giovedì 13 maggio 2021

ganglio 38


 Da dove comincio? Dal trampolino, vertiginosa altezza dalla quale osservo il mare in cui sto per tuffarmi? Dall’istante in cui metabolizzo essere giunto, capitalizzato tutto il coraggio, l’improrogabile momento di buttarmi? Dagli attimi della caduta, durante i quali, come prescritto dal più canonico dei copioni, riavvolgo il nastro della mia intera vita e dico addio a ciò che è stato fino ad ora?

Comincio dalla cosa che, di quella vigilia, assolutamente non rifarei mai più: subire, senza opposizione alcuna, l’imposizione notturna dei bigodini inflittami dal parrucchiere. Soffro di una grave forma di letargia -con molta probabilità l’ho già scritto anche altrove- che si manifesta puntuale nei momenti di difficoltà. In faccia ai pericoli, alle preoccupazioni, ai problemi più seri io chiudo gli occhi e ... mi arrendo al richiamo di Morfeo. Sebbene involontariamente, dunque, io pratico, volendo dirla in forma poetica, il sonno come suprema arte della difesa. Ragione per cui ho l’assoluta certezza che, se non avessi avuto in testa quei cilindri giganteschi, in barba a tutti i miti e le prescrizioni previste dal manuale della sposa perfetta, avrei dormito otto ore filate e mi sarei svegliata, contrariamente a quanto mi accade di solito -non ho mai avuto necessità della sveglia, funzionando la mia biologica come una di quelle proverbialmente fabbricate in Svizzera- di controvoglia.
Questo l’unico neo che ancora, dopo ventinove anni, mi infastidisce. Plausibile. Su quel trampolino c’era la me ventiquattrenne e tutto ciò che si pianifica e si realizza a quell’età sfrutta la forza propulsiva della testardaggine, della fame di vita, della visionarietà. “Eravamo giovani, eravamo avventati, arroganti, stupidi, testardi. E avevamo ragione! Non rimpiango niente” ( Abbie Hoffman).
Come aggravante c’era e c’è ancora l’amore. Nessuna incertezza sul desiderio di saltare. Nessuna paura dell’altezza dalla quale mi lanciavo: i duecentocinquanta chilometri del trasferimento dall’ amatissima Napoli alla minuscola cittadina della provincia barese nella quale seguivo il mio futuro sposo. Avevo messo in conto e in qualche modo già elaborato il dispiacere per le tante separazioni. Lasciavo mia madre, la famiglia, gli amici. Le parole per descrivere ciò che già sapevo allora circa il sentimento del distacco me le ha regalate recentemente Niccolò Fabi: “La lontananza non è mai distanza”.
Undici gennaio. Una data insolita. Il matrimonio invernale solletica sospetti di gravidanze capitate per disattenzione. Oggi non fanno più scandalo, ma nel 1992 ancora fornivano residui spunti alle malelingue, per questo mia madre puntualizzava con fermezza ad ogni invito “ che mi sposavo d’inverno, si, ma non ero incinta!”. La scelta per noi, che avevamo altre frette, dettate dal desiderio di porre fine all'ormai insopportabile pendolarismo e allo speco di tempo da passare insieme constatata la fugacità del fato -era appena finita la “prima guerra del golfo” che ci aveva schivato per un soffio-, noi che ubbidivamo ad altre urgenze, suggerite dall’obiettivo di sottrarci a liste di attese per la chiesa, la sala ricevimenti, il fotografo e il fiorista lunghe anche anni, nonché dalla necessità di risparmiare il più possibile- mica da poco le prospettive aperte da un viaggio di nozze in bassa stagione- l’undici gennaio parve perfetto. Eccezionale perfino la coincidenza con il cinquantesimo anniversario dei miei nonni, una delle coppie più innamorate e inossidabili di sempre: sicuramente un irrinunciabile ottimo auspicio.
Quasi ad accondiscendere e premiare il mio spezzo del pericolo rappresentato dall’incognita del clima, si “schiarò” al mio fianco anche il bel tempo. Un sole primaverile, infatti, si impose stentoreo sulle nubi che alle prime luci dell’alba avevano minacciato i Camaldoli, oscurandoli con ombre preoccupanti. Ero stata risparmiata. Salva dalla mia scriteriata scelta di non indossare nessun coprispalla sopra l’abito di pizzo pensato da mia madre, di concerto con la nonna e zia e realizzato da una coppia di sarti dalle mani d’oro e dal talento incommensurabile.
Fui pronta in un baleno. Intransigente con il fotografo sui tempi, gli imposi una maratona pur di arrivare puntuale all’altare. Conoscendo il mio proposito e il mio temperamento, mio marito mandò un messaggero a fermarmi. Mi bloccò sulla soglia, implorandomi dal citofono di temporeggiare, visto che la chiesa, in prossimità dell’ora stabilita era semivuota, contando evidentemente gli invitati sul proverbiale ritardo della sposa.
Mi presentai così all’altare. Con i miei pochi anni, ma tutto sommato rivelatisi sufficienti alla prova del tempo. Con la trepidazione delle aspettative. Con le ansie chiuse nel cuore.
Il più bel giorno della vita di mia madre, alla quale, decidendo di deporre il mio caratteraccio, la mia propensione adolescenziale alla “bastiancontrarietà” - probabilmente sorprendendola assai per tanta insperata docilità- avevo affidato, non delegato, scelte importanti, compresa quella relativa al modello del vestito. Ancora oggi mamma è la prima a farmi gli auguri per l’anniversario, persa nella rievocazione del suo sogno principesco.
Come va la partenza non è importante. Mi interessava solo iniziarlo il viaggio. Siamo alla ventinovesima tappa. Il piglio e la disposizione d’animo sempre le stesse: calma e gesso e un giorno dopo l’altro, a comme vene! 

Nessun commento:

Posta un commento

Non è un pranzo di gala

Novembre 2022 📝📂Appunti molto random - al limite del plausibile- su "Non è un pranzo di gala" di Alberto Prunetti  1️⃣💸📚 come ...