giovedì 13 maggio 2021

gamglio 28

La solitudine di un aborto.
La gravidanza è una clessidra: nell'ampolla superiore scorre il "fieri", il divenire. Quel tempo dell'avvento è la finissima sabbia fatta di progetti, aspettative, incognite che fluisce all'ingiù. Nell'ampolla inferiore si accumula, contemporaneamente, il gruzzolo del compimento: la collinetta del nuovo punto di partenza. Quando la gestazione giunge felicemente a termine, ti ritrovi esultante alla sommità della piramide cui ha dato vita la lunga conta dei giorni. Guardi la creatura uscita da te e provi il brivido antico, unico, inconfondibile. Ti scuote e ti sconquassa l' esaltazione da delirio di onnipotenza creatrice. Quando invece, malauguratamente, tutto si interrompe prima, per cause naturali - come mi fu detto una volta, "non ogni fiore diventa frutto"- il brivido che ti attraversa, pur esso antico, è purtroppo gelido, spettrale. È il riverbero dello shock di non saper gestire la polvere in cui ti tocca affondare.
Resti prigioniera nella sfera di vetro isolante della clessidra, guardi verso l'alto la rena del futuro cristallizzato, che non accadrà più, e ti abbandoni sulle tragiche macerie del tuo più grande sogno a smaltire un dolore che è intriso di fallimento e vergogna. Per prima cosa scandagli la colpa. Ripensi ad ogni respiro, ogni passo, ogni boccone, ogni sorso perché di sicuro di essi almeno uno è stato sbagliato. Poi tocca ai secondi, ai minuti, alle ore, ai giorni vissuti. Li percorri febbrilmente cercando l'attimo esatto in cui il tuo cuore ha ripreso a battere da solo. Infine passi in rassegna il tuo corpo e lo condanni. Che sia dipeso dal sangue, dall'utero, dalla genetica, dalla lunghezza delle tue gambe, dal colore dei capelli, è alla fine lui da crocifiggere per non essere stato capace a generare.
C'è la possibilità di una riconciliazione. Ogni nuovo, ostinato tentativo di rifare un nuovo figlio -sai che ogni creatura è irreplicabile e ne perderai sempre di diversi, speranze di bambini che avrebbero avuto sorrisi diversi, voci diverse, pianti diversi- è un rimettere alla prova la tua carne, dandole il modo di recuperare, di dimostrare che non è infame traditrice. Se si impegna ce la può fare. Fallimento e vergogna. Questa è la solitudine del fallimento alla quale subentra quella della vergogna. Lo scuorno di non aver fatto quello che miliardi di donne, dalla notte dei tempi sono state programmate a realizzare: figliare. È fatica pesantissima dover pronunciare, davanti a chi ti chiede quanto manchi, la parola aborto. Prova insopportabile tanto che la volta successiva che rimani incinta aspetti a dare la notizia, per il terrore di replicare il viatico. È fatica insostenibile, a distanza di mesi, buttare l'occhio nei passeggini altrui e imporsi di non contare i mesi a ritroso, fantasticando su quando sarebbe stata grande ora la criatura tua.
E ritenti. Tenti ancora nonostante il panico e l'orrore. E ancora. Contro la logica, il buon senso. Ti aggrappi a tutto. Santi, Madonne, Dottori, Professori. Ti avvinghi a riti religiosi, a protocolli sanitari.
Ad ogni ecografia hai il cuore a mille. Speri che l'altro cuore stia resistendo e batta insieme al tuo.
Sono sprofondata nella voragine dell'aborto naturale due volte.
Alcune condizioni mi erano per fortuna favorevoli: avevo già una figlia a cui ritornare ad ogni naufragio. Ero giovanissima -sotto la trentina-. Ne posso scrivere ora al lume delle pacificazione visto che il terzo tentativo è stata, per benevolenza della sorte, una Vittoria.
Altri fattori , invece, sono stati crudeli come spuntoni. Ci ho camminato sopra come il più inesperto dei fachiri la prima volta sui carboni.
Avevo già una figlia a cui badare. Ero giovanissima: sotto la trentina. Ma soprattutto ero sola. In un paese straniero di cui non parlavo la lingua e ogni volta che accadeva, mio marito lontano per lavoro. Farlo tornare, chiamare mia madre che venisse a badare alla bambina durante il mio ricovero, incombenze che letteralmente mi rubavano la ragione.
Rimettere il naso fuori dalla porta, ricominciare a vivere, ogni volta, una tortura. Gestire il delirio inconcludente di mia madre che vive prigioniera di una personalissima matrioska del dolore. La sua sofferenza - a volerla tradurre in formula matematica- è direttamente proporzionale ai grandi di separazione nel legame d'amore. Da qui discende che nel ruolo di madre le spetta il dolore personale in cui si lacera la donna investita da una tragedia familiare, ad esso si accompagna il dolore della mamma che si strugge per le lacrime della figlia.
Infine c'è stata, nel mio caso -ma qui forse pecco di presunzione, perché credo di indovinarne un peso simile sulle spalle di tutte le consorelle in questa terribile avventura- una solitudine sociale.
Come ho detto vivevo all'estero, in una comunità inglese. I britannici avevano allora, non so se sia cambiata nel frattempo, una filosofia sull'allargamento della famiglia estremamente dissimile da quella della cultura mia di appartenenza. In Italia ero, sotto il profilo sociale, una madre giovanissima, perché si rimanda molto il fare figli. In Inghilterra le mie coetanee invece già spingevano passeggini con almeno due bambini. Mi sono sentita ancora più fallita in mezzo a tutte le altre mamme, isolata, appunto socialmente. Fino a quando una di loro, una mattina, ha bussato alla mia porta con un pacco di cioccolatini, per darmi il bentornato e dirmi appunto che non ero l'unica. A tante capita che "i fiori non divengano frutti".
Parlo, da allora, spesso apertamente dei miei due aborti. I racconti di quelle tragiche vicissitudini sono i cioccolatini -spero lo sia per qualcuno questo ganglio- che porgo alle altre donne per sostenerle nella fatica del ritorno dal territorio deserto della perdita. Per infondere loro un minimo di forza per continuare a camminare. Per alleviarne la solitudine, il vuoto, il senso di fallimento e la vergogna
 

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