giovedì 13 maggio 2021

ganglio 41


 Oggi è una giornata nebbiosa e particolarmente fredda. L’ordine degli aggettivi non è casuale. Rispecchia il mio grado di avversione agli elementi: odio la nebbia più ancora del freddo, che pure mi è insopportabile. Ho messo il naso fuori di casa giusto il tempo per ritirare un pacco in consegna. In questa sezione di vita nordica posso permettermelo. Di rimanere rintanata, intendo. Non ho figli da portare e recuperare in giro. Per il cibo, con le scorte fra frigo e dispensa, calcolo un’autonomia di una settimana. Sono scesa in giardino, andando incontro al corriere, data la celerità della missione, senza cappotto e in pantofole. Un gelo intenso mi ha percossa. Mi ha penetrata da capo a piedi come una scarica. Il ghiaccio ha scricchiolato sotto i piedi. Il soffio d’aria espirato dalle narici si è quasi solidificato mentre si saldava alla nebbia.

I rumori, i profumi e le consistenze di questo tipo di inverno le conosco bene per averle praticate in altre delle mie vite. Ne ho sperimentati molti di nord. Erano anni nei quali mi agitavano altre energie, mi ispiravano altre prospettive e mi incalzavano altre necessità. Altro che rinchiudersi al caldo dell’appartamento. Impossibile sospendere la vita con i figli in età scolare e sociale. Pioggia, neve, vento e nebbia che ci fossero, là fuori.
“ Avevo appena cominciato; eppure non sarebbe durata a lungo: sapevo che ad una scadenza prestabilita sarei tornato alla solita vita, più interessante agli occhi degli altri per via del soggiorno all’estero, probabilmente più magro, per il resto immutato. A Madrid non dovevo crearmi una vita oltre la più semplice routine quotidiana; non dovevo preoccuparmi di costruirmi un ambiente, qualunque cosa volesse dire. Avevo a disposizione il giorno infinito, i mesi infiniti, eppure la data di ritorno poneva il limite a questa sensazione di illimitatezza, le impediva di diventare minacciosa.”
Recentemente mi sono imbattuta in questo frammento. E’ tratto da “ Un uomo di passaggio” di Ben Lerner. Rilette, ineccepibile, il mio spirito durante questo che ho definito “l’ esilio ferrarese”. Nella città dei Finzi Contini, oltre alle figlie ormai per loro conto, oltre ai mobili “buoni”, alle suppellettili, ai quadri, ai tappeti e a ogni altra cosa a cui sono sentimentalmente legata, rimasta nella casa che ci aspetta a Napoli, mi pare di non aver neppure traslocato tutta me stessa.
Quando intrapresi, per le esigenze di lavoro di mio marito, l’esistenza raminga di cui quello attuale è l’ultimo atto, redassi una lista di “mai”. Un novero di azioni, di abitudini, di routine a cui giurai non mi sarei piegata, di errori che mi prefissi di evitare, di situazioni in cui mi impegnai a non finire. “Non accetteremo mai un trasferimento in Germania” – puntavo solo sui paesi anglofoni per ovvi problemi linguistici- la prima voce della nota. Occorre proprio che sveli la meta con la quale inaugurammo la stagione delle emigrazioni estere? In Germania abbiamo addirittura, a distanza di quindici anni, bissato l’esperienza -la seconda volta fu come tornare a casa- .
Ridussi naturalmente la nota in mille pezzi e la sostituiti con una massima inespugnabile: “mai dire mai”, a tutt’oggi unico faro nei momenti delle decisioni difficili.
Il rispecchiamento nel brano del romanzo di Lerner ha riportato alla memoria un’altra delle promesse del famoso elenco: “ Non sospenderò mai la mia vita in nessuno dei trienni, in attesa che il periodo di assegnazione finisca”. E rieccolo qua, il “Mai dire mai”. Nell’anno del Signore 2020, mentre fuori imperversano il freddo polare e la pandemia, io sono in attesa, per la prima volta, di premere il tasto play della mia vita.

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