martedì 9 agosto 2016

Letargo



Il mio primo rifugio è dentro me stessa. Là vado ogni volta che annuso ostilità nel mondo. Mi metto in posizione fetale e aspetto che il maestrale passi. 
Ho, poi, una seconda tana. Si tratta del primo ombrellone della prima fila dell'ala destra del 
lido di Procida, giù alla Chiaiolella. Là vado invece ogni anno per il letargo di Luglio. Niente di 
che. Se è lecito considerare poco un ombrellone vecchiotto, affrancato dal comfort garantito
delle spiagge modaiole, rivolto verso lo spuntone di Vivara e la zona “porto” della 
dirimpettaia Ischia. Sotto quel cappello bianco e azzurro, inclinato ad arte in attesa del vento 
che puntuale si leva a metà di ogni pomeriggio, rigorosamente nell'ordine, un lettino al 
sole, una sdraio all'ombra, il libro del momento e la sottoscritta. 
Là ho addomesticato i banchi di paura che mi annebbiavano la mente, nell'attesa di 
trasferirci in Turchia, nel 2005, mentre le quattro carabattole traslocate via da casa , stipate in 
un container, già solcavano il Mediterraneo verso la nuova meta. Là ne abbiamo atteso il 
ritorno tre anni dopo, alle prese con la solita foschia che prendeva piede nella mia testa volata 
già a Pordenone, successiva destinazione. E poi ancora là con questo ritmo di andate e ritorni, 
con scadenza più o meno triennale negli anni a venire, fino ad oggi. 
Nel letargo di luglio costringo il corpo, con ostinazione, all'ozio. Lascio invece la mente a briglia 
sciolta. Lei devota, confidente, si lancia al galoppo. Si sfianca nel tentativo di trattenere le 
parole dei libri che le impongo, e incamerare le immagini di quanto più mare 
è possibile per quando ce ne sarà mancanza. Tutto con il ritmo di gara alla conquista di 
primati.
Il mio vicino é un professore. In pensione. Un artista. Pittore. Arriva, si sistema. Estrae dalla 
borsa i fogli per acquerelli, quindi gli acquerelli, infine i pennelli . Concentra per qualche istante
lo sguardo su un punto dell'orizzonte, immerge la punta del pennello nell'ex contenitore di 
pillole nobilitato – ormai ferro del mestiere- a recipiente per l'acqua, le fa compiere nel 
quadratino di colore i giri che reputa utili a raggiungere il tono desiderato e affronta 
il foglio, dove la mano mai incerta, ad ogni identica ripetizione della sequenza, genera sulla 
carta, in forma compiuta, l'idea. Come se la vista del Professore avesse la 
mirabolante capacità di germogliare frutti. Frutti che nascono già maturi. 
Spesso Lui si concede una pausa dal dipingere. Io dal leggere e parliamo. Di arte, di libri, di 
artisti e scrittori. Le sue parole sono belle lezioni.
Questa è la quotidianità del mio letargo.
M'è venuta, uno di questi giorni, l'idea di imitarlo. Sono scesa anch'io in spiaggia con i ben più 
modesti ferri di quello che mi sarebbe piaciuto fosse il mio mestiere: una penna e il 
quadernetto degli appunti, nero, rigorosamente di una nota marca “da scrittori”.
Mentre intorno bambini frignavano inseguiti da mamme inquiete come solo alla vista della 
sabbia e del mare le mamme sanno essere , adolescenti palleggiavano con ostinazione dribblando pure i nostri piedi e le onde ci sfidavano ad indietreggiare, quando il professore si è
messo all'opera mi sono messa al lavoro anche io.
Ho puntato lo sguardo sull'orizzonte, poi su Vivara. Ancora all'orizzonte, ancora Vivara . Mentre 
sul foglio del mio vicino si materializzava la spuma dei cavalloni nella sua composita varietà di 
sfumature, la mia pagina rimaneva bianca. Eppure di quei bambini e delle loro mamme, dei 
ragazzi e delle onde avevo colto abbastanza. Le prepotenze, i capricci, i litigi li avevo visti. Le 
voci, i visi, le mosse di bimbetti di tre o quattro anni biondi, brunetti, cosparsi di crema e 
comunque abbronzati, li avevo visti. Un fronte a tratti compatto a tratti in guerra, come nei 
giochi di tutti bambini . Anche il fronte delle mamme avevo ascoltato. Parole pettegole, 
appuntite, risatine compiacenti o sardoniche, rimproveri e lodi, le avevo ascoltate. Annotato ogni cosa, come si fa
quando bisogna tradurre tutto in parole.
Che il professore ed io guardassimo due paesaggi diversi? Che l' orizzonte a cui dovevo lavorare
io fosse un altro e per questo sul foglio le mie parole non attecchivano?
Si, decisamente. Mi ero persa altrove, in un altro orizzonte, io. Il mio sguardo era fermo su 
un'altra Vivara. 
A ore dodici, a riva due testoline emergono e si immergono dalle onde. Una liscia, l'altra riccia. 
Ubbidienti non si allontanano pur sperimentando il mare. Chiudo gli occhi e quando li riapro le 
vedo allontanarsi, senzs più nemmeno il bracciolo. Chiudo gli occhi e quando li riapro le due 
sagome sono sempre lì, a ore dodici ma più a largo, giocano a pallone in una cerchia di 
coetanei. Chiudo gli occhi ancora e ancora le rivedo, una liscia e una riccia, in quello stesso 
specchio di mare, che nuotano e si allontanano come nuotano e si allontanano gli adulti. Gli 
anni passano ad ogni battito di palpebre e io continuo a osservare la mia pesca miracolosa dal 
solito rifugio. Chiudo gli occhi. Li riapro e la mia pesca miracolosa è altrove, lontana che si 
cimenta con il mare della vita. E io posso, voglio, devo immaginarla nuotare a largo.
Chissà se quando si sveglia dal letargo l'animale ha percezione del tempo trascorso. 
Si dice che il tempo passi in fretta quando ci si diverte.
Nel mio letargo sembra che le cose vadano in entrambi i modi. Che io non conservi l'idea del 
tempo che là mi è sfuggito e che questo tempo -della cura dell'anima- sia realmente fuggito più 
in fretta. Procida -lo dice ogni volta mia figlia quando dal vaporetto del ritorno “Terra Murata” 
piano sparisce dalla vista- è il posto in cui all'arrivo sembra che non lo si sia mai lasciato e alla 
partenza sembra che non ci sia mai stato approdo. 
Sotto quel cappello bianco e azzurro, inclinato ad arte in attesa del vento che puntuale si leva a metà di ogni pomeriggio, rigorosamente nell'ordine, un lettino al sole, una sdraio 
all'ombra, il libro del momento e la sottoscritta. 
Dieci anni e più. E chissà che prima o poi su questo foglio prenda forma la mia tana.

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