del conflitto atomico si profilava imminente a causa dell’aprirsi di una nuova crisi internazionale, seppur a migliaia di chilometri lontano da noi, i pochi chili divenivano decine. Non importava né cosa raccontassero i telegiornali o quali fossero gli umori che captavo origliando i discorsi dei grandi, né le parole che i miei genitori usavano per tranquillizzarmi. Mi fidavo solo di nonna. Temendo il peggio, ho perso il sonno unicamente durante la lunga fase della rivoluzione di Khomeini in Iran, culminata con l’episodio dell’assalto all'Ambasciata americana di Teheran nel novembre 1979. Ricordo che in sala da pranzo, accostata alla parete, in corrispondenza del tavolo posto al centro della stanza, c’era una credenza - il buffet, come lo chiamava lei-. Un giorno, nel periodo in cui alla televisione imperava il volto dell’Ayatollah, rincasando mi colpì che il mobile non si trovasse al solito posto, bensì chiudesse un angolo della stanza a mò d’ipotenusa, creando nel retro un capiente spazio vuoto. Corsi a sbirciare in quello stanzino realizzato in maniera rudimentale e vidi una cosa mai vista in precedenza: un saccone enorme contenente un quintale di farina. Oltre quella volta, negli anni accaddero altri fatti allarmanti: il rapimento dell’on. Moro, il terremoto del novembre 1980 e l’ attacco missilistico libico contro Lampedusa , ma furono tutti episodi “da pochi pacchetti” e mai più rividi il “quintale”.
Ci sono parole, simboli e gesti che non travalicano i confini del proprio tempo, così é stato per l’inconfondibile comportamento di nonna, trascinato via dalla modernità. Ogni lingua si evolve costantemente, sacrificando alcune parole per crearne di altre, mi chiedo spesso quale sia il nuovo, muto vocabolo del mio lessico famigliare attraverso il quale, ora le mie figlie colgono i pericoli dei tempi. In attesa della risposta, mi rifugio nel ricordo di quei lontani giorni, che custodisco tra le immagini più preziose della mia fanciullezza, in cui la dispensa era un’oasi, e quell’oro bianco che la riempiva l’unico antidoto contro la mia ansia di vivere.
La nonna mi manca. Ho nostalgia del sorriso aperto e schietto che le adornava il viso, della luce dei suoi occhi, che mi guardavano con avidità perché ero la sua prima nipote e perché l’avevo resa bisnonna. Mi manca, soprattutto, la sua risolutezza di fronte alla vita e alla storia.
sabato 29 ottobre 2016
"Zero K" di Don DeLillo
Ci sono volte in cui il senso del pudore, che consapevole della nostra inadeguatezza ci suggerisce il silenzio, soccombe sconfitto dalla necessità di raccontare certe meraviglie. La meraviglia è, in questo caso, l’ultimo libro di Don DeLillo: “Zero K”, tradotto da Federica Aceto per Einaudi. Metto da parte tutto ciò che ho letto a riguardo, compresi l’interessante “dietro le quinte” del suo lavoro di traduzione firmato da Federica Aceto https://giacomoverri.wordpress.com/2016/10/18/dire-quasi-la-stessa-cosa-federica-aceto-e-don-delillo/ nonchè l’intervista all’autore realizzata da Giuseppe Genna https://www.che-fare.com/dont-delillo/ e provo a dire la mia, nel tentativo — che già prevedo vano- di condensare un libro che più e meglio di altri ispirerà, per la profondità nascosta dietro l’asciuttezza della prosa, qualcosa di diverso a ciascuno dei lettori.
Zero K è un romanzo sul futuro, sulla storia, sulla vita e la morte, sulla parola e implicitamente quindi sulla scrittura. De Lillo è un oceano le cui profondità obbligano il lettore a qualcosa di più di una semplice immersione, pur già ricerca oltre il superficiale. Gli impongono infatti un’ attività di vero e proprio scandagliamento di tutti i possibili livelli di lettura.
Al livello minimo, “Zero K” è la storia di Jeffrey Lockhart, protagonista e voce narrante, che accompagna il padre Ross, magnate della finanza, e la matrigna Artis Martineau, archeologa gravemente ammalata, presso una struttura avveneristica in una località non identificabile, dove la donna verrà conservata in una capsula griogenica ( ad una temperatura vicina allo 0 Kelvin che ispira il titolo del libro) in attesa di rinascere in un futuro in cui la medicina e la tecnologia l’avranno accessoriata di organi perfettamente funzionanti e predisposta alla vita eterna.
La cella criogenica in cui viene conservata Artis e, a distanza di due anni lo sarà anche il marito, mi è sembra un rimando alla limousine in cui consuma la propria giornata Eric Packer, altro miliardario a cui, proprio come a Ross “ piacevano i quadri”, protagonista di “ Cosmopolis”,romanzo che, più degli altri, precedenti o successivi, appare disseminato di sementi che DeLillo lascia fruttificare pienamente qui in “Zona K”: i monitor, dai quali Eric osserva scene di violenza con il desiderio che siano ritrasmesse, ricompaiono infatti in Convergence ( la stuttura dove avviene la conservazione), lo sconosciuto che si da fuoco lungo Broadway anticipa i due uomini che ingeriranno carburante per poi darsi alle fiamme davanti agli occhi di Jeffrey, e soprattutto l’idea che “serve una nuova teoria del tempo”, enunciata da uno dei personaggi di “Cosmopolis” pare riallacciarsi all’incipit “Tutti vogliamo possedere la fine del mondo” di Zero K.
Come si arriva a possedere dunque la fine del mondo? Attraverso la scienza naturalmente, che lavora alacremente per sconfiggere la morte, e nelle more del conseguimento di tale obiettivo, regala agli individui che abbiano sufficienti risorse economiche per sottoporsi alla criogenesi conservativa, la possibilità di attendere in uno stato di sospensione incorporea dove l’essere umano è ridotto ad un semplice flusso di pensieri. Siamo in un certo qual modo alla materializzazione del “cogito ergo sum”, da cui però, con uno scatto ulteriore, ma perfettamente in linea con la sua “poetica”, DeLillo si emancipa completamente, ribadendo la centralità della parola sul pensiero: l’ Artis cogitante nella propria capsula criogenica, libera dal corpo, oscillando tra la prima e terza persona così farnetica:-
“Cerco di sapere chi sono. Ma sono solo quello che dico e non è quasi niente. Lei non è in grado di vedere se stessa, di darsi un nome, di valutare da quanto tempo ha cominciato a pensare le cose
che pensa. Penso di essere qualcuno. Ma sto solo dicendo delle parole. Le parole non se ne vanno mai!”
La parola si conferma dunque essere l’unica cifra in grado di connotare l’individuo, anche quello futuro, benchè oltre l’orizzonte temporale attuale occorrerà adeguare anche il linguaggio ai progressi promossi dalla scienza . Non a caso a Convergence è già in uso una nuova lingua, “isolata, scevra da legami con altre lingue, (…) insegnata ad alcuni, impiantata in altri, quelli cioè già in uno stato di crioconservazione. Un sistema che offrirà nuovi significati, […]Amplierà la nostra realtà e la profondità del nostro intelletto”attraverso la quale conosceranno loro “stessi come mai prima”
Jeffrey Lockhart è egli stesso ossessionato dalle parole, tanto da sentire costantemente l’esigenza di dare un nome alle cose e battezzare le persone. Immagino dunque che alle sue spalle ci sia l’ombra immanente dello scrittore e che la sua voce sia la voce dello scrittore. Così quando si chiede se:-” Non era forse per questo che era lì, per sovvertire le danze della trascendenza con i miei trucchi e i mei stratagemmi”, non posso che assentire e rallegrarmi che nel panorama letterario mondiale ci sia il genio di DeLillo a sovvertirle, queste benedette danze.
Zero K è un romanzo sul futuro, sulla storia, sulla vita e la morte, sulla parola e implicitamente quindi sulla scrittura. De Lillo è un oceano le cui profondità obbligano il lettore a qualcosa di più di una semplice immersione, pur già ricerca oltre il superficiale. Gli impongono infatti un’ attività di vero e proprio scandagliamento di tutti i possibili livelli di lettura.
Al livello minimo, “Zero K” è la storia di Jeffrey Lockhart, protagonista e voce narrante, che accompagna il padre Ross, magnate della finanza, e la matrigna Artis Martineau, archeologa gravemente ammalata, presso una struttura avveneristica in una località non identificabile, dove la donna verrà conservata in una capsula griogenica ( ad una temperatura vicina allo 0 Kelvin che ispira il titolo del libro) in attesa di rinascere in un futuro in cui la medicina e la tecnologia l’avranno accessoriata di organi perfettamente funzionanti e predisposta alla vita eterna.
La cella criogenica in cui viene conservata Artis e, a distanza di due anni lo sarà anche il marito, mi è sembra un rimando alla limousine in cui consuma la propria giornata Eric Packer, altro miliardario a cui, proprio come a Ross “ piacevano i quadri”, protagonista di “ Cosmopolis”,romanzo che, più degli altri, precedenti o successivi, appare disseminato di sementi che DeLillo lascia fruttificare pienamente qui in “Zona K”: i monitor, dai quali Eric osserva scene di violenza con il desiderio che siano ritrasmesse, ricompaiono infatti in Convergence ( la stuttura dove avviene la conservazione), lo sconosciuto che si da fuoco lungo Broadway anticipa i due uomini che ingeriranno carburante per poi darsi alle fiamme davanti agli occhi di Jeffrey, e soprattutto l’idea che “serve una nuova teoria del tempo”, enunciata da uno dei personaggi di “Cosmopolis” pare riallacciarsi all’incipit “Tutti vogliamo possedere la fine del mondo” di Zero K.
Come si arriva a possedere dunque la fine del mondo? Attraverso la scienza naturalmente, che lavora alacremente per sconfiggere la morte, e nelle more del conseguimento di tale obiettivo, regala agli individui che abbiano sufficienti risorse economiche per sottoporsi alla criogenesi conservativa, la possibilità di attendere in uno stato di sospensione incorporea dove l’essere umano è ridotto ad un semplice flusso di pensieri. Siamo in un certo qual modo alla materializzazione del “cogito ergo sum”, da cui però, con uno scatto ulteriore, ma perfettamente in linea con la sua “poetica”, DeLillo si emancipa completamente, ribadendo la centralità della parola sul pensiero: l’ Artis cogitante nella propria capsula criogenica, libera dal corpo, oscillando tra la prima e terza persona così farnetica:-
“Cerco di sapere chi sono. Ma sono solo quello che dico e non è quasi niente. Lei non è in grado di vedere se stessa, di darsi un nome, di valutare da quanto tempo ha cominciato a pensare le cose
che pensa. Penso di essere qualcuno. Ma sto solo dicendo delle parole. Le parole non se ne vanno mai!”
La parola si conferma dunque essere l’unica cifra in grado di connotare l’individuo, anche quello futuro, benchè oltre l’orizzonte temporale attuale occorrerà adeguare anche il linguaggio ai progressi promossi dalla scienza . Non a caso a Convergence è già in uso una nuova lingua, “isolata, scevra da legami con altre lingue, (…) insegnata ad alcuni, impiantata in altri, quelli cioè già in uno stato di crioconservazione. Un sistema che offrirà nuovi significati, […]Amplierà la nostra realtà e la profondità del nostro intelletto”attraverso la quale conosceranno loro “stessi come mai prima”
Jeffrey Lockhart è egli stesso ossessionato dalle parole, tanto da sentire costantemente l’esigenza di dare un nome alle cose e battezzare le persone. Immagino dunque che alle sue spalle ci sia l’ombra immanente dello scrittore e che la sua voce sia la voce dello scrittore. Così quando si chiede se:-” Non era forse per questo che era lì, per sovvertire le danze della trascendenza con i miei trucchi e i mei stratagemmi”, non posso che assentire e rallegrarmi che nel panorama letterario mondiale ci sia il genio di DeLillo a sovvertirle, queste benedette danze.
domenica 23 ottobre 2016
American Pastoral il film
Lessi "Pastorale americana", il capolavoro di Philip Roth, nel luglio del 2008. Fu subito colpo di fulmine: l'inizio di un innamoramento verso il più grande degli scrittori americani contemporanei che dura tuttora; il principio di un' ammirazione sconfinata che è passata indenne attraverso tutte le prove cui l'ho sottoposta: non una singola riga dei romanzi di Roth letti successivamente mi ha deluso. Anzi.
Sebbene tra tanta perfezione mi sia concessa addirittura il lusso di eleggere a romanzo del cuore -dando voce ad un vezzo del tutto personale, privo di altra giustificazione se non quella soggettivissima del gradimento individuale- "Il lamento di Portnoy", resta verso Pastorale" un "diritto di primogenitura" per onorare il quale sono dovuta correre al cinema.
Dare voce alle mie impressioni senza spoilerare nulla, tanto agli appassionati che hanno già letto il libro tanti ai futuri spettatori che ignorino la storia, è difficile.
Fughiamo subito il campo dall'obiezione più frequente in questi casi : ho tenuto in conto e ne terrò nello scrivere naturalmente, il limite intrinseco della trasposizione in film di un grande capolavoro letterario ( le iperboli per Roth ci stanno tutte e reggono). Non mi sono seduta in platea piena di aspettative, ne' ne sono uscita "carica di meraviglie", poichè mi ero portata appresso la consapevolezza che la scrittura è ispirata da una musa e il cinema da un'altra. Recarsi in una sala a vedere "un libro" è come andare a trovare un amico convalescente dopo un brutto incidente al volto. Ci vai anche per constatare quanto ne sia rimasto sfigurato, valutarne la cicatrice e perché no la bravura del chirurgo che ha eseguito il rattoppo. Sai che, pur sforzandoti di far finta di nulla, non avrai difronte la faccia cui eri abituato. Resterà comunque immutato l'affetto che vi unisce. Continuerai ad amare quella persona esattamente come prima.
Allora concentriamoci sul lavoro del chirurgo. Il romanzo è stato sezionato , nel senso che alcuni eventi riportati nel libro verso la fine, nel flim sono anticipati. Il romanzo è stato anche "falsato" nel senso che non ne è stata fatta trasposizione letterale.
Può valere, come giudizio complessivo per il film, quello che si dice spesso riguardo alle canzoni più celebrate : " quando le parole sono belle e la melodia è buona, qualsiasi arrangiamento si tenti non altererà la magnificenza del pezzo". Anche così rammendato, avendo scelto di dare risalto ad una chiave di lettura piuttosto che ad un'altra, la trama di "Pastorale Americana" è una storia grandiosa, che prende lo spettatore. Chi andrà al cinema ignorando del tutto il romanzo di Roth non ne rimarrà deluso.
Il conto è diverso per il pubblico che invece, pur disincantato e privo delle aspettative di cui si è detto innanzi, vorrebbe che il grande schermo gli ritornasse anche solo un frammento, per quando piccolo, dello Svedese.
Arriviamo dunque -per restare nella metafora dell'incidente- alle cicatrici.
La prima evidentissima -per me imperdonabile- è Ewan McGregor, il quale presta il volto a Seymour Levov. Dallo Svedese ci si aspetta una bellezza da canone oggettivo classico. Potenza muscolare, altezza, possenza, avvenenza da dio greco che invece non sono così evidenti e pronunciati nell'attore.
Il secondo sfregio è quello perpretato all'anima di Seymour. In ogni singola pagina del romanzo Nathan Zuckerman indaga la reale natura di quest'uomo. Un semplice, una maschera, un'ostinato, uno piegato all'obbedienza o al compiacimento altrui? Ogni nuovo dettaglio scoperto sulla vita dello Svedese scompagina l'ipotesi precedente. Ma al di là delle parole di Zuckerman resta lo spazio libero lasciato da Roth a ciascun lettore di trarre le conclusioni che vuole. Per me Lo Svedese è il monolita che per volontà e coscienza è quello che è, fa quello che fa, vive come vive senza arrendevolezza. L' uomo annichilito e a tratti sconfitto che viene fuori dal film non potrà mai essere lo stesso Seymour Levov che io ho amato.
Sebbene tra tanta perfezione mi sia concessa addirittura il lusso di eleggere a romanzo del cuore -dando voce ad un vezzo del tutto personale, privo di altra giustificazione se non quella soggettivissima del gradimento individuale- "Il lamento di Portnoy", resta verso Pastorale" un "diritto di primogenitura" per onorare il quale sono dovuta correre al cinema.
Dare voce alle mie impressioni senza spoilerare nulla, tanto agli appassionati che hanno già letto il libro tanti ai futuri spettatori che ignorino la storia, è difficile.
Fughiamo subito il campo dall'obiezione più frequente in questi casi : ho tenuto in conto e ne terrò nello scrivere naturalmente, il limite intrinseco della trasposizione in film di un grande capolavoro letterario ( le iperboli per Roth ci stanno tutte e reggono). Non mi sono seduta in platea piena di aspettative, ne' ne sono uscita "carica di meraviglie", poichè mi ero portata appresso la consapevolezza che la scrittura è ispirata da una musa e il cinema da un'altra. Recarsi in una sala a vedere "un libro" è come andare a trovare un amico convalescente dopo un brutto incidente al volto. Ci vai anche per constatare quanto ne sia rimasto sfigurato, valutarne la cicatrice e perché no la bravura del chirurgo che ha eseguito il rattoppo. Sai che, pur sforzandoti di far finta di nulla, non avrai difronte la faccia cui eri abituato. Resterà comunque immutato l'affetto che vi unisce. Continuerai ad amare quella persona esattamente come prima.
Allora concentriamoci sul lavoro del chirurgo. Il romanzo è stato sezionato , nel senso che alcuni eventi riportati nel libro verso la fine, nel flim sono anticipati. Il romanzo è stato anche "falsato" nel senso che non ne è stata fatta trasposizione letterale.
Può valere, come giudizio complessivo per il film, quello che si dice spesso riguardo alle canzoni più celebrate : " quando le parole sono belle e la melodia è buona, qualsiasi arrangiamento si tenti non altererà la magnificenza del pezzo". Anche così rammendato, avendo scelto di dare risalto ad una chiave di lettura piuttosto che ad un'altra, la trama di "Pastorale Americana" è una storia grandiosa, che prende lo spettatore. Chi andrà al cinema ignorando del tutto il romanzo di Roth non ne rimarrà deluso.
Il conto è diverso per il pubblico che invece, pur disincantato e privo delle aspettative di cui si è detto innanzi, vorrebbe che il grande schermo gli ritornasse anche solo un frammento, per quando piccolo, dello Svedese.
Arriviamo dunque -per restare nella metafora dell'incidente- alle cicatrici.
La prima evidentissima -per me imperdonabile- è Ewan McGregor, il quale presta il volto a Seymour Levov. Dallo Svedese ci si aspetta una bellezza da canone oggettivo classico. Potenza muscolare, altezza, possenza, avvenenza da dio greco che invece non sono così evidenti e pronunciati nell'attore.
Il secondo sfregio è quello perpretato all'anima di Seymour. In ogni singola pagina del romanzo Nathan Zuckerman indaga la reale natura di quest'uomo. Un semplice, una maschera, un'ostinato, uno piegato all'obbedienza o al compiacimento altrui? Ogni nuovo dettaglio scoperto sulla vita dello Svedese scompagina l'ipotesi precedente. Ma al di là delle parole di Zuckerman resta lo spazio libero lasciato da Roth a ciascun lettore di trarre le conclusioni che vuole. Per me Lo Svedese è il monolita che per volontà e coscienza è quello che è, fa quello che fa, vive come vive senza arrendevolezza. L' uomo annichilito e a tratti sconfitto che viene fuori dal film non potrà mai essere lo stesso Seymour Levov che io ho amato.
domenica 16 ottobre 2016
"Zona Uno" di Colson Whitehead
martedì 4 ottobre 2016
"La vita davanti a sè". Emile Ajar e Romain Gary ovvero storie di pseudonimi ed eteronimi letterari
Non scrivo di tutti i libri che leggo.
Alcuni li chiudo a doppia mandata nel cuore in silenzio, perchè dopo averli terminati è in silenzio che ci rimugino sopra per giorni.
La brutta -lasciatemelo dire- storia di bracconaggio ai danni di Elena Ferrane -della quale rispetto profondamente il desiderio di anonimato- consumata qualche tempo fa passando in rassegna i conti bancari di alcuni autori, mi ha portato alla memoria la vicenda di Emile Ajar , della sua vera identità e del suo piccolo capolavoro " La vita davanti a sè", edito in Italia nel 2009 da Neri Pozza per la traduzione di Giovanni Bagliolo.
In breve la vicenda personale: storia di pseudonimi, eteronimi e della capacità della letteratura di creare narrazioni che sembrano autofiction ma sono il frutto unicamente del talento creativo che le è proprio: Emile Ajar, autore di ben quattro libri, è in realtà Romain Gary. La Francia scopre tale circostanza qualche tempo dopo il suicidio di Gary, il quale, dopo aver indossato, in segno di rispetto per i soccorritori, una vestaglia rossa affinchè il sangue non si notasse, si sparò alla testa, precisando, in un ultimo messaggio, che il suo suicidio non era in relazione con quello della ex moglie Jean Seberg, avvenuto un anno prima.
Con i due nomi Gary e Ajar -che significano rispettivamente "brucia" e "brace" in russo- è stato l'unico autore capace di bissare il premio Gouncourt, con Le radici del cielo e La vita davanti a sé .
In breve il libro: il protagonista della storia è Momo, un bambino di fede musulmana allevato da Madame Rosa, ex prostituta sfuggita ad Auschwitz, in un appartamento di Belleville , Parigi. La vita di Momo è come quella di tanti altri "ultimi", simile a quella di molti altri bambini, ad esempio, immigrati ai nostri giorni in Europa senza famiglia e destinati a crescere sperimentando il volto più crudo dell'esistenza.
Il registro che usa Emile Ajar è di una narrazione struggente e poetica. Il linguaggio, per nulla forbito, si assesta su un gergale al limite del rozzo totalmente appropriato, mai in ogni caso gratuitamente triviale o irrispettoso verso il lettore . Il libro è tutto un susseguirsi di massime di saggezza crude ma di un'acume che lascia senza parole. Il più perspicace, profondo -in una parola- immenso tra tutti i personaggi è Momo, a cui una sensibilità e un'intelligenza precocissime consentono di comprendere verità che ad altri esseri umani sfuggono persino alla fine dell' intero percorso sulla terra.
Momo ad un certo punto dirà :-" Una cosa che mi è sempre sembrata strana è che le lacrime sono state previste nel programma. Vuol dire che era previsto che noi piangessimo. Bisognava pensarci. Un costruttore che si rispetti non avrebbe mai fatto una cosa simile".
E allora pensateci: leggete questo libro e sappiate che il suggeritore -che sarei io- ha previsto le lacrime, ma anche tanti sorrisi.
domenica 2 ottobre 2016
Le variazioni del dolore di James Rhodes
Ho letto "Le variazioni del dolore" di James Rhodes, edizione Einaudi Stile Libero , tradotto da Cristiana Mennella, lo scorso luglio, mentre ero al mare.
Mi ero riproposta di riparlarne appena fossi tornata alla "civiltà", ma presa dal vortice del ritorno alla vita, ho finito per scordarmi del proponimento, fino a quando, in una mattina di fine settembre, calda e soleggiata, mentre spulcio tra i titoli esposti sulla bancarella del mitico mercatino di Antignano ( Vomero-Napoli), mi trovo il libro tra le mani. Trasalisco, stupita che, tra tutti quei best seller a 5€ ai quali puntano i clienti, ci sia anche Rhodes, in compagnia di un'altra decina di volumi meritevoli di attenzione che del pari rimangono nell'angolo negletti. Magris, Moehringer, Wo Ming, Whitehead. A quel prezzo, nuovi di zecca, me li porterei tutti a casa, ma devo desistere, con il cuore spezzato.
Perchè ci sono libri di cui nessuno parla? che hanno una vita difficile? destinati al macero piuttosto che agli onori ?
Eccomi allora qui, a consigliarvi di leggere "Le variazioni del dolore".
Di sè l'autore scrive:-"Io sono molte cose. Sono un musicista, un uomo, un padre, uno stronzo, un bugiardo e un impostore. Soprattutto, sono una persona che vive nella vergogna".
Leggendo il libro si tocca con mano che Rhodes è tutto ciò che dice di essere ma soprattutto una persona che non vuole più mentire su sè stesso, che sente l'esigenza di svelarsi, raccontando al mondo la storia del bambino abusato che è stato.
Nell'epigrafe sono riportate le parole di Phil Klay, veterano dei mairnes: " Se eleviamo il trauma a feticcio, i sopravvissuti sono in trappola, incapaci di sentirsi conosciuti davvero...Non si rende onore alla persona dicendogli:" Non riesco prorio ad immaginare quello che hai passato". Ascoltate invece la sua storia e provate a mettervi nei suoi panni per quanto duro e scomodo possa essere."
Questo è l'invito che sento di rivolgere a molte categorie di persone.
Agli amanti delle buone letture: nonostante il terribile tema trattato, la narrazione di Rhodes non è mai brutale, disturbante o respingente.
Agli amanti della musica: Rhodes attribuisce potere taumaturgico alle note. Ad esse riconosce il merito della propria rinascita . Tra le pagine del libro trova il modo di esternare quindi la propria gratitudine verso la musica classica, raccontando dei brani e dei musicisti a cui è più legato con toni estremamenti coinvolgenti.
A tutti i genitori, ai nonni, agli insegnanti, a tutti coloro che vivono accanto ai bimbi: nessuno è preparato ad una terribile eventualità del genere. Ma è bene imparare a riconoscere i segni di una violenza subita.
"Non vorrei scrivere di certe cose. Non vorrei affrontare l'inevitabile senso di vergogna che si portano dietro (...) ma neanche mi va di tacere, o peggo ancora di credere che dovrei tacere, quando la nostra cultura (...) continua a permettere, avallare, favorire e sguazzare nell'abuso sessuali sui minori". Così scrive Rhodes per il quale il suo romanzo è uno dei tanti stumenti utili per spezzare il ciclo degli abusi.
Bel libro, ben scritto. Vale la pena, credetemi.
Mi ero riproposta di riparlarne appena fossi tornata alla "civiltà", ma presa dal vortice del ritorno alla vita, ho finito per scordarmi del proponimento, fino a quando, in una mattina di fine settembre, calda e soleggiata, mentre spulcio tra i titoli esposti sulla bancarella del mitico mercatino di Antignano ( Vomero-Napoli), mi trovo il libro tra le mani. Trasalisco, stupita che, tra tutti quei best seller a 5€ ai quali puntano i clienti, ci sia anche Rhodes, in compagnia di un'altra decina di volumi meritevoli di attenzione che del pari rimangono nell'angolo negletti. Magris, Moehringer, Wo Ming, Whitehead. A quel prezzo, nuovi di zecca, me li porterei tutti a casa, ma devo desistere, con il cuore spezzato.
Perchè ci sono libri di cui nessuno parla? che hanno una vita difficile? destinati al macero piuttosto che agli onori ?
Eccomi allora qui, a consigliarvi di leggere "Le variazioni del dolore".
Di sè l'autore scrive:-"Io sono molte cose. Sono un musicista, un uomo, un padre, uno stronzo, un bugiardo e un impostore. Soprattutto, sono una persona che vive nella vergogna".
Leggendo il libro si tocca con mano che Rhodes è tutto ciò che dice di essere ma soprattutto una persona che non vuole più mentire su sè stesso, che sente l'esigenza di svelarsi, raccontando al mondo la storia del bambino abusato che è stato.
Nell'epigrafe sono riportate le parole di Phil Klay, veterano dei mairnes: " Se eleviamo il trauma a feticcio, i sopravvissuti sono in trappola, incapaci di sentirsi conosciuti davvero...Non si rende onore alla persona dicendogli:" Non riesco prorio ad immaginare quello che hai passato". Ascoltate invece la sua storia e provate a mettervi nei suoi panni per quanto duro e scomodo possa essere."
Questo è l'invito che sento di rivolgere a molte categorie di persone.
Agli amanti delle buone letture: nonostante il terribile tema trattato, la narrazione di Rhodes non è mai brutale, disturbante o respingente.
Agli amanti della musica: Rhodes attribuisce potere taumaturgico alle note. Ad esse riconosce il merito della propria rinascita . Tra le pagine del libro trova il modo di esternare quindi la propria gratitudine verso la musica classica, raccontando dei brani e dei musicisti a cui è più legato con toni estremamenti coinvolgenti.
A tutti i genitori, ai nonni, agli insegnanti, a tutti coloro che vivono accanto ai bimbi: nessuno è preparato ad una terribile eventualità del genere. Ma è bene imparare a riconoscere i segni di una violenza subita.
"Non vorrei scrivere di certe cose. Non vorrei affrontare l'inevitabile senso di vergogna che si portano dietro (...) ma neanche mi va di tacere, o peggo ancora di credere che dovrei tacere, quando la nostra cultura (...) continua a permettere, avallare, favorire e sguazzare nell'abuso sessuali sui minori". Così scrive Rhodes per il quale il suo romanzo è uno dei tanti stumenti utili per spezzare il ciclo degli abusi.
Bel libro, ben scritto. Vale la pena, credetemi.
mercoledì 28 settembre 2016
Eccomi di Jonathan Safran Foer
Il 29 Agosto è arrivato in libreria, edito da Guanda "Eccomi" di Jonathan Safran Foer, tradotto da Irene Abigail Piccinini.
Un appuntamento che non potevo disertare, avendo tanto apprezzato "Molto forte incredibilmente vicino" . Ho letto il nuovo romanzo tutto d'un fiato, in appena una settimana, ma ho dovuto frapporre qualche giorno e un paio di altri libri prima di scriverne. Dovevo rifletterci su meglio, verificare se con il tempo avrei domato la vocina impertinente che a metà lettura aveva esclamato:- "questo è il miglior romanzo di Franzen dell'ultimo periodo, altro che Purity!" Battuta a parte, messo in conto che ogni romanzo ha con gli altri dello stesso autore un rapporto simile a quello tra fratelli, i quali pur condividendo il patrimonio genetico hanno autonome personalità, e che " Eccomi" non potesse, ne' dovesse replicare " Molto forte e incredibilmente vicino", non mi aspettavo un cambiamento così deciso. Mi hanno sorpresa i maceramenti di coppia introspettivi -anche troppo- e gli interni familiari di normalità "disfunzionali" alla Franzen che lontani dal mondo di Franzen, però, non funzionano altrettanto bene.
"Eccomi" è la storia di Jacob, un autore di fiction alle prese con la ridefinizione di sé nella dimensione di single e padre separato, ma soprattutto dei termini della propria appartenenza al popolo ebraico. Sullo sfondo, un terremoto apocalittico che sconquassa il Medio Oriente trascinando Israele in una guerra con i confinanti, che è l'espediente narrativo per costringere Jacob a metabolizzare, una volta per tutte, il suo essere "ebreo religioso".
Le 666 pagine del libro sono un'occasione mancata. Da tempo si attende il nuovo grande romanzo americano, un nuovo Via col vento fatto di famiglia, luoghi, conflitti.
Di famiglia, in "Eccomi" ce n'è tanta. Gioiosa, dolorosa, riflessiva, ipercolta, corale. Il luogo, Washington, non poteva essere più rappresentativo di un'America in cui le "vite interiori" sono "schiacciate da tutto quel vivere". Conflitti, vari e abbondanti, metaforici e reali: si combattono i coniugi , lotta Jacob contro suo padre, i suoi figli, i parenti venuti da Israele, perfino contro sè stesso. Scende in guerra Israele, richiamando gli ebrei americani. "Eccomi" sembrerebbe il candidato perfetto.
Eppure non mi ha spinta verso un totalizzante coinvolgimento emotivo. Sarà per uno squilibrio tra la mancanza di elementi ossigenanti e la sovrabbondanza di quelli "celebrali" che porta Safran Foer lontano dall' effervescenza del Portnoy di Roth e dalla pacatezza de " Il commesso" di Malamud, senza suggerirgli una terza via che non sia un' accuratezza da manuale di psicologia.
Eppure non mi ha spinta verso un totalizzante coinvolgimento emotivo. Sarà per uno squilibrio tra la mancanza di elementi ossigenanti e la sovrabbondanza di quelli "celebrali" che porta Safran Foer lontano dall' effervescenza del Portnoy di Roth e dalla pacatezza de " Il commesso" di Malamud, senza suggerirgli una terza via che non sia un' accuratezza da manuale di psicologia.
Eccomi è un romanzo impeccabile. Ma un romanzo riuscito deve andare oltre " il perfetto per contenuto e forma".
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