Lessi "Pastorale americana", il capolavoro di Philip Roth, nel luglio del 2008. Fu subito colpo di fulmine: l'inizio di un innamoramento verso il più grande degli scrittori americani contemporanei che dura tuttora; il principio di un' ammirazione sconfinata che è passata indenne attraverso tutte le prove cui l'ho sottoposta: non una singola riga dei romanzi di Roth letti successivamente mi ha deluso. Anzi.
Sebbene tra tanta perfezione mi sia concessa addirittura il lusso di eleggere a romanzo del cuore -dando voce ad un vezzo del tutto personale, privo di altra giustificazione se non quella soggettivissima del gradimento individuale- "Il lamento di Portnoy", resta verso Pastorale" un "diritto di primogenitura" per onorare il quale sono dovuta correre al cinema.
Dare voce alle mie impressioni senza spoilerare nulla, tanto agli appassionati che hanno già letto il libro tanti ai futuri spettatori che ignorino la storia, è difficile.
Fughiamo subito il campo dall'obiezione più frequente in questi casi : ho tenuto in conto e ne terrò nello scrivere naturalmente, il limite intrinseco della trasposizione in film di un grande capolavoro letterario ( le iperboli per Roth ci stanno tutte e reggono). Non mi sono seduta in platea piena di aspettative, ne' ne sono uscita "carica di meraviglie", poichè mi ero portata appresso la consapevolezza che la scrittura è ispirata da una musa e il cinema da un'altra. Recarsi in una sala a vedere "un libro" è come andare a trovare un amico convalescente dopo un brutto incidente al volto. Ci vai anche per constatare quanto ne sia rimasto sfigurato, valutarne la cicatrice e perché no la bravura del chirurgo che ha eseguito il rattoppo. Sai che, pur sforzandoti di far finta di nulla, non avrai difronte la faccia cui eri abituato. Resterà comunque immutato l'affetto che vi unisce. Continuerai ad amare quella persona esattamente come prima.
Allora concentriamoci sul lavoro del chirurgo. Il romanzo è stato sezionato , nel senso che alcuni eventi riportati nel libro verso la fine, nel flim sono anticipati. Il romanzo è stato anche "falsato" nel senso che non ne è stata fatta trasposizione letterale.
Può valere, come giudizio complessivo per il film, quello che si dice spesso riguardo alle canzoni più celebrate : " quando le parole sono belle e la melodia è buona, qualsiasi arrangiamento si tenti non altererà la magnificenza del pezzo". Anche così rammendato, avendo scelto di dare risalto ad una chiave di lettura piuttosto che ad un'altra, la trama di "Pastorale Americana" è una storia grandiosa, che prende lo spettatore. Chi andrà al cinema ignorando del tutto il romanzo di Roth non ne rimarrà deluso.
Il conto è diverso per il pubblico che invece, pur disincantato e privo delle aspettative di cui si è detto innanzi, vorrebbe che il grande schermo gli ritornasse anche solo un frammento, per quando piccolo, dello Svedese.
Arriviamo dunque -per restare nella metafora dell'incidente- alle cicatrici.
La prima evidentissima -per me imperdonabile- è Ewan McGregor, il quale presta il volto a Seymour Levov. Dallo Svedese ci si aspetta una bellezza da canone oggettivo classico. Potenza muscolare, altezza, possenza, avvenenza da dio greco che invece non sono così evidenti e pronunciati nell'attore.
Il secondo sfregio è quello perpretato all'anima di Seymour. In ogni singola pagina del romanzo Nathan Zuckerman indaga la reale natura di quest'uomo. Un semplice, una maschera, un'ostinato, uno piegato all'obbedienza o al compiacimento altrui? Ogni nuovo dettaglio scoperto sulla vita dello Svedese scompagina l'ipotesi precedente. Ma al di là delle parole di Zuckerman resta lo spazio libero lasciato da Roth a ciascun lettore di trarre le conclusioni che vuole. Per me Lo Svedese è il monolita che per volontà e coscienza è quello che è, fa quello che fa, vive come vive senza arrendevolezza. L' uomo annichilito e a tratti sconfitto che viene fuori dal film non potrà mai essere lo stesso Seymour Levov che io ho amato.
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