giovedì 13 maggio 2021

ganglio 35


 I bambini capiscono le regole, tutti. Anche quelli che poi le infrangono. I bambini ubbidienti sono, poi, filologici nel rispettarle. Sono rigidi nei loro movimenti. Tendono a stare sempre nei margini, a tenere il passo, a impressionare gli adulti con il loro rigore. Quando un genitore si inventa cose nuove, rimangono spiazzati e conservano rispetto a quelle innovazioni lo stupore, nella medesima intensità e misura, anche da adulti. Ogni qualvolta fronteggeranno il deragliamento, anche se nel frattempo è divenuto regola a tutti gli effetti, loro avvertiranno un colpo al cuore, come se subissero un tradimento.

Mio padre, il quale ha evidentemente detestato guidare per tutta una vita, e ha cercato di evitare gli stress connessi all'uso dell’automobile in una grande città, compreso il problema del parcheggio, si inventò, pur di non accompagnare mia madre o noi figli ovunque, ben prima che qualunque amministrazione comunale ci pensasse, una zona pedonale che comprendeva tutto il centro di Napoli e il Vomero. Eludeva, così, ogni nostra richiesta con “ là non si può andare con la macchina”. La mappa dei divieti è talmente interiorizzata in me che la prima volta in cui mio maritò mi portò con un auto in una di quelle strade, gli urlai inorridita che non poteva infrangere le regole impudentemente. Ancora ci ridiamo su questo aneddoto, ma ancora, quando in macchina sfrecciamo ( si fa per dire, meglio sarebbe dire rimaniamo incastonati nel traffico) per le arterie centrali, io me ne stupisco e mi sento una fuorilegge.
Una lunga premessa per affrontare il “ganglio feste”. Il decalogo delle festività è uno dei “lessici famigliari” più classici e più difficili da scardinare. Infatti tutti abbiamo nostalgia dei Natali della nostra fanciullezza. Come erano le festività di cui ho il ricordo?
Religiose. I simboli, essenziali, anche un po’ bruttini, comparivano in casa dei nonni materni, il luogo dove si consumavano tutte le ricorrenze, grazie alla sbrigativa devozione di mia nonna, che era la sacerdotessa del rito. Si occupava di tutto, dalla spesa alla cucina. Prima l'albero sui cui rami legava con il filo rubato dalla sartoria del nonno caramelle e babbi natale di cioccolata, poi il presepe, poi noci, nocelle, fichi secchi, castagne spezzate, guantiere di roccocò, mustaccioli, raffaioli, susamielli, strufoli, e poi il baccalà, il capitone, le pupaccelle, e ancora la pigna da mettere sul fuoco per farle sputare i pinoli, la scarola riccia da imbottire. Questi i festoni con cui addobbava, altro che stelle, babbi natale e decorazioni floreali. I dì di festa si svolgevano secondo un cliché consolidato e inviolabile: i cenoni e i pranzi con gli immutabili menù tradizionali. La letterina di natale sotto il piatto, la recita della poesia sopra la sedia, i soldi questuati tra gli zii, tutti generosi. La tombola. Le messe. Sempre e solo in famiglia. Gli amici erano amenità da film americani. Le porte di casa al massimo si aprivano agli zii e cugini di secondo grado.
Ho un background tutt’altro che borghese. Famiglia artigiana e operaia. Tutto si fa mediando tra mores maiorum e possibilità economiche. I regali sotto l’albero non li ho visti mai da bambina. Per realizzare i desideri espressi nella letterina passava, a tempo debito, la befana. Eppure ad un certo punto, nell’anno in cui ero in terza media, attaccata maldestramente ad un ramo dell'improbabile albero allestito da nonna, comparve una busta per me. Mia madre mi regalò la mia prima borsa di cuoio, di quelle molto di moda all’epoca. Mi chiesi il perché di quel gesto. Scoprii dopo che in altre case il Natale era sempre andato così. Stavamo imparando, dalla televisione, o forse dalle riviste che mia madre leggeva, ad essere borghesi anche noi. Quello fu la vigilia della nostra alfabetizzazione ad una narrazione che avevamo fino ad allora bellamente ignorato. La nostra lallazione, incerta, parziale, maldestra, del Natale consumistico.
Come la pseudo zona pedonale di mio madre, così anche il Natale degli albori è rimasto per me un totem. Cucito sotto la pelle, la bambina filologica che sono rimasta nonostante gli anni, ha il Natale essenziale, modesto, naif al quale fui battezzata. Compro regali per tutti. Tantissimi, variegati. Ne riempio l’albero in una sorta di attacco bulimico che replico ogni anno. Ma è una facciata. Mi stupisco sempre davanti alla mia schizofrenia, è il mio guidare in certe strade dove penso sempre di non dover andare. Nel mio intimo resto fedele alla semplicità del passato. Il compleanno di Gesù. Questo resta per me il senso della festa, con la consapevolezza che quel bimbetto nel mio cuore deve rinascere ogni giorno. Non mi fa tristezza la prospettiva che fronteggiamo in quest’anno pandemico di dover trascorrere il periodo Natalizio sotto tono. Mi fa tristezza, però, la tristezza altrui. 

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