Mi chiamo Antonietta. Venni alla luce il 30 giugno di un anno che non vi dirò presso la clinica “Villa Cinzia” di Via Epomeo a Soccavo, da genitori entrambi e da più generazioni paesani doc.
La vita, il destino o la divinità -fate voi- mi hanno portato lontano dal sacro suolo che mi dette i natali. Nonostante l’esilio dorato –mi sono fatta pure tre anni a Posillipo, asciugando ‘le pezze’ al soffio della più nobile fra le brezze marine - continuo a definirmi soccavese. La ragione è che Soccavo -Signori miei- non è un semplice quartiere. Soccavo è un presupposto. Soccavo è uno “state of mind.”
Dice che le memorie siano la morte dello scrittore. Se non si è votati al suicidio perché buttare giù queste righe? Per rendere giustizia a “sub cava”, l’antico agglomerato di scavatori di piperno. Per infrangere l’immeritato silenzio dell’anonimato. Per spingerla finalmente sotto i riflettori della gloria. Le sorti del Vomero furono magnificate da Starnone in “Via Gemito”. Posillipo fu cantata dal suo La Capria. Al nostro “Bronx minore” non restano che brutte menzioni in cronaca e fugaci apparizioni nei racconti pulp di Lanzetta. Eppure gente capace ne ha sfornato quest’ ultimo avamposto della frontiera occidentale cittadina. E’ ora che uno dei suoi figli si assuma l’onere di celebrarla.
Scorrendo la storia della fascia di terra acquattata sotto ai Camaldoli con pregevole vista sulla vomerese-Napoli-bene, si apprende che l’area dove oggi sorge il quartiere coincideva con la parte rurale di Neapolis detta in greco "kora". Signori miei, sono soddisfazioni. Noi autoctoni ci pigliamo finalmente la rivincita. Non è cosa da poco veder confermato dai libri, una volta e per tutte, ciò che da sempre e con orgoglio sosteniamo: “Soccavo è Kor ‘e Napoli”. E che cuore. Pulsante, palpitante, vibrante.
Vi siete mai concessi una capatina in zona il sabato pomeriggio o la mattina di una qualsiasi delle feste comandate? Non un filo di traffico lungo la rotta per l’agognata meta. Il resto della città è sonnacchiosa. Si crogiola in una calma tutta residenziale fino a quando non si arriva all’ingresso nord della strada dello scioppìng per antonomasia, Via dell’Epomeo, perennemente inzeppata di auto, brulicante di gente come nemmeno la più affollata Avenida brasiliana in pieno carnevale.
A questo punto per individuare “il tipo antropologico locale” è necessaria una precisazione.
I furastieri, sono quelli che commettono l’imperdonabile svarione di identificare Soccavo con Via dell’Epomeo. I paesani, invece, sempiterni vigili delle tradizioni locali, li riconosci perché si divertono a rimarcare il grossolano errore.
Un Soccavese doc farà sempre la differenza tra l’essere e l’abitare. Lui, nella fattispecie, abiterà pure in via dell’Epomeo ma sarà sempre prima di ogni cosa di Soccavo.
Essere stato generato dal ventre di questa madre significa portarsi dentro il know how per qualsiasi scenario la vita ti proponga.
Anche se la città, senza chiederti il permesso, s’è inglobata la campagna del nonno dove raccoglievi le arance da bambino, quella selvatica delle partite di pallone da adolescente e quella “dei monti” delle Pasquette a chilometro zero e tu ora ti atteggi a cittadino, la verità è che sei e sempre resterai campagnolo.
E’ con quello spirito cafone che sei emigrato per la prima volta, zaino in spalla, alla volta del Vomero per fare le scuole grosse, ché a Soccavo non ci stavano le superiori. Così quando più tardi ti sei trovato a mangiare il pane salato, trapiantato lontano per motivi di lavoro, sapevi già come andava la faccenda del distacco, del sentirsi un pesce fuor d’acqua, dell’essere straniero a casa altrui.
A Soccavo, per quanto fino agli anni ottanta non ci sia stata un’ autonoma rappresentanza di intellettuali –i laureati li importavamo sempre dalla stessa famigerata collina vomerese affinché, come missionari laici, ci istruissero o ci curassero alla bisogna - non ci è mancato nulla.
La grande musica, dal punk a Woodstock, partiva dall’Inghilterra e dall’America e veniva a illuminare i nostri pomeriggi delle estati senza mare. Tanto per dirne una abbiamo pianto la morte di Bob Marley come fosse uno di noi, imbrattando di scritte alla memoria parecchi dei più prestanti muri del quartiere.
Grazie a una coraggiosa avanguardia di cultori che facevano contrabbando letterario anche il Gabbiano Jonathan si è librato nell’azzurro dei cieli soccavesi regalandoci, sotto il segno delle sue cabrate, i primi aneliti verso una sconosciuta libertà.
Pure il pugno allo stomaco della droga ci ha colpiti. Proprio come nella Berlino di Cristiana F. abbiamo avuto il nostro piccolo zoo di anime fragili e ribelli. Dolore, lacrime e vite drammaticamente spente, che rimarranno nel cuore come una sanguinosa ferita permanente.
Soccavo, insomma, meglio di New York o Londra e -mettiamoci pure il Medioriente- anche di Istanbul. Soccavo paradigma e dagherrotipo di tutta la storia mondiale, nazionale, cittadina. Soccavo state of mind, appunto.
Non c’è un tempo sufficientemente lungo da cancellare le origini. Così, quando dici che vieni da Napoli e qualcuno, affidandosi a una frase fatta, ti chiede: - “sei nato all’ombra del Vesuvio?” - Ancora oggi tu sorridi e di rimando replichi: - “ma ‘qua Vesuvio: io sono nata all’ombra dei Camaldoli”
La vita, il destino o la divinità -fate voi- mi hanno portato lontano dal sacro suolo che mi dette i natali. Nonostante l’esilio dorato –mi sono fatta pure tre anni a Posillipo, asciugando ‘le pezze’ al soffio della più nobile fra le brezze marine - continuo a definirmi soccavese. La ragione è che Soccavo -Signori miei- non è un semplice quartiere. Soccavo è un presupposto. Soccavo è uno “state of mind.”
Dice che le memorie siano la morte dello scrittore. Se non si è votati al suicidio perché buttare giù queste righe? Per rendere giustizia a “sub cava”, l’antico agglomerato di scavatori di piperno. Per infrangere l’immeritato silenzio dell’anonimato. Per spingerla finalmente sotto i riflettori della gloria. Le sorti del Vomero furono magnificate da Starnone in “Via Gemito”. Posillipo fu cantata dal suo La Capria. Al nostro “Bronx minore” non restano che brutte menzioni in cronaca e fugaci apparizioni nei racconti pulp di Lanzetta. Eppure gente capace ne ha sfornato quest’ ultimo avamposto della frontiera occidentale cittadina. E’ ora che uno dei suoi figli si assuma l’onere di celebrarla.
Scorrendo la storia della fascia di terra acquattata sotto ai Camaldoli con pregevole vista sulla vomerese-Napoli-bene, si apprende che l’area dove oggi sorge il quartiere coincideva con la parte rurale di Neapolis detta in greco "kora". Signori miei, sono soddisfazioni. Noi autoctoni ci pigliamo finalmente la rivincita. Non è cosa da poco veder confermato dai libri, una volta e per tutte, ciò che da sempre e con orgoglio sosteniamo: “Soccavo è Kor ‘e Napoli”. E che cuore. Pulsante, palpitante, vibrante.
Vi siete mai concessi una capatina in zona il sabato pomeriggio o la mattina di una qualsiasi delle feste comandate? Non un filo di traffico lungo la rotta per l’agognata meta. Il resto della città è sonnacchiosa. Si crogiola in una calma tutta residenziale fino a quando non si arriva all’ingresso nord della strada dello scioppìng per antonomasia, Via dell’Epomeo, perennemente inzeppata di auto, brulicante di gente come nemmeno la più affollata Avenida brasiliana in pieno carnevale.
A questo punto per individuare “il tipo antropologico locale” è necessaria una precisazione.
I furastieri, sono quelli che commettono l’imperdonabile svarione di identificare Soccavo con Via dell’Epomeo. I paesani, invece, sempiterni vigili delle tradizioni locali, li riconosci perché si divertono a rimarcare il grossolano errore.
Un Soccavese doc farà sempre la differenza tra l’essere e l’abitare. Lui, nella fattispecie, abiterà pure in via dell’Epomeo ma sarà sempre prima di ogni cosa di Soccavo.
Essere stato generato dal ventre di questa madre significa portarsi dentro il know how per qualsiasi scenario la vita ti proponga.
Anche se la città, senza chiederti il permesso, s’è inglobata la campagna del nonno dove raccoglievi le arance da bambino, quella selvatica delle partite di pallone da adolescente e quella “dei monti” delle Pasquette a chilometro zero e tu ora ti atteggi a cittadino, la verità è che sei e sempre resterai campagnolo.
E’ con quello spirito cafone che sei emigrato per la prima volta, zaino in spalla, alla volta del Vomero per fare le scuole grosse, ché a Soccavo non ci stavano le superiori. Così quando più tardi ti sei trovato a mangiare il pane salato, trapiantato lontano per motivi di lavoro, sapevi già come andava la faccenda del distacco, del sentirsi un pesce fuor d’acqua, dell’essere straniero a casa altrui.
A Soccavo, per quanto fino agli anni ottanta non ci sia stata un’ autonoma rappresentanza di intellettuali –i laureati li importavamo sempre dalla stessa famigerata collina vomerese affinché, come missionari laici, ci istruissero o ci curassero alla bisogna - non ci è mancato nulla.
La grande musica, dal punk a Woodstock, partiva dall’Inghilterra e dall’America e veniva a illuminare i nostri pomeriggi delle estati senza mare. Tanto per dirne una abbiamo pianto la morte di Bob Marley come fosse uno di noi, imbrattando di scritte alla memoria parecchi dei più prestanti muri del quartiere.
Grazie a una coraggiosa avanguardia di cultori che facevano contrabbando letterario anche il Gabbiano Jonathan si è librato nell’azzurro dei cieli soccavesi regalandoci, sotto il segno delle sue cabrate, i primi aneliti verso una sconosciuta libertà.
Pure il pugno allo stomaco della droga ci ha colpiti. Proprio come nella Berlino di Cristiana F. abbiamo avuto il nostro piccolo zoo di anime fragili e ribelli. Dolore, lacrime e vite drammaticamente spente, che rimarranno nel cuore come una sanguinosa ferita permanente.
Soccavo, insomma, meglio di New York o Londra e -mettiamoci pure il Medioriente- anche di Istanbul. Soccavo paradigma e dagherrotipo di tutta la storia mondiale, nazionale, cittadina. Soccavo state of mind, appunto.
Non c’è un tempo sufficientemente lungo da cancellare le origini. Così, quando dici che vieni da Napoli e qualcuno, affidandosi a una frase fatta, ti chiede: - “sei nato all’ombra del Vesuvio?” - Ancora oggi tu sorridi e di rimando replichi: - “ma ‘qua Vesuvio: io sono nata all’ombra dei Camaldoli”