lunedì 29 agosto 2016

Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer

Ci sono dei cassetti che apri in caso di necessità, infilandoci ad occhi chiusi le mani, sicura al cento per cento di recupere ciò che ti occorre. Allo stesso modo, ci sono dei libri in cui ti senti obbligata a rificcare il naso e affondare tutta te stessa, quando cerchi determinate risposte, quando desideri ripercorrere precisi ricordi, quando intendi riprovare particolari sentimenti.
Se volessi, ad esempio, leggere del bombardamento di Dresda durante la seconda guerra mondiale non aprirei altro testo se non il capolavoro di Kurt Vonnegut “Mattatoio n° 5 o La crociata dei Bambini”.
Se volessi un libro che parli dell’ undici settembre, non esiterei a ripescare dalla libreria “La coscienza di Andrew” di E.L. Doctorow.
O meglio, questo è quanto avveniva prima della settimana appena trascorsa, prima cioè che leggessi  “Molto forte, incredibilmente vicino” di Jonathan  Safran Foer, edizioni Guanda, traduzione di Massimo Bocchiola, in cui i due eventi, il bombardamento di Dresda e l’attentato alle torri gemelle, sono uniti da Foer in un unico toccante e incredibile racconto, nel quale un intreccio di destini, che si replicano a distanza di continenti e di decenni con sorprendente similitudine , unisce  i membri di una stessa famiglia, dando vita a una storia che lascia indelebilmente il segno.
“Molto forte, incredibilmente vicino” è un romanzo denso, delicato, doloroso, dalla cui lettura si esce tuttavia rincuorati, come di solito accade con le esperienze  catartiche.
Altro non aggiungo. Esorto  caldamente alla lettura!

domenica 28 agosto 2016

Purity di Jonathan Franzen


“Il desiderio di registrare le storie in maniera indelebile, di annotarle con parole permanenti, mi sembra imparentato con la nostra convinzione di non essere fatti di sola biologia.”
Mi sono innamorata di Jonathan Franzen leggendo le trenta pagine de “ Il cervello di mio padre” nella traduzione di Silvia Pareschi edito nel 2013 da Einaudi, da cui è tratta la citazione.
L’ammirazione si è moltiplicata grazie a “Le correzioni”, con le quali  Franzen è saltato in cima alla lista dei mie autori preferiti del semestre -volubilità del lettore seriale al quale ben si adatta, per quanto riguarda naturalmente gli scrittori e i libri,  ciò che si legge in Madame Bovary a proposito della donna:” La sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordoncino, palpita a tutti i venti, c'è sempre un desiderio che trascina, e una convenienza che trattiene”.
Data la premessa era logico che considerassi un obbligo leggere “Putity”, l'ultimo di Franzen, pubblicato sempre da Einaudi, tradotto sempre da Silvia Pareschi.
Con la massima umiltà e un pizzico di dolore ma per amore di sincerità, mi tocca confessare che ho trovato “Purity”, per molti versi, deludente.

Che le 648 pagine siano un congegno ben architettato, un orologio svizzero, è il dato sottolineato da molti.
La storia –che per inveterata abitudine della sottoscritta non verrà qui riassunta- è ricca di intrecci.
I temi dell’iperconnesione e della privacy in rete che fanno da sottofondo alla narrazione, analisi critica della società contemporanea non nuova in Franzen, attualissimi.
Il viaggio storico nelle Germanie pre-unificazione  un buon punto di partenza per una riflessione sul tema da approfondire  magari attraverso la lettura de “La città degli angeli”, splendido libro di Christa Wolf .
Elettrizzante l’idea, personalissima, di cogliervi citazioni, in bilico tra l’omaggio e l’affronto, a Philip Roth: Annabel, uno delle protagoniste, ha, in alcune modalità di ribellione al padre, qualcosa di Merry, la figlia dello Svedese di “Pastorale Americana”. Così come l’attività masturbatoria assiduamente praticata da uno dei protagonisti maschili riportano a Portnoy del “lamento” omonimo.
Da annotare anche il seppur fugace riferimento ad Ayn Rand.
Gli ingredienti per un buon libro ci sono tutti. Eppure mi aspettavo qualcosa di più emozionante, imprevedibile, coinvolgente.
A metà della storia  ne ho intuito con chiarezza il finale. Non l’ ascrivo alla mia perspicacia bensì ad una grave smagliatura della scrittura, un difetto da cui sono infastidita.
Un racconto che pur non essendo banale risulta piuttosto lineare, insomma. Questo avrei scritto in definitiva di “Purity” se Franzen non avesse inserito la splendida parentesi di [le109n8aOrd] il capitolo che, per la sagacia con cui penetra e scandaglia le pieghe del rapporto di coppia tra due dei coprotagonisti, mi ha parzialmente riconciliato con l’autore e il libro.
Può un solo capitolo  riscattare   le 648 pagine dell’ intero romanzo? Un  dubbio increscioso che resta.
  

mercoledì 17 agosto 2016

Burkini

Alla radio, nel programma dove si discutono i temi scottanti, oggi si parlava di “Burkini”. 

Volevo scrivere un post lungo e articolato su come la mia mente a volte abbia delle default. Su come, quando si predispone alla scrittura, percepisca e classifichi le cose in certo modo, inserendole in uno schema piramidale. Avrei voluto poi descrivere la piramide immaginata, alla cui base c'erano le parole cattolicesimo/islam, conflitto di religione /conflitto di cultura, tolleranza e reciprocità, al cui secondo gradino c'erano corpo ,donna, coprire,al terzo libertà/costrizione, e infine al vertice “mare”.

Volevo prenderla alla lontana insomma, per dire che la cultura e la religione si integrano a vicenda e si sovrappongono scaturendo i canoni etici, estetici, giuridici, politici e sociali di un determinato momento storico, i quali -va da sè- possono cambiare nel momento storico successivo. Per ricordare che mia nonna al mare ci è andata poche volte in vita sua perchè il mare era una cosa da "ricchi" e quando ci è andata lo ha fatto sempre vestita da capo a piedi, che le più spregiudicate tra le sue coetanee azzardavano il prendisole, "smanicato" capo per spudorate, mentre le figlie -ovvero la gioventù- osavano il costume intero, rigorosamente nero, il che accadeva molto prima del tempo in cui le sue pronipoti al mare ci sarebbero andate con i perizomi.
Volevo ricordare uno dei film più belli e significativi del cinema italiano, con la grande Monica Vitti, "la ragazza con la pistola", una fotografia di come fossero "pittoresche" le italiane quando, con il proprio poverissimo bagaglio di stereotipi culturali, andavano nei paesi "civilizzati".
Volevo ancora far rivivere nella nostra memoria il mito "delle svedesi" e "delle tedesche" che affascinava gli abitanti tutti del bel paese, narrazione di donne in bikini o addirittura topless. 
Volevo raccontare, infine, quando per la prima volta in un campeggio internazionale di Firenze le suddette svedesi e tedesche uscirono dalle docce della sezione femminile dei bagni senza minimamente manifestare quel "senso del pudore" a noi tanto caro ovvero nude come mamma le aveva fatte, mortificando il mio sguardo di povera creatura e mia nonne le ebbe ad apostrofare pesantemente con un risentitissimo "screanzate".
Avrei persino pescato nei ricordi altrui, prendendo a prestito il rimpianto delle care suore in missione in Turchia fin dagli anni sessanta, le quali con gran dolore avevano invece dovuto rinunciare al sacro velo obbligato all'epoca dai voti -ironia della sorte- perchè vietato nel laico -per legge- paese di Ataturk.
Avrei cercato, insomma, di sottolineare come è sempre tutto una questione di tempo o meglio dello stesso sospiro che ci fa prorompere in "o tempora o mores!".
Poi mi sono ricordata della foto scattata al mercato di Izmir anni fa, in cui immortalai i costumi con cui una minoranza di donne all'epoca andavano al mare in Turchia. Una minoranza, perchè una parte di donne al mare ci va con i normali costumi . Una minoranza perchè il rapporto con il mare, in molti paesi musulmani, è ancora di timida presa di contatto con un elemento estraneo. In paesi dove non ci sono le vacanze estive solo due categorie infatti godono delle località marine e vacanziere: i ricchi locali che corrono nelle case al mare per trovare sollievo al caldo apocalittico delle città, ( questione di privilegi e di caste) e i turisti, per il cui esclusivo uso e consumo sono sorti i grandi complessi turistici. 
Il Burkini di cui parlano i giornali e sul quale si accaniscono i commentatori nostrani è invenzione recente e -a giudicare dai costi esorbitanti- accessorio per ricchi (Il vecchio costume della mia foto, ha un prezzo irrisorio al confronto).

lunedì 15 agosto 2016

Conserve di famiglia

 La nonna studia il calendario di Agosto. Lei solitamente va con i giorni della settimana, non tiene conto delle date. So cosa c'ha in mente. Ieri è andata casa casa per informarsi dalle vicine delle loro intenzioni. Ha appurato che domani mattina il cortile è di zia Sisina che ha chiamato già pure la sorella per un aiuto. Sono solo due quintali, una fesseria. Zia Sisina è vecchia sola. Consuma poco. Per di più si sono procurate la macchinetta elettrica e lei e la sorella sono di poche parole, svelte, perciò finiranno presto. Avremmo potuto cominciare alla seconda oraria, ma noi le facciamo per tutta la famiglia. Non meno di cinque quintali, noi, se ci teniamo stretti. Ci sono stati anni in cui siamo arrivati anche a otto. Me ne ricordo uno in cui, mentre eravamo sul punto di finire, con gli ultimi pomodori nel pentolone -preferiamo fare la passata a cotto, dopo averle leggermente sbollentate- alla nonna sembrò che le bottiglie, allineate all'ombra sotto l'albero di noce in attesa di essere tappate, fossero poche e allora ordinò altre quattro casse (che fanno su per giù su per giù un quintale) al fruttivendolo. Una follia! 
Iniziare le danze a metà giornata significherebbe finire dentro la nottata e non se ne parla proprio perchè mia madre a una certa ora vuole solo il letto. Il tredici tocca a zia Rosa che, dovendo prestare le cummunità a Zia Sisina, trovandosele fuori dalla cantina, fa un'anima e un coraggio e si leva il dente. Il quattordici è escluso: le previsioni portano pioggia. Sul quindici c'è la croce nera. Il divieto assoluto. Un anno, poiché non ci cambiava niente visto che al mare noi comunque non ci andiamo mai, le facemmo a ferragosto. In capo a due giorni le conserve, già spostate in cantina, erano belle che esplose, tutte fermentate. L'Assunta si era pigliata collera, come volevasi dimostrare. La nonna dovette ammettere l'errore e da allora il 15 si recita il Rosario in cortile, con le altre.
Nonna si sta facendo i conti. La data in cui fare le bottiglie è scienza esatta. Non si può anticipare molto: i pomodori se non ancora del tutto maturi danno alla conserva un retrogusto asprigno e poi vanno ancora cari. Ne' d'altronde si può posticipare troppo: nonostante il prezzo della materia prima scenda, c'è il rischio che si rompano i tempi, e la pioggia primo, rende difficile lavorare, secondo, intofa i pomodori facendo venire la salsa acquosa. Io dico che ha deciso per il sedici mattina. Ora correrà da Ciccillo, il verdummaio a prenotare i nostri quintali e poi a pranzo darà l'annuncio. Farà anche la convocazione per lavare le bottiglie, naturalmente. Domani mattina non più tardi delle nove, appuntamento qua. Non la faranno neppure finire -succede tutti gli anni la stessa cosa- che mamma e papà e zio e zia, arrabbiati neri, come se la cosa di fare e' pummarole fosse una novità di quest'anno, premetteranno che è l'ultimo anno, che dal prossimo diventeremo moderni anche noi, come già Maria 'ncopp' e Giuseppina affianco, che comprano le pelate al supermercato, tanto economicamente ora conviene pure. Il nonno invece si schiererà al fianco di sua moglie, a costo di farli da soli loro due, l'anno prossimo, perchè lui quelle cose artificiali non se le mangia che fanno schifo. Alla fine della discussione, poi però, decideranno tutti insieme di cominciare stesso adesso, a lavare le bottiglie.
La nonna si farà pregare; obbietterà che non è pronta, che non ha comprato abbastanza soda e non ha gli “
scopettini” per tutti ma poi capitolerà e in men che non si dica organizzerà la filiera ,“meglio che alla Cirio”! Scoverà in ogni dove le bottiglie per le passate e i buccacci per i pelati collezionati durante l'inverno. Sciacquerà i “bagnitielli” che pendono impolverati dalle pareti della cantina e sistemerà i cestoni dove mettere a scorrere le bottiglie.
Fare i pomodori è una scienza esatta . Scienza, e per certi versi forma d'arte. Arte che si tramanda da madre in figlia attraverso anni di apprendistato. Ho cominciato che ero piccolissima dalla mansione certo più umile ma che sottintendeva fiducia: prendevo le bottiglie dell'ultimo risciacquo e le sistemavo a gocciolare. Lontano dall'acqua fredda, scongiurando il pericolo del mal di gola -nonna ancora è come se vivesse in un mondo senza antibiotici e la febbre di gola l'atterrisce- ma investita dalla responsabilità di maneggiare il vetro.
  Indosso
, come fosse un riconoscimento ufficiale del mio valore, il grembiule impermeabile, improvvisato con buste nere della spazzatura, brandisco il mio scovolino nuovo fiammante segno di potere, inforco i guanti- nei quali resisterò pochi minuti- e comincio. Ora che sono donna fatta mi spetta la bacinella della prima passata, quella con la soda. Là occorre attenzione, precisione, occhio e competenza. Bisogna scrostare le bottiglie per bene. Farle uscire lucide e pulite. Da quella prima lavata dipende l'esito dell'intera operazione: la salsa non deve andare a male. Se si potesse, ciascuno di noi contrassegnerebbe la bottiglia uscita dalle proprie mani con un asterisco, per prendersi il merito d'aver fatto arrivare integra quella salsa alla pentola, che significa aver lavato la bottiglia e averla sciacquata come si deve e poi averla riempita di conserva con sapienza e infine averla tappata nel migliore dei modi. Ogni bottiglia persa è si un' onta personale ma anche un disonore che ricade sui famigliari tutti, perché con il vicinato, su questa attività, si è sempre un tantino in competizione.
  Il fruttivendolo ha consegnato i pomodori la sera prima, come da richiesta. Devono stare a terra almeno una notte, prima di diventare conserva. Non so se sia una legge di nonna o una regola generale. Si, perché alle norme che per tradizione disciplinano la materia, si aggiungono quelle dettate dallo zelo di mia nonna. Quelle frutto della sua esperienza ma anche delle sue fisime. Le donne con il marchese non possano toccare ne' i pomodori ne' gli strumenti di lavoro, ad esempio, così le si relegano in cucina e ad accudire i bambini, quando ce ne sono, e ce ne sono sempre. E' legge antica e leggenda: pare che la salsa vada a male. Nessuno fino ad ora, tra quelli che conosco, almeno, si sono presi la briga di derogarvi per verificare cosa veramente succede. Nonna ha un altro divieto: chi ha in mano del cibo deve tenersi lontano. Per questo la merenda di metà mattina -il pane con la mortadella che ci porta verso le undici- lo mangiamo allontanandoci a turno oltre un perimetro fissato rigidamente, e si devono tenere lontani anche i vicini che vengono di tanto in tanto a buttare un occhio e a fare quattro chiacchiere. Solo l'aria, le nostre mani, il basilico e il cuppino possono venire in contatto con il sugo sacro e il luogo della battaglia.
  Oggi sedici agosto, ore nove, ha inizio la battaglia. A ciascuno la sua postazione di combattimento, assegnata in base al sesso e all'età.
Tutti insieme lavoreremo con l'energia mattutina al rito preliminare di lavare i pomodori, passandoli velocemente da una tinozza all'altra, fino a farli arrivare nella bacinella dove asciugheranno per qualche istante al sole prima di finire nel pentolone per la scottatura.
Gli uomini poi solleveranno casse e pesi, cureranno il fuoco, saranno al comando della macchinetta
per passare, attapperanno le bottiglie e chiuderanno con la forza che gli è propria i barattoli delle pelate, amministreranno infine i bidoni per la bollitura.
I bimbi si occuperanno di togliere
i nasini verdi ai pomodori prima del lavaggio e di ficcare le foglie di basilico sul fondo delle bottiglie.
Le donne a veloci colpi di mestoli, inanellati in rapida successione, riempiranno bottiglia su bottiglia, esaurendo uno dopo l'altro i pentoloni di sugo fumante, taglieranno in quattro
chilate di pomodori da trasformare in pelate, puliranno gli attrezzi e il cortile a fine lavoro e infine baderanno ai peperoni e patate che verranno messi ad arrostire e a covare sotto la brace dei bidoni.
I piedi bagnati e le mani ammollate dalle troppo ore a contatto con l'acqua, la schiena dolente per le posizioni scomode del lavoro, la fatica, il sole, le mosche. Le voci del cortile, i caffè sorseggiati di tanto in tanto, l'assaggio della prima conserva a tavola, nella pausa pranzo, con la soddisfazione di aver superato in qualità quella dell'anno precedente.
Il rito è cessato. Estinto da anni, come la parte del mio passato a cui è appartenuto. Vive nella memoria, come il cortile, i nonni, l'infanzia, la prima età adulta. Vive nella memoria come un cerimoniale di cui avrò perenne nostalgia. Vive nelle conserve di famiglia.


giovedì 11 agosto 2016

Red or dead di David Peace


Non sapevo neppure chi fosse David Peace, prima di questa estate. Poi una delle voci che considero tra le più autorevoli del panorama letterario italiano, Giuseppe Genna, ne ha scritto. Seguendo la segnalazione mi sono buttata a capofitto, fiduciosa, nelle seicentocinquanta pagine di " Red or dead" e ora David Peace  è il mio nuovo mito. 
David Peace (Wikipedia ha contribuito a colmare la lacuna almeno per quanto riguarda il basico) è uno scrittore inglese, nato  a Ossett, West Yorkshire, nel 1967. Nel 1991 si trasferisce in Turchia per insegnare inglese e successivamente in Giappone per la stessa ragione. Nel frattempo scrive racconti e romanzi, alcuni dei quali subiscono adattamenti cinematografici di buon successo.
"Red or dead", pubblicato in Italia da Il Saggiatore nel 2014, tradotto da P. FormentonM. Pensante, racconta la storia di Bill Shankly, mitico allenatore del Liverpool Football Club.
In verità sono un disastro anche in materia calcistica e nonostante mio marito 
 tempo fa mi avesse trascinato in un pellegrinaggio ad Anfield, leggendario stadio del Liverpool, avevo rimosso il fatto, continuando ad ignorare tanto le prodezze di Shankly, tanto quelle della sua squadra. Grazie a Peace ho ampiamente rimediato anche a questa mancanza e d'ora in poi non dimenticherò più la storia gloriosa di Anfield.
Lo so, lo so, che sono facile agli entusiasmi letterari e vi consiglio caldamente di leggere quasi tutto ciò che mi passa per le mani. Questa volta è diverso: siamo di fronte ad un vero e proprio capolavoro  imprescindibile  sia per gli appassionati di calcio  sia per gli estimatori delle buone letture.
Uno dei più autorevoli critici letterari contemporanei, Harold Bloom, sostiene che un autore rientra nel "canone" quando la sua scrittura propone evidenti elementi di novità. Bloom parla di "singolarità". " Chi  legge per la prima volta un'opera canonica si imbatte  in un estraneo, in una misteriosa sorpresa anzichè nella realizzazione di un'aspettativa." Non potevo dire meglio ciò che mi è accaduto al cospetto del romanzo su Shankly. Sono rimasta sorpresa. "Read or dead" non somiglia a niente che avessi fino ad oggi letto.
La scrittura di Davide Peace mi ha  in principio confusa, disorientata,  anche infastidita (lo ammetto), ma alla fine mi dichiaro entusiasta.
 La forza del suo periodo sta nella ripetizione.
 
«Bill Shankly andò alla finestra. Bill Shankly tirò le tende. Bill Shankly guardò fuori dalla finestra, Bill Shankly guardò in strada. La strada deserta, le case silenziose. Le tende tirate, le porte chiuse a chiave. Tirate e chiuse a doppia mandata per sempre». Pressappoco questo è il ritmo di tutte le seicentocinquanta pagine,ed è questo ritmo a fare di Peace uno scrittore epico. La sua narrazione è epica.Il suo periodare è pulsante, coinvolgente. Totalizzante.
Fatevi questo regalo. Sperimentate  una delle penne più potenti in circolazione. Sono assicurate ore di puro piacere, grazie alla maestria di Peace, grazie ad uno scrittore capace di consacrare tutto ciò sfiora con il suo genio in leggenda .

mercoledì 10 agosto 2016

La vecchia più vecchia del mondo

Netty quel primo mattino si affacciò al balcone e la vide, per la prima volta. La vecchia più vecchia del mondo. La più decrepita vecchia che avesse mai visto. La più malconcia vecchia che ancora viveva su questa terra. Netty la vide. E Vide il braccio rinsecchito attaccato al bastone. E vide, attaccato al bastone e poi al braccio, tutto il resto del corpo, rinsecchito anch'esso da chissà quante stagioni terrestri. Vide la gobba, e le sembrò enorme, spropositata. E la vecchia rinsecchita le sembrò un ramo di un ulivo. E a Netty sembrò che un' altra sola stagione terrestre di sole e un' altra sola stagione terrestre di acqua e un'altra sola stagione terrestre di vento, e il ramo sarebbe finito nella terra, ai piedi dell'ulivo. La vecchia più vecchia del mondo vide Netty. I loro occhi finirono gli uni in quelli dell'altra. E si guardarono dai balconi, in silenzio. La vecchia aveva visto ogni bene, con quegli occhi. E ogni male. E sapeva distinguere il bene e il male negli occhi degli uomini. E gli occhi di Netty le sembrarono buoni. Fece quello che faceva ogni volta che incontrava uno degli uomini che erano buoni: sorrise impercettibilmente. Il secondo mattino una voce di bambino si levò e cominciò, frantumando il silenzio. “Aaaaaaaa”, face il bambino. “aaaaaaaaaa”, ancora. “ Aaaaaaaa”, ancora. Poi l' “aaaaaaaaaaaaa” divenne continuo, costante, interminabile. L' “aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa” più lungo che Netty avesse mai sentito. E l'”aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa” più lungo che la vecchia avesse mai sentito. Dal balcone la vecchia più vecchia del mondo chiese: -”Chi è? “ E l'”aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa” più lungo del mondo rispose. E la vecchia più vecchia del mondo guardò negli occhi il bimbo che faceva l'”aaaaaaaaaaa” più lungo del mondo e la mamma del bimbo che faceva l'”aaaaaaaaa” più lungo del mondo e fece quello che faceva ogni volta che incontrava il bene mischiato al dolore. Il bene mischiato al dolore e alla rassegnazione. Il bene mischiato al dolore, alla rassegnazione e all'amore: sorrise. Il terzo mattino la gobba, il corpo, il braccio e il bastone della vecchia più vecchia del mondo ebbero nostalgia del mare. E insieme, a fatica, puntarono la terra passo dopo passo, si ancorarono alla terra passo dopo passo e arrivarono al mare. Netty li vide e attese l'incontro tra il mare e la vecchia più vecchia del mondo. Il mare che è più vecchio di ogni vecchia più vecchia del mondo, che conosce ogni bene e ogni male, e distingue ogni uomo buono da quello cattivo, si comportò come si conviene con gli uomini meritevoli: le andò in contro e si inchinò a baciarle i piedi.
Il quarto mattino Netty vide ancora il mare più vecchio del mondo correre incontro alla vecchia più vecchia del mondo. E Netty comprese la profondità del mare e la profondità dell'uomo, perchè nella profondità non ci può essere cecità e infatti quel giorno non ci fu cecità ma solo profondità. Dopo che la gobba, il corpo, il braccio e il bastone furono a riva si sedettero a riposare. E la gobba e il corpo, il braccio e il bastone sentirono il tocco di due mani e il peso di un bimbo. Le due mani appartenevano infatti ad un bimbo. La vecchia più vecchia del mondo attese che lo sguardo finisse. La vecchia più vecchia del mondo sapeva che le mani del bimbo erano gli occhi del bimbo e che il bimbo stava solo osservando il mondo. La vecchia sapeva che negli occhi bui del bimbo c'era l'universo e il creato tutto e che il bimbo, con le manine di bimbo che erano i suoi altri occhi, esplorava l 'universo e il creato tutto. La vecchia sapeva che il bimbo tastava l'universo e il creato tutto di cose che stavano lì fuori per riconoscere le cose, dare loro il nome che avevano lì fuori e sistemarle nel suo archivio di cose e di nomi. Il bimbo posò quel suo sguardo sul bastone. E la mamma gli urlò di no, di non toccare e la vecchia sorrise alla mamma e le disse che il bimbo poteva guardare, e la vecchia rispose al bimbo che chiedeva cosa fosse:-” un bastone”. E il bimbo toccò ancora e ancora e ripete :-” bastone”, perché aveva osservato il bastone. Poi il bimbo posò quel suo sguardo sulla gobba. E di nuovo la mamma urlò di non toccare , e di nuovo la vecchia le disse di lasciarlo fare e rispose al bimbo che chiedeva cosa fosse:-” la mia gobba”. Il bimbo toccò e ripeté:-” la tua gobba”, perché aveva visto la gobba. E la vecchia più vecchia del mondo sorrise verso il mare, aspettando che con la sua profondità arrivasse per vincere la cecità. E ancora una volta il mare, che è l'universo e creato, si comportò come conviene con gli uomini che esplorano il creato e ne sono meritevoli: corse a baciare i piedi del bimbo. E il bimbo vide il mare e disse alla vecchia:-” questo è il mare, lo vedo”-.

La vecchia più vecchia del mondo

Netty quel primo mattino si affacciò al balcone e la vide, per la prima volta. La vecchia più vecchia del mondo. La più decrepita vecchia che avesse mai visto. La più malconcia vecchia che ancora viveva su questa terra. Netty la vide. E Vide il braccio rinsecchito attaccato al bastone. E vide, attaccato al bastone e poi al braccio, tutto il resto del corpo, rinsecchito anch'esso da chissà quante stagioni terrestri. Vide la gobba, e le sembrò enorme, spropositata. E la vecchia rinsecchita le sembrò un ramo di un ulivo. E a Netty sembrò che un' altra sola stagione terrestre di sole e un' altra sola stagione terrestre di acqua e un'altra sola stagione terrestre di vento, e il ramo sarebbe finito nella terra, ai piedi dell'ulivo. La vecchia più vecchia del mondo vide Netty. I loro occhi finirono gli uni in quelli dell'altra. E si guardarono dai balconi, in silenzio. La vecchia aveva visto ogni bene, con quegli occhi. E ogni male. E sapeva distinguere il bene e il male negli occhi degli uomini. E gli occhi di Netty le sembrarono buoni. Fece quello che faceva ogni volta che incontrava uno degli uomini che erano buoni: sorrise impercettibilmente. Il secondo mattino una voce di bambino si levò e cominciò, frantumando il silenzio. “Aaaaaaaa”, face il bambino. “aaaaaaaaaa”, ancora. “ Aaaaaaaa”, ancora. Poi l' “aaaaaaaaaaaaa” divenne continuo, costante, interminabile. L' “aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa” più lungo che Netty avesse mai sentito. E l'”aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa” più lungo che la vecchia avesse mai sentito. Dal balcone la vecchia più vecchia del mondo chiese: -”Chi è? “ E l'”aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa” più lungo del mondo rispose. E la vecchia più vecchia del mondo guardò negli occhi il bimbo che faceva l'”aaaaaaaaaaa” più lungo del mondo e la mamma del bimbo che faceva l'”aaaaaaaaa” più lungo del mondo e fece quello che faceva ogni volta che incontrava il bene mischiato al dolore. Il bene mischiato al dolore e alla rassegnazione. Il bene mischiato al dolore, alla rassegnazione e all'amore: sorrise. Il terzo mattino la gobba, il corpo, il braccio e il bastone della vecchia più vecchia del mondo ebbero nostalgia del mare. E insieme, a fatica, puntarono la terra passo dopo passo, si ancorarono alla terra passo dopo passo e arrivarono al mare. Netty li vide e attese l'incontro tra il mare e la vecchia più vecchia del mondo. Il mare che è più vecchio di ogni vecchia più vecchia del mondo, che conosce ogni bene e ogni male, e distingue ogni uomo buono da quello cattivo, si comportò come si conviene con gli uomini meritevoli: le andò in contro e si inchinò a baciarle i piedi.
Il quarto mattino Netty vide ancora il mare più vecchio del mondo correre incontro alla vecchia più vecchia del mondo. E Netty comprese la profondità del mare e la profondità dell'uomo, perchè nella profondità non ci può essere cecità e infatti quel giorno non ci fu cecità ma solo profondità. Dopo che la gobba, il corpo, il braccio e il bastone furono a riva si sedettero a riposare. E la gobba e il corpo, il braccio e il bastone sentirono il tocco di due mani e il peso di un bimbo. Le due mani appartenevano infatti ad un bimbo. La vecchia più vecchia del mondo attese che lo sguardo finisse. La vecchia più vecchia del mondo sapeva che le mani del bimbo erano gli occhi del bimbo e che il bimbo stava solo osservando il mondo. La vecchia sapeva che negli occhi bui del bimbo c'era l'universo e il creato tutto e che il bimbo, con le manine di bimbo che erano i suoi altri occhi, esplorava l 'universo e il creato tutto. La vecchia sapeva che il bimbo tastava l'universo e il creato tutto di cose che stavano lì fuori per riconoscere le cose, dare loro il nome che avevano lì fuori e sistemarle nel suo archivio di cose e di nomi. Il bimbo posò quel suo sguardo sul bastone. E la mamma gli urlò di no, di non toccare e la vecchia sorrise alla mamma e le disse che il bimbo poteva guardare, e la vecchia rispose al bimbo che chiedeva cosa fosse:-” un bastone”. E il bimbo toccò ancora e ancora e ripetè :-” bastone”, perchè aveva osservato il bastone. Poi il bimbo posò quel suo sguardo sulla gobba. E di nuovo la mamma urlò di non toccare , e di nuovo la vecchia le disse di lasciarlo fare e rispose al bimbo che chiedeva cosa fosse:-” la mia gobba”. Il bimbo toccò e ripetè:-” la tua gobba”, perchè aveva visto la gobba. E la vecchia più vecchia del mondo sorrise verso il mare, aspettando che con la sua profondità arrivasse per vincere la cecità. E ancora una volta il mare, che è l'universo e creato, si comportò come conviene con gli uomini che esplorano il creato e ne sono meritevoli: corse a baciare i piedi del bimbo. E il bimbo vide il mare e disse alla vecchia:-” questo è il mare, lo vedo”-.

martedì 9 agosto 2016

Letargo



Il mio primo rifugio è dentro me stessa. Là vado ogni volta che annuso ostilità nel mondo. Mi metto in posizione fetale e aspetto che il maestrale passi. 
Ho, poi, una seconda tana. Si tratta del primo ombrellone della prima fila dell'ala destra del 
lido di Procida, giù alla Chiaiolella. Là vado invece ogni anno per il letargo di Luglio. Niente di 
che. Se è lecito considerare poco un ombrellone vecchiotto, affrancato dal comfort garantito
delle spiagge modaiole, rivolto verso lo spuntone di Vivara e la zona “porto” della 
dirimpettaia Ischia. Sotto quel cappello bianco e azzurro, inclinato ad arte in attesa del vento 
che puntuale si leva a metà di ogni pomeriggio, rigorosamente nell'ordine, un lettino al 
sole, una sdraio all'ombra, il libro del momento e la sottoscritta. 
Là ho addomesticato i banchi di paura che mi annebbiavano la mente, nell'attesa di 
trasferirci in Turchia, nel 2005, mentre le quattro carabattole traslocate via da casa , stipate in 
un container, già solcavano il Mediterraneo verso la nuova meta. Là ne abbiamo atteso il 
ritorno tre anni dopo, alle prese con la solita foschia che prendeva piede nella mia testa volata 
già a Pordenone, successiva destinazione. E poi ancora là con questo ritmo di andate e ritorni, 
con scadenza più o meno triennale negli anni a venire, fino ad oggi. 
Nel letargo di luglio costringo il corpo, con ostinazione, all'ozio. Lascio invece la mente a briglia 
sciolta. Lei devota, confidente, si lancia al galoppo. Si sfianca nel tentativo di trattenere le 
parole dei libri che le impongo, e incamerare le immagini di quanto più mare 
è possibile per quando ce ne sarà mancanza. Tutto con il ritmo di gara alla conquista di 
primati.
Il mio vicino é un professore. In pensione. Un artista. Pittore. Arriva, si sistema. Estrae dalla 
borsa i fogli per acquerelli, quindi gli acquerelli, infine i pennelli . Concentra per qualche istante
lo sguardo su un punto dell'orizzonte, immerge la punta del pennello nell'ex contenitore di 
pillole nobilitato – ormai ferro del mestiere- a recipiente per l'acqua, le fa compiere nel 
quadratino di colore i giri che reputa utili a raggiungere il tono desiderato e affronta 
il foglio, dove la mano mai incerta, ad ogni identica ripetizione della sequenza, genera sulla 
carta, in forma compiuta, l'idea. Come se la vista del Professore avesse la 
mirabolante capacità di germogliare frutti. Frutti che nascono già maturi. 
Spesso Lui si concede una pausa dal dipingere. Io dal leggere e parliamo. Di arte, di libri, di 
artisti e scrittori. Le sue parole sono belle lezioni.
Questa è la quotidianità del mio letargo.
M'è venuta, uno di questi giorni, l'idea di imitarlo. Sono scesa anch'io in spiaggia con i ben più 
modesti ferri di quello che mi sarebbe piaciuto fosse il mio mestiere: una penna e il 
quadernetto degli appunti, nero, rigorosamente di una nota marca “da scrittori”.
Mentre intorno bambini frignavano inseguiti da mamme inquiete come solo alla vista della 
sabbia e del mare le mamme sanno essere , adolescenti palleggiavano con ostinazione dribblando pure i nostri piedi e le onde ci sfidavano ad indietreggiare, quando il professore si è
messo all'opera mi sono messa al lavoro anche io.
Ho puntato lo sguardo sull'orizzonte, poi su Vivara. Ancora all'orizzonte, ancora Vivara . Mentre 
sul foglio del mio vicino si materializzava la spuma dei cavalloni nella sua composita varietà di 
sfumature, la mia pagina rimaneva bianca. Eppure di quei bambini e delle loro mamme, dei 
ragazzi e delle onde avevo colto abbastanza. Le prepotenze, i capricci, i litigi li avevo visti. Le 
voci, i visi, le mosse di bimbetti di tre o quattro anni biondi, brunetti, cosparsi di crema e 
comunque abbronzati, li avevo visti. Un fronte a tratti compatto a tratti in guerra, come nei 
giochi di tutti bambini . Anche il fronte delle mamme avevo ascoltato. Parole pettegole, 
appuntite, risatine compiacenti o sardoniche, rimproveri e lodi, le avevo ascoltate. Annotato ogni cosa, come si fa
quando bisogna tradurre tutto in parole.
Che il professore ed io guardassimo due paesaggi diversi? Che l' orizzonte a cui dovevo lavorare
io fosse un altro e per questo sul foglio le mie parole non attecchivano?
Si, decisamente. Mi ero persa altrove, in un altro orizzonte, io. Il mio sguardo era fermo su 
un'altra Vivara. 
A ore dodici, a riva due testoline emergono e si immergono dalle onde. Una liscia, l'altra riccia. 
Ubbidienti non si allontanano pur sperimentando il mare. Chiudo gli occhi e quando li riapro le 
vedo allontanarsi, senzs più nemmeno il bracciolo. Chiudo gli occhi e quando li riapro le due 
sagome sono sempre lì, a ore dodici ma più a largo, giocano a pallone in una cerchia di 
coetanei. Chiudo gli occhi ancora e ancora le rivedo, una liscia e una riccia, in quello stesso 
specchio di mare, che nuotano e si allontanano come nuotano e si allontanano gli adulti. Gli 
anni passano ad ogni battito di palpebre e io continuo a osservare la mia pesca miracolosa dal 
solito rifugio. Chiudo gli occhi. Li riapro e la mia pesca miracolosa è altrove, lontana che si 
cimenta con il mare della vita. E io posso, voglio, devo immaginarla nuotare a largo.
Chissà se quando si sveglia dal letargo l'animale ha percezione del tempo trascorso. 
Si dice che il tempo passi in fretta quando ci si diverte.
Nel mio letargo sembra che le cose vadano in entrambi i modi. Che io non conservi l'idea del 
tempo che là mi è sfuggito e che questo tempo -della cura dell'anima- sia realmente fuggito più 
in fretta. Procida -lo dice ogni volta mia figlia quando dal vaporetto del ritorno “Terra Murata” 
piano sparisce dalla vista- è il posto in cui all'arrivo sembra che non lo si sia mai lasciato e alla 
partenza sembra che non ci sia mai stato approdo. 
Sotto quel cappello bianco e azzurro, inclinato ad arte in attesa del vento che puntuale si leva a metà di ogni pomeriggio, rigorosamente nell'ordine, un lettino al sole, una sdraio 
all'ombra, il libro del momento e la sottoscritta. 
Dieci anni e più. E chissà che prima o poi su questo foglio prenda forma la mia tana.

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...