giovedì 13 maggio 2021

ganglio 45

Metà ganglio, metà recensione: metaganglio-metarecensione de
" L’unica persona nera della stanza"
Un tempo ero molto ignorante. Incolta. Ero una somma di impreparazioni su moltissime materie curricolari di vita. La mia ignoranza era incolpevole, data l’età. In buona fede, eppure perniciosa per le sue possibili implicazioni quando fossi cresciuta. Ignoravo, per estrazione socioculturale familiare, molte cose del mondo, molte dell’ortodossia del vivere civile. Ignoravo la lingua italiana essendo stata allevata in vernacolo, le sfumature più sofisticate della buona educazione, le regole dei convenevoli altoborghesi. Ignoravo, ad esempio, pure il razzismo come eventualità vicina, e meno che mai sospettavo di poter essere io stessa razzista. Il Sud Africa era lontano, così l’Apartheid che l’affliggeva. L’unico contributo alla causa dei neri richiestomi era di scrivere, di tanto in tanto, uno zelante temino scolastico. Un tempo, dunque, sono stata molto più ignorante di quanto lo sia ora e sono stata molto più razzista di adesso. La primissima bracciata verso la risalita dal pozzo è stata l’acquisizione della consapevolezza che dopo una certa età l’ignoranza non può più, se non colpevolmente, ignorare sé stessa. Mi sono messa a studiare per colmare i vuoti e i buchi che facevano di me, in trasparenza, un colabrodo.
Ho imparato che tutto è costruzione, anche il sé. Che fondamenta, pilastri e finimenti di ogni costruzione restano sempre lo studio e la conoscenza. Che la qualità, la durata e bellezza delle fondamenta, dei pilasti e dei finimenti sono il prodotto della qualità dello studio e della quantità della conoscenza. Ho imparato altresì che, periodicamente, bisogna sottoporre a verifica il bagaglio accumulato.
Per semplicità – sperando di non banalizzare troppo- immagino i mei razzismo e antirazzismo come le due ante, ben separate, del mio guardaroba al cambio di stagione.
E’ il momento di appurare cosa ho stipato in un lato e cosa nell’altro ed eventualmente disfarmi di ciò che è fuori moda o non mi calza più bene. Si imporrà, al termine dell’operazione, l’esigenza di nuovi acquisti al passo con i tempi. Se, in preparazione ad una sessione di shopping, è utile sbirciare le riviste di settore per aggiornarsi sulle ultime tendenze, figurarsi quanto siano necessarie nuove letture per allestire un pensiero anti-razzista corrispondente alle esigenze di inclusività e assimilazione verso le quali dobbiamo tendere. Una lettura imprescindibile è, per me, “Americanah” di Chimanada Ngotzi Adichie. Un secondo tassello importante per l’ammodernamento che mi sono imposta, è “L’unica persona nera della stanza” di Nadeesha Uyangoda, edizioni 66TH A2ND, del quale mi accingo a parlare in maniera del tutto irrituale.
Molto più di un racconto autobiografico, molto più di un saggio. L’unica persona nera della stanza non è solo un testo di formazione, è anche un test di verifica del nostro livello di razzismo strutturale e interiorizzato ( individuale e collettivo). Consiglio alle insegnanti di proporlo agli alunni. Consiglio agli amici di leggerlo. Analizzare il tema in una prospettiva contemporanea è urgente, così come comparare i traguardi o i punti di stallo sui quali si è stabilizzata la nostra cultura in materia a quelli consolidati altrove, in Europa e più in generale nel mondo. Ancora più pregnante il contributo, se viene da chi il nostro razzismo, quello italiano doc, lo sperimenta ogni giorno sulla propria pelle, a partire dalla negazione della cittadinanza che lo discrimina e marginalizza.
Considerare “ L’unica persona nera della stanza “ una cartina di tornasole del mio grado di razzismo strutturale, significa necessariamente scavare nel mio passato. Significa corrompere queste righe, nate come appunti per la recensione del libro, fino a renderle inutilizzabili a tale scopo e rinunciare, in ultima analisi, alla recensione stessa, per dilatarla-convertirla in una narrazione autobiografica. Significa, in altre parole, sputare fuori un altro ganglio, quello del mio incontro con il nero.
Allora ricomincio: sono stata ignorante, e razzista a causa di quella ignoranza. Sono ancora oggi residualmente razzista per la parte di residua ignoranza che mi affligge e che intendo obbligatoriamente colmare. Sono una razzista strutturale intersezionale. Da ciascuna delle mie identità: familiare, sociale, culturale, nazionale, di genere, desumo un pezzetto di quel razzismo inconscio, introiettato di default, da cui devo nettarmi. Cercherò di non commettere errori -terminologici o ideologici- di essere quanto più corretta e rispettosa possibile, ma so che scapperanno strafalcioni, offese inconsapevoli, indelicatezze urticanti, di cui chiedo anticipatamente venia. Sto per affondare le mani nella mia preistoria e non edulcorerò nulla. Portatemi pazienza: sono qui per imparare, partendo dai miei errori. Non scuso il mio razzismo strutturale, non mi faccio sconti, solo lo contestualizzo.
Eccomi ritornata la bimbetta al primo anno di elementari che incontra per la prima volta un nero.
Nonno è sarto. Una clientela variegata. Tra i più affezionati -è bravo, onesto e anche simpatico- ci sono tanti professionisti. Gente del Vomero, con i titoli di studio grossi e soldi. Qualcuno tra essi ha sperimentato la novità, diffusasi presto tra i pari come una moda, di assumere a servizio persone “importate” apposta da Capo Verde. Nonno annuncia che uno di questi pomeriggi la signora manderà in sartoria il suo capoverdiano a ritirare l’abito. Lui lo ha già incontrato a casa della signora, per l’appunto. Ne tesse le lodi: affabile, simpatico, “si vede che è una brava persona “-dice. Ne decanta anche l’aspetto: alto, bella presenza, veste “pulito pulito” - aggiunge. Ma, al di là della gentilezza d’animo e delle pregiate doti di artigiano, nonno resta un sarto semianalfabeta che dal suo vocabolario estrae l’unico termine in dotazione per definire quest’uomo: “tizzone”, pezzo di carbone. Dice proprio così: quello è di Capoverde, è ‘nu tizzone. Ragguaglia noi di casa, ci mette in guardia, probabilmente, per evitare che facciamo o diciamo cose sbagliate, dato che, tolto quel dettaglio, Francesco -così si chiama- "è tale e quale a noi". Il fascismo, per me bambina, era leggenda lontana nel tempo, un fatto di mille anni prima. Per i nonni, invece cosa recentissima, di ieri. Così le sue implicazioni, come l’essere obbligati ad ottemperare alle vigenti leggi razziali discriminando il prossimo in base anche al colore della pelle. Avranno avvertito distintamente sulle loro teste spirare lo zefiro di trepidazione nel compiere il gesto ovvio, naturale, di stringere la mano di un altro uomo diverso solo per il colore della pelle, gesto che solo qualche anno prima sarebbe stato disdicevole. Per fortuna, in casa nostra, ben più radicati di quel pessimo retaggio del ventennio di Musollino -come lo chiamava nonno- sopravvivevano, vivi e vitali, i precetti evangelici e l’uguaglianza tra gli esseri umani non era in discussione. L’affabilità con cui fu accolto Francesco ebbe più che altro il sapore autentico della cordialità tra persone della stessa condizione socioeconomica, perché, diciamo la verità, la ghettizzazione da noi si esauriva ancora e soprattuto nel vaglio della classe sociale di collocazione.
Rimaneva tanto lavoro da fare nel backstage, per così dire, al fine di affinare- anche nell'uso privato, domestico- la lingua del nonno. Ci arrivammo con il tempo e con lo zampino del destino, quando, per virtù di un’adozione internazionale, la famiglia acquisì un nuovo membro: un bambino venuto dal Brasile, anche egli, per un caso, battezzato Francesco. La gioia dei figli per un genitore è sempre gioia moltiplicata. La felicità dei nonni di fronte alla realizzazione del desiderio di maternità della figlia minore funzionò come un velo che si posò sui loro occhi, rendendoli daltonici al colore della pelle di quel piccolino. Magie dell’amore. Stupirsi dello stupore altrui. Indignarsi dell’ignoranza d'altri. Farsi il sangue amaro per le altrui indelicatezza e stupidità. Un abbecedario di aneddoti sul quale, a forza di bocconi al fiele e lottando contro le sue stesse lacune culturali, l’intera famiglia ha imparato il razzismo e ha costruito il suo claudicante, insufficiente, inadeguato antirazzismo. Sono stata ignorante e razzista. Per alcuni aspetti lo sono ancora. Per fortuna è un male reversibile. Per fortuna ho a portata di mano la cura. 
 

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