Durante una visita a Palazzo San Giacomo, di quelle
organizzate dal Comune per avvicinare –credo- i cittadini alle istituzioni, ho
fatto conoscenza con una persona speciale, volto tra i più antichi della mia
città. Mi riferisco alla “Cap’ e’ Napule”
nota pure con il titolo di “Marianna”.
Pare sia popolare assai eppure, prima del nostro fortuito faccia a faccia, io non avevo sentito parlarne e non l’avevo incontrata mai.
Pare sia popolare assai eppure, prima del nostro fortuito faccia a faccia, io non avevo sentito parlarne e non l’avevo incontrata mai.
Sta sulla scalinata che porta ai piani superiori dell’edificio oggi sede del Comune.
Utilizzare un’espressone più consona per descriverne la collocazione –troneggia, ad esempio- non è possibile, dacché l’averla inserita nello spazio cavo della finestra, nel mezzo del ballatoio della scala biforcuta del primo piano, non giova propriamente a conferirle la maestosità che probabilmente si cercava.
La nicchia che le si apre alle spalle, nonostante quella finestra male imbiancata sovrastante, la pone infatti in ombra, tanto da farne l‘umile “guardaporte”, piuttosto che “Signora” del palazzo. Le si tira dritto davanti senza neanche salutare, a meno che qualcuno non solleciti l'atto. Della “Marianna nostra” è rimasto solo il moncone di una capa gigante. Ma su quelle ormai inesistenti spalle, di cui le tante vicissitudini l’hanno privata, ugualmente la storia ha fatto in modo di pesare.
Nata nobile -lo si intuisce dal marmo in cui è scolpita, dalla compostezza della pettinatura, dall'armonia classicheggiante del volto- al tempo in cui Napoli parlava greco, ha trascorso l’infanzia badando agli scugnizzi che le si affaccendavano sotto gli occhi negli angoli di strada e nelle piazze in cui, di volta in volta, fu costretta a traslocare. Spettatrice della parabola di Masaniello a piazza Mercato, si guadagnò poi l’appellativo di “Marianna”, a supponta delle sorella maggiore d’oltralpe, durante la rivoluzione del ’99. Non evitò infine i bombardamenti di via Marina della seconda guerra. Non ha mai perso la faccia, un po' come i suoi concittadini. Piuttosto solo il naso, riattaccatole ogni volta con operazioni di estetica non sempre riuscitissime.
Utilizzare un’espressone più consona per descriverne la collocazione –troneggia, ad esempio- non è possibile, dacché l’averla inserita nello spazio cavo della finestra, nel mezzo del ballatoio della scala biforcuta del primo piano, non giova propriamente a conferirle la maestosità che probabilmente si cercava.
La nicchia che le si apre alle spalle, nonostante quella finestra male imbiancata sovrastante, la pone infatti in ombra, tanto da farne l‘umile “guardaporte”, piuttosto che “Signora” del palazzo. Le si tira dritto davanti senza neanche salutare, a meno che qualcuno non solleciti l'atto. Della “Marianna nostra” è rimasto solo il moncone di una capa gigante. Ma su quelle ormai inesistenti spalle, di cui le tante vicissitudini l’hanno privata, ugualmente la storia ha fatto in modo di pesare.
Nata nobile -lo si intuisce dal marmo in cui è scolpita, dalla compostezza della pettinatura, dall'armonia classicheggiante del volto- al tempo in cui Napoli parlava greco, ha trascorso l’infanzia badando agli scugnizzi che le si affaccendavano sotto gli occhi negli angoli di strada e nelle piazze in cui, di volta in volta, fu costretta a traslocare. Spettatrice della parabola di Masaniello a piazza Mercato, si guadagnò poi l’appellativo di “Marianna”, a supponta delle sorella maggiore d’oltralpe, durante la rivoluzione del ’99. Non evitò infine i bombardamenti di via Marina della seconda guerra. Non ha mai perso la faccia, un po' come i suoi concittadini. Piuttosto solo il naso, riattaccatole ogni volta con operazioni di estetica non sempre riuscitissime.
Una Capa tanta di ricordi, insomma, la Marianna nostra, che dalla sua
scalinata di Palazzo San Giacomo, consapevole della città alle spalle continua a volgere lo sguardo al
mare. Non vede più il passato, ma non cerca di divinare sul futuro. Si direbbe che lo conosca già e si limiti a controllare che esso segua il proprio corso e non deragli. La bocca non sorride,
non ride ma neppure accenna il pianto. E' schiusa nell'atto di emettere lo spirito vitale che soffia sul golfo e i suoi abitanti.
Non c’è simbolo più azzeccato, io credo, per la nostra Napoli di una capa a
solo. Nella testa c’è tutto ciò che basta: i sentimenti, la
ragione e, perché no, anche un pizzico di pazzia. Il corpo è storia a parte. Il
corpo siamo noi, che da quando stiamo al mondo, all'ombra del Vesuvio, risultiamo
evanescenti, inconsistenti ma al contempo tanto ingombranti, proprio come la corporatura della faccia di Marianna sulla colonna, che pur
mancando si lascia intuire chiaramente.