Ci sono volte in cui il senso del pudore, che consapevole della nostra inadeguatezza ci suggerisce il silenzio, soccombe sconfitto dalla necessità di raccontare certe meraviglie. La meraviglia è, in questo caso, l’ultimo libro di Don DeLillo: “Zero K”, tradotto da Federica Aceto per Einaudi. Metto da parte tutto ciò che ho letto a riguardo, compresi l’interessante “dietro le quinte” del suo lavoro di traduzione firmato da Federica Aceto https://giacomoverri.wordpress.com/2016/10/18/dire-quasi-la-stessa-cosa-federica-aceto-e-don-delillo/ nonchè l’intervista all’autore realizzata da Giuseppe Genna https://www.che-fare.com/dont-delillo/ e provo a dire la mia, nel tentativo — che già prevedo vano- di condensare un libro che più e meglio di altri ispirerà, per la profondità nascosta dietro l’asciuttezza della prosa, qualcosa di diverso a ciascuno dei lettori.
Zero K è un romanzo sul futuro, sulla storia, sulla vita e la morte, sulla parola e implicitamente quindi sulla scrittura. De Lillo è un oceano le cui profondità obbligano il lettore a qualcosa di più di una semplice immersione, pur già ricerca oltre il superficiale. Gli impongono infatti un’ attività di vero e proprio scandagliamento di tutti i possibili livelli di lettura.
Al livello minimo, “Zero K” è la storia di Jeffrey Lockhart, protagonista e voce narrante, che accompagna il padre Ross, magnate della finanza, e la matrigna Artis Martineau, archeologa gravemente ammalata, presso una struttura avveneristica in una località non identificabile, dove la donna verrà conservata in una capsula griogenica ( ad una temperatura vicina allo 0 Kelvin che ispira il titolo del libro) in attesa di rinascere in un futuro in cui la medicina e la tecnologia l’avranno accessoriata di organi perfettamente funzionanti e predisposta alla vita eterna.
La cella criogenica in cui viene conservata Artis e, a distanza di due anni lo sarà anche il marito, mi è sembra un rimando alla limousine in cui consuma la propria giornata Eric Packer, altro miliardario a cui, proprio come a Ross “ piacevano i quadri”, protagonista di “ Cosmopolis”,romanzo che, più degli altri, precedenti o successivi, appare disseminato di sementi che DeLillo lascia fruttificare pienamente qui in “Zona K”: i monitor, dai quali Eric osserva scene di violenza con il desiderio che siano ritrasmesse, ricompaiono infatti in Convergence ( la stuttura dove avviene la conservazione), lo sconosciuto che si da fuoco lungo Broadway anticipa i due uomini che ingeriranno carburante per poi darsi alle fiamme davanti agli occhi di Jeffrey, e soprattutto l’idea che “serve una nuova teoria del tempo”, enunciata da uno dei personaggi di “Cosmopolis” pare riallacciarsi all’incipit “Tutti vogliamo possedere la fine del mondo” di Zero K.
Come si arriva a possedere dunque la fine del mondo? Attraverso la scienza naturalmente, che lavora alacremente per sconfiggere la morte, e nelle more del conseguimento di tale obiettivo, regala agli individui che abbiano sufficienti risorse economiche per sottoporsi alla criogenesi conservativa, la possibilità di attendere in uno stato di sospensione incorporea dove l’essere umano è ridotto ad un semplice flusso di pensieri. Siamo in un certo qual modo alla materializzazione del “cogito ergo sum”, da cui però, con uno scatto ulteriore, ma perfettamente in linea con la sua “poetica”, DeLillo si emancipa completamente, ribadendo la centralità della parola sul pensiero: l’ Artis cogitante nella propria capsula criogenica, libera dal corpo, oscillando tra la prima e terza persona così farnetica:-
“Cerco di sapere chi sono. Ma sono solo quello che dico e non è quasi niente. Lei non è in grado di vedere se stessa, di darsi un nome, di valutare da quanto tempo ha cominciato a pensare le cose
che pensa. Penso di essere qualcuno. Ma sto solo dicendo delle parole. Le parole non se ne vanno mai!”
La parola si conferma dunque essere l’unica cifra in grado di connotare l’individuo, anche quello futuro, benchè oltre l’orizzonte temporale attuale occorrerà adeguare anche il linguaggio ai progressi promossi dalla scienza . Non a caso a Convergence è già in uso una nuova lingua, “isolata, scevra da legami con altre lingue, (…) insegnata ad alcuni, impiantata in altri, quelli cioè già in uno stato di crioconservazione. Un sistema che offrirà nuovi significati, […]Amplierà la nostra realtà e la profondità del nostro intelletto”attraverso la quale conosceranno loro “stessi come mai prima”
Jeffrey Lockhart è egli stesso ossessionato dalle parole, tanto da sentire costantemente l’esigenza di dare un nome alle cose e battezzare le persone. Immagino dunque che alle sue spalle ci sia l’ombra immanente dello scrittore e che la sua voce sia la voce dello scrittore. Così quando si chiede se:-” Non era forse per questo che era lì, per sovvertire le danze della trascendenza con i miei trucchi e i mei stratagemmi”, non posso che assentire e rallegrarmi che nel panorama letterario mondiale ci sia il genio di DeLillo a sovvertirle, queste benedette danze.
Zero K è un romanzo sul futuro, sulla storia, sulla vita e la morte, sulla parola e implicitamente quindi sulla scrittura. De Lillo è un oceano le cui profondità obbligano il lettore a qualcosa di più di una semplice immersione, pur già ricerca oltre il superficiale. Gli impongono infatti un’ attività di vero e proprio scandagliamento di tutti i possibili livelli di lettura.
Al livello minimo, “Zero K” è la storia di Jeffrey Lockhart, protagonista e voce narrante, che accompagna il padre Ross, magnate della finanza, e la matrigna Artis Martineau, archeologa gravemente ammalata, presso una struttura avveneristica in una località non identificabile, dove la donna verrà conservata in una capsula griogenica ( ad una temperatura vicina allo 0 Kelvin che ispira il titolo del libro) in attesa di rinascere in un futuro in cui la medicina e la tecnologia l’avranno accessoriata di organi perfettamente funzionanti e predisposta alla vita eterna.
La cella criogenica in cui viene conservata Artis e, a distanza di due anni lo sarà anche il marito, mi è sembra un rimando alla limousine in cui consuma la propria giornata Eric Packer, altro miliardario a cui, proprio come a Ross “ piacevano i quadri”, protagonista di “ Cosmopolis”,romanzo che, più degli altri, precedenti o successivi, appare disseminato di sementi che DeLillo lascia fruttificare pienamente qui in “Zona K”: i monitor, dai quali Eric osserva scene di violenza con il desiderio che siano ritrasmesse, ricompaiono infatti in Convergence ( la stuttura dove avviene la conservazione), lo sconosciuto che si da fuoco lungo Broadway anticipa i due uomini che ingeriranno carburante per poi darsi alle fiamme davanti agli occhi di Jeffrey, e soprattutto l’idea che “serve una nuova teoria del tempo”, enunciata da uno dei personaggi di “Cosmopolis” pare riallacciarsi all’incipit “Tutti vogliamo possedere la fine del mondo” di Zero K.
Come si arriva a possedere dunque la fine del mondo? Attraverso la scienza naturalmente, che lavora alacremente per sconfiggere la morte, e nelle more del conseguimento di tale obiettivo, regala agli individui che abbiano sufficienti risorse economiche per sottoporsi alla criogenesi conservativa, la possibilità di attendere in uno stato di sospensione incorporea dove l’essere umano è ridotto ad un semplice flusso di pensieri. Siamo in un certo qual modo alla materializzazione del “cogito ergo sum”, da cui però, con uno scatto ulteriore, ma perfettamente in linea con la sua “poetica”, DeLillo si emancipa completamente, ribadendo la centralità della parola sul pensiero: l’ Artis cogitante nella propria capsula criogenica, libera dal corpo, oscillando tra la prima e terza persona così farnetica:-
“Cerco di sapere chi sono. Ma sono solo quello che dico e non è quasi niente. Lei non è in grado di vedere se stessa, di darsi un nome, di valutare da quanto tempo ha cominciato a pensare le cose
che pensa. Penso di essere qualcuno. Ma sto solo dicendo delle parole. Le parole non se ne vanno mai!”
La parola si conferma dunque essere l’unica cifra in grado di connotare l’individuo, anche quello futuro, benchè oltre l’orizzonte temporale attuale occorrerà adeguare anche il linguaggio ai progressi promossi dalla scienza . Non a caso a Convergence è già in uso una nuova lingua, “isolata, scevra da legami con altre lingue, (…) insegnata ad alcuni, impiantata in altri, quelli cioè già in uno stato di crioconservazione. Un sistema che offrirà nuovi significati, […]Amplierà la nostra realtà e la profondità del nostro intelletto”attraverso la quale conosceranno loro “stessi come mai prima”
Jeffrey Lockhart è egli stesso ossessionato dalle parole, tanto da sentire costantemente l’esigenza di dare un nome alle cose e battezzare le persone. Immagino dunque che alle sue spalle ci sia l’ombra immanente dello scrittore e che la sua voce sia la voce dello scrittore. Così quando si chiede se:-” Non era forse per questo che era lì, per sovvertire le danze della trascendenza con i miei trucchi e i mei stratagemmi”, non posso che assentire e rallegrarmi che nel panorama letterario mondiale ci sia il genio di DeLillo a sovvertirle, queste benedette danze.